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Sentenza del 21 gennaio 2019 – Presidente: Dott. Donato Pianta – Consigliere relatore: Dott. Giuseppe Magnoli

La
banca che intenda far valere un credito derivante da un rapporto di conto
corrente deve provare l’andamento dello stesso per l’intera durata del rapporto,
dal suo inizio e senza cesure di continuità.

I principi sono stati espressi nel giudizio di
appello promosso da una s.p.a. in liquidazione e concordato preventivo contro
la sentenza di primo grado che aveva respinto l’opposizione promossa dalla
medesima società avverso il decreto ingiuntivo emesso dal tribunale in favore
di una banca.

In particolare, l’appellante chiedeva che fosse
dichiarato illegittimo il decreto ingiuntivo in quanto emesso in assenza di
prova scritta idonea.

(Massima
a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 9 gennaio 2019 – Presidente: Dott. Donato Pianta – Consigliere estensore: Dott. Giuseppe Magnoli

Il
documento sui rischi in generale è finalizzato a rendere consapevole il
potenziale investitore dei rischi cui potrà andare incontro nel prosieguo del
rapporto e descrive, tra l’altro, i rischi correlati all’investimento in
strumenti finanziari. Da tale documento non può evincersi la caratterizzazione
del rischio correlata ad ogni singolo ordine di investimento, perché la sua funzione
è soltanto quella di fornire informazioni di base sui rischi connessi agli investimenti
e alle gestioni. La consegna del documento generale sui rischi non può quindi,
da sé sola, fornire la prova dell’intervenuto adempimento degli obblighi di
informazione posti a carico dell’intermediario.

Con
riguardo all’intermediazione finanziaria, l’affermazione o la negazione della
validità dei rapporti contrattuali e della responsabilità dell’intermediario
non possono emergere mediante indagine peritale, bensì sulla base dei soli
elementi probatori acquisiti al giudizio, ex art. 115 c.p.c., su impulso
delle parti (prova orale e documentale).

In tema di intermediazione finanziaria, il requisito
della forma scritta del contratto–quadro, posto, a pena di nullità (azionabile
dal solo cliente) dall’art. 23 del d.lgs n. 58 del 1998, va inteso non in senso
strutturale, ma funzionale, avuto riguardo alla finalità di protezione dell’investitore
assunta dalla norma, sicché tale requisito deve ritenersi rispettato ove il
contratto sia redatto per iscritto e ne sia consegnata una copia al cliente, ed
è sufficiente che vi sia la sottoscrizione di quest’ultimo, e non anche quella
dell’intermediario, il cui consenso ben può desumersi alla stregua di
comportamenti concludenti dallo stesso tenuti (Vedi Cass., SS.UU., n. 898 del
16 gennaio 2018)

La
validità dei contratti-quadro e delle relative integrazioni inerenti alle
operazioni in strumenti finanziari derivati deve essere valutata sulla base del
contenuto degli accordi così come risultanti nei contratti stessi, e non dell’attuazione,
o meno, di quanto in essi stabilito ed in generale di quanto previsto a carico
dell’intermediario come obbligazione di legge. L’eventuale inadempimento
infatti attiene al profilo funzionale della causa, non a quello genetico, e
pertanto incide sul piano della responsabilità contrattuale, e non su quello
della validità del negozio giuridico.

Il
fatto che la banca gestisca gli ordini vendendo i derivati e finanziando l’investitore
per il loro acquisto, così come la pluralità dei ruoli assunti dall’intermediario
per la compresenza di attività di consulenza, ricezione di ordini ed eventuale
finanziamento per la formazione della relativa provvista, non fa di per sé
presumere la sussistenza di interessi in conflitto rispetto a quelli dell’investitore.

Principi espressi a seguito
dell’impugnazione, da parte del cliente di un istituto di credito, della
sentenza del tribunale che aveva rigettato la domanda di
nullità, o comunque di invalidità, del
contratto quadro stipulato con la banca e di tutti i negozi e operazioni
relativi, nonché la domanda subordinata di risoluzione di detti negozi per
inadempimento dell’istituto di credito.

(Massime
a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 27 giugno 2018 – Presidente: Dott. Giuseppe Magnoli – Consigliere relatore: Dott.ssa Vittoria Gabriele

L’annotazione in conto di una posta di interessi illegittimamente
addebitati dalla banca al correntista comporta un incremento del debito  di quest’ultimo, o una riduzione del credito
di cui egli ancora dispone, ma in nessun modo si risolve in un pagamento, nel
senso che non vi corrisponde alcuna attività solutoria nei termini sopra
indicati in favore della banca; con la conseguenza che il correntista potrà
agire per far dichiarare la nullità del titolo su cui quell’addebito si basa,
ma non potrà agire per la ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, da
parte sua non ha ancora avuto luogo. Di pagamento, nella descritta situazione,
potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di
credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la
restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi
interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente
all’atto della chiusura del conto (in termini Cass. n. 798/2013 e
Cass., S.U., n. 2448/2010).

Pertanto, a conto aperto, ovvero in presenza di un
saldo negativo di conto corrente chiuso, la pretesa restitutoria del
correntista può trovare accoglimento soltanto ove lo stesso indichi di quali rimesse chiede la restituzione ed
in relazione a quali presupposti alle stesse dovrebbe essere attribuita natura
solutoria e non ripristinatoria, in relazione ad un conto corrente su cui è
incontestato abbiano operato delle aperture di credito.

La decisione è stata resa a seguito del giudizio di appello promosso
da una società in nome collettivo avverso la sentenza del Tribunale che aveva
rigettato la domanda volta a far dichiarare l’illegittimità delle poste passive
a favore dell’istituto di credito, nonché l’usurarietà del tasso di interesse,
con conseguente condanna dell’istituto medesimo alla restituzione delle somme
indebitamente addebitate o riscosse.

(Massima a cura di Lorena Fanelli)




Sentenze del 22 marzo 2018, n. 906 e 21 giugno 2018 – Giudice estensore: dott. Luciano Ambrosoli

È lecita la clausola contrattuale del contratto di leasing che determina l’interesse di mora per rinvio all’art. 5, primo comma, del d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 (che risulta in fatto superflua, in quanto il medesimo tasso troverebbe applicazione anche in mancanza di pattuizione), giacché in nessun caso può reputarsi illecito, per contrarietà alla disciplina in materia di usura o per altra causa, il tasso di interesse fissato in base ai parametri applicabili per legge.

Peraltro, la stessa previsione normativa, ai sensi del d.lgs. n. 231/2002 e del novellato art. 1248 c.c., di criteri di fissazione del tasso di mora che ben possono determinare il superamento della soglia usuraria corrobora l’opinione della generale estraneità dei tassi di mora alla disciplina in materia di usura, dettata esclusivamente per corrispettivi e remunerazioni in genere del finanziamento.

Conformemente a logica e a lettera dell’art. 1815 c.c., l’eventuale nullità della clausola relativa all’interesse di mora non può estendersi all’autonoma e lecita previsione relativa all’interesse corrispettivo, posta la diversa natura degli interessi corrispettivi e di quelli moratori e l’autonomia delle pattuizioni contrattuali relative agli uni e agli altri.

Deve ritenersi infondata in diritto la contestazione di usura sopravvenuta.

(Conforme a Cass. Sez. Unite 19 ottobre 2017, n. 24675).

Il piano di ammortamento costante, c.d. alla francese, previsto nel contratto di leasing, non importa né indeterminatezza del tasso né automatica e surrettizia capitalizzazione di interessi e non è perciò tout court in contrasto con il divieto di anatocismo né con i doveri di trasparenza, trattandosi in fatto di un meccanismo che prevede rate composte da una quota di capitale ed una quota di interessi calcolata sul capitale residuo in modo che, nel progredire dell’ammortamento, la quota capitale cresce progressivamente mentre quella per interessi (calcolata solo sul capitale residuo e non sugli interessi già scaduti) è via via decrescente.

(Conforme a Cass. 22 maggio 2014, n. 11400).

La mancata menzione del TAEG e dell’ISC non determina, in sé, la nullità del contratto di leasing, in quanto, secondo le prescrizioni della Banca d’Italia adottate in attuazione dell’art. 117, ottavo comma, d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, detti indicatori non rientrano nel contenuto tipico determinato di tale contratto.

Il criterio dell’indicizzazione compiutamente disciplinato nel documento sottoscritto dalle parti e allegato al contratto di leasing fondato sulle variazioni di un parametro oggettivo (quale, esemplarmente, il tasso Euribor come rilevato e pubblicato su Il Sole 24 Ore) rispetto ad un incide base di riferimento consensualmente definito in una percentuale determinata alla data della stipulazione non importa potestà unilaterale e discrezionale di modifica delle condizioni contrattuali da parte del concedente, risultando dunque conforme alla previsione dell’art. 118 d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385.

Principi espressi in ipotesi di rigetto della domanda di accertamento dell’illiceità delle condizioni contrattuali praticate da una società di leasing, e di conseguente ripetizione degli importi indebitamente versati, a fronte dell’asserita usurarietà dei tassi di mora dalla stessa praticati in quanto superiori al tasso di soglia usurario determinato all’epoca della stipulazione del contratto, nonché dell’asserita illegittima previsione di piano di ammortamento c.d. alla francese.

Sent. 22.3.2018, n. 906

Sent. 21.6.2018

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 13 giugno 2018, n. 1786 – Giudice estensore: dott. Lorenzo Lentini

Il potere del giudice di riqualificazione di un contratto, a dispetto del nomen apparente, non può essere esercitato con modalità indifferenti al concreto dispiegarsi delle dinamiche operanti nei mercati in cui tale contratto si inscrive, dovendosi richiedere oneri di allegazione “rafforzati” in capo alla parte interessata alla diversa qualificazione del rapporto, laddove si tratti di contratti conclusi nell’ambito di mercati connotati da una forte impronta pubblicistica e da un sostrato regolamentare capillare. L’attribuzione di un determinato nomen non presenta meri risvolti privatistici da ricondurre all’autonomia negoziale, ma è frutto di valutazioni tecnico-specialistiche “qualificate”, in quanto effettuate da soggetti professionali, alla luce delle norme imperative applicabili e sotto le rispettive autorità di vigilanza.

Rientrano nella nozione di contratto assicurativo, essendo pertanto impignorabili, a norma, rispettivamente, dell’art. 11, decimo comma, d.lgs. 252/2005 e dell’art. 1923 c.c., i crediti derivanti da prodotti di previdenza complementare di tipo individuale connotati da un termine di “nascita” del diritto alla prestazione coincidente con la maturazione dei requisiti per l’ottenimento della pensione obbligatoria e da limitate facoltà di riscatto parziale anticipato (laddove sia incontestato che il piano verta ancora nella fase di accumulo e l’assicurato non abbia maturato il diritto pensione obbligatoria), nonché i prodotti assicurativi sulla vita c.d. “multiramo” (nel caso di specie afferenti al Ramo III, Ramo I e a quello c.d. “di puro rischio”) laddove la componente mista finanziario-assicurativa (Ramo III) costituisca soltanto uno dei profili che connotano la polizza, non potendosi revocare in dubbio la piena riconducibilità al genus di investimento con finalità assicurativa delle componenti di Ramo I e “di puro rischio”.

Principi espressi in ipotesi di accoglimento dell’opposizione proposta dal debitore a fronte del pignoramento dei crediti dallo stesso vantati nei confronti della compagnia assicurativa quali prestazioni discendenti da polizze assicurative sulla vita, nonché prestazioni pensionistiche erogate da forme di previdenza complementare.

Sent. 13.6.2018, n. 1786

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 30 maggio 2018 – Presidente: Dott. Giuseppe Magnoli – Consigliere relatore: Dott. Giuseppe Magnoli

Ancorché eventualmente ricompresa nel
medesimo articolo del contratto, la clausola di determinazione dell’interesse
moratorio è autonoma e ben distinta da quella di determinazione dell’interesse
corrispettivo. Di conseguenza, l’eventuale invalidità
della clausola relativa al tasso moratorio non si estende a quella relativa
all’interesse corrispettivo, che resta
valida e pienamente efficace anche nel caso in cui la prima risulti nulla
perché usuraria.

Se il tasso
soglia viene superato dall’interesse moratorio ma non anche da quello
corrispettivo, la pattuizione del primo è nulla ma non quella del secondo; non
è infatti possibile mescolare i piani, quello dell’interesse corrispettivo, che
è dovuto sempre, con quello dell’interesse moratorio, che è dovuto solo in caso
di ritardo nel rimborso, e quindi in caso di inadempimento.

Per chiara disposizione di legge (art.1224 cpv. cc), di regola il
tasso mora si sostituisce e non si aggiunge al tasso corrispettivo pattuito,
ciò potendosi verificare soltanto in caso di espressa pattuizione convenzionale
in tal senso.

Nei
c.d. mutui ad ammortamento, la formazione delle rate di rimborso, nella misura
composita predeterminata di capitale ed interessi, attiene alle mere modalità
di adempimento di due obbligazioni poste a carico del mutuatario – aventi ad
oggetto l’una la restituzione della somma ricevuta in prestito e l’altra la
corresponsione degli interessi per il suo godimento – che sono ontologicamente
distinte e rispondono a finalità diverse. Il fatto che nella rata esse
concorrano, allo scopo di consentire all’obbligato di adempiervi in via
differita nel tempo, non è dunque sufficiente a mutarne la natura né ad
eliminarne l’autonomia (Cassazione n. 11400/2014).

Secondo l’art.3 della delibera CICR del 9 febbraio 2000,
l’anatocismo realizzato in conseguenza dell’inadempimento nel versamento del
rateo di ammortamento è da ritenersi pienamente legittimo ed efficace ove
sussista pattuizione al riguardo nel contratto di mutuo e quest’ultimo sia
stato stipulato nel vigore della delibera medesima.

La decisione è stata resa a seguito dell’impugnazione, ad opera
dei fideiussori del mutuatario, della sentenza del Tribunale che aveva
confermato il decreto ingiuntivo emesso a loro carico e a favore dell’istituto
di credito mutuante; gli appellanti chiedevano la revoca del decreto ingiuntivo
opposto, previo accertamento della nullità/invalidità/inefficacia, totale o
parziale, del contratto di mutuo per usurarietà del tasso di interesse.

(Massime a cura di Lorena Fanelli)