Tribunale di Brescia, sentenza del 23 febbraio 2023, n. 434 – fideiussione omnibus

L’art. 1304, comma 1, c.c., nel consentire, in deroga al principio secondo cui il contratto produce effetti solo tra le parti, che il condebitore in solido, pur non avendo partecipato alla stipulazione della transazione tra creditore e uno dei debitori solidali, se ne possa avvalere, si riferisce esclusivamente all’atto di transazione che abbia ad oggetto l’intero debito, mentre non include la transazione parziale che, in quanto tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva, riguarda unicamente il debitore che vi aderisce e non può coinvolgere gli altri condebitori, che non hanno alcun titolo per profittarne (cfr. Cass. n. 7094/2022). Pertanto, qualora l’oggetto del negozio transattivo sia limitato alla sola quota del debitore solidale stipulante, l’art. 1304 c.c. non è applicabile e il debito solidale è ridotto dell’importo corrispondente alla quota transatta, con conseguente scioglimento del vincolo solidale fra il debitore stipulante e gli altri condebitori.

In tema di mutuo fondiario, il limite di finanziabilità ex art. 38, comma 2, d.lgs. n. 385/1993 non costituisce elemento essenziale del contenuto del contratto, non essendo tale norma determinativa del contenuto medesimo, né posta a presidio della validità del negozio, ma rappresenta piuttosto un elemento meramente specificativo o integrativo dell’oggetto contrattuale, fissato dall’autorità di vigilanza sul sistema bancario nell’ambito della c.d. vigilanza prudenziale in forza di una norma di natura non imperativa, e, pertanto, la relativa violazione è insuscettibile di determinare la nullità del contratto (cfr. SS.UU. n. 33719/2022).

Le clausole della fideiussione omnibus che riproducono quelle contenute nel modulo ABI, censurato con provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2 maggio 2005, alla ricorrenza di determinati presupposti sono nulle, ex art. 1418, comma 1, c.c., per contrarietà a norme imperative di ordine pubblico economico, posto che, in base al citato provvedimento dell’autorità di vigilanza, le clausole riprodotte, di cui agli artt. 2, 6 e 8 dello schema contrattuale dell’ABI predisposto nel periodo ottobre 2002 – maggio 2005, sono in contrasto con l’art. 2, comma 2, lett. a), l. n. 287/1990.In tal caso si ravvisa la nullità parziale della fideiussione che costituisce l’esito, a valle, di un’intesa anticoncorrenziale, nullità che concerne solo le predette clausole e non, invece, l’intero regolamento negoziale (cfr. SS.UU. n. 41994/2021).

L’erogazione del credito è qualificabile come abusiva qualora sia effettuata, con dolo o colpa, ad un’impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economico – finanziaria ed in assenza di concrete prospettive di superamento della crisi, ed integra un illecito del soggetto finanziatore, per essere venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione, obbligando il medesimo al risarcimento del danno, ove ne discenda un aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell’attività di impresa. Ad ogni modo, l’abusiva concessione del credito non comporta in ogni caso alcuna nullità del rapporto principale (nel caso di specie il mutuo), dando semmai luogo al risarcimento del danno (cfr. Cass. n. 1387/2023; Cass., n. 24725/2021; Cass., n. 18610/2021).

Nella fideiussione per obbligazione futura il garante che chiede la liberazione dalla garanzia invocando l’art. 1956 c.c. ha l’onere di provare che, successivamente alla prestazione della predetta garanzia, il creditore, senza la sua autorizzazione, ha fatto credito al terzo garantito pur essendo consapevole del peggioramento delle sue condizioni economiche in misura tale da suscitare il fondato timore che questi potesse divenire insolvente. Tale circostanza non è ravvisabile, di per sé, nella mera circostanza di un saldo negativo dei conti correnti del garantito (cfr. Cass. n. 34685/2022).

Il fatto del creditore, rilevante ai sensi dell’art.1955 c.c. ai fini della liberazione del fideiussore, non può consistere nella mera  inerzia, ma deve costituire una violazione di un dovere giuridico imposto dalla legge o nascente dal contratto e integrante un fatto quanto meno colposo, o comunque illecito, dal quale sia derivato un pregiudizio giuridico, non solo economico, che deve concretizzarsi nella perdita del diritto di surrogazione ex art. 1949 c.c. o di regresso ex art. 1950 c.c., e non nella mera maggiore difficoltà di attuarlo per le diminuite capacità satisfattive del patrimonio del debitore (cfr. Cass. n. 4175/2020).

La decadenza dalla fideiussione ex art. 1957 c.c. può verificarsi – se il debito principale è ripartito in scadenze periodiche – in relazione a ciascuna scadenza, qualora ogni pagamento sia considerato come debito autonomo, ma se l’obbligazione è unica, e la divisione in rate costituisce solo una modalità per agevolare una delle parti, il debito non può considerarsi scaduto prima della scadenza dell’ultima rata. Pertanto, nel contratto di mutuo, essendo lo stesso un contratto di durata, le diverse rate in cui il dovere di restituzione è ripartito non costituiscono autonome e distinte obbligazioni, bensì l’adempimento frazionato di un’unica obbligazione, di conseguenza il termine dell’art. 1957 c.c., entro il quale il creditore garantito deve proporre le sue istanze contro il debitore, decorre non dalla scadenza delle singole rate, ma dalla scadenza dell’ultima rata (cfr. Cass. n. 2301/2004).

In caso di fallimento del mutuatario garantito, ai fini della individuazione del dies a quo del termine decadenziale ex art. 1957 c.c. rileva l’articolo 55, comma 2, l. fall., ai sensi del quale i debiti pecuniari del fallito si considerano scaduti, agli effetti del concorso, alla data di dichiarazione del fallimento. Ne deriva che l’istituto di credito che abbia depositato tempestivamente la domanda di ammissione al passivo per le somme dovute a titolo di mutuo dal debitore garantito dichiarato fallito, non incorre nella decadenza di cui al citato art. 1957 c.c.

I principi sono stati espressi nell’ambito dell’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dai ricorrenti nei confronti di un istituto di credito finalizzata ad accertare, inter alia, la nullità e/o l’estinzione della fideiussione omnibus concessa dai  primi a favore del secondo a garanzia dei crediti da questo vantati nei confronti della società a responsabilità limitata controllata dagli opponenti e successivamente dichiarata fallita, in forza di un contratto di mutuo fondiario di importo massimo pari ad Euro 38.000.000,00, erogato solo parzialmente, finalizzato all’acquisto di un’area industriale e alla realizzazione di un progetto immobiliare.

A tal fine, i ricorrenti richiedevano, inter alia, l’accertamento della: (i) nullità del contratto di mutuo fondiario per superamento del limite di finanziabilità ex art. 38, comma 2, d.lgs. n. 385/1993; (ii) la nullità della fideiussione per violazione della normativa antitrust; (iii) la nullità della fideiussione per concessione abusiva del credito ravvisata nelle erogazioni parziali del mutuo; (iv) la liberazione dalla fideiussione ex art. 1956 c.c. e estinzione della medesima ex art. 1955 c.c.; e (v) della decadenza dell’obbligazione fideiussoria ex art. 1957 c.c.

Nelle more del giudizio uno degli opponenti aveva concluso con la banca opposta una transazione, la cui efficacia liberatoria era stata invocata dagli altri, e il credito litigioso era stato ceduto ad una società, intervenuta in giudizio, che a seguito dell’omologazione del concordato fallimentare della società mutuataria aveva percepito un pagamento parziale del credito residuo.

Il Tribunale, dichiarata la nullità parziale della fideiussione per violazione della normativa antitrust limitatamente alle clausole di sopravvivenza, reviviscenza e deroga all’art. 1957 c.c., in accoglimento parziale dell’opposizione proposta ha revocato il decreto ingiuntivo opposto e ha condannato i ricorrenti (ad esclusione del fideiussore che aveva stipulato con la banca un accordo transattivo) al pagamento, in solido tra loro, dell’importo rideterminato in base alle risultanze dell’istruttoria espletata  oltre interessi, in favore della parte opposta con effetti, ex art. 111, comma 3, c.p.c., nei confronti della società cessionaria del credito, intervenuta in giudizio.

(Massime a cura di Giorgio Peli)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 13 febbraio 2023, n. 258 – leasing, mancata indicazione del TAEG, indeterminatezza del contratto

La mancata indicazione del tasso leasing non determina di per sé la nullità del contratto per indeterminatezza, laddove esso rimanga comunque chiaramente determinato nei suoi elementi costitutivi. Piuttosto tale omissione consente l’esperimento di un’azione di responsabilità nei confronti della società di leasing, qualora sia ravvisabile un danno conseguente all’omessa informazione circa il tasso interno di attualizzazione.

L’indicazione del TAEG/ISC nei contratti di leasing finanziario non è obbligatoria, in quanto tale tipo contrattuale non rientra negli “altri finanziamenti” di cui al Provvedimento del Governatore della Banca d’Italia in materia di trasparenza delle operazioni e dei servizi degli intermediari finanziari del 25 luglio 2003.

Princìpi espressi in grado d’appello ove il tribunale ha respinto la domanda con cui l’appellante chiedeva di accertare l’indeterminatezza del contratto di leasing per omessa indicazione del Taeg da questi stipulato con la società di leasing appellata; nonché di condannare detta società a restituire le somme indebitamente corrisposte a titolo di canone di locazione finanziaria.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 2 febbraio 2023, n. 223 – responsabilità dell’intermediario per l’esecuzione di operazioni di investimento, forma degli ordini di investimento, inadeguatezza delle operazioni di investimento, obblighi informativi, art. 29 Reg. Consob n. 11522/1998

Le violazioni dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni da parte dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario, che riguardino le operazioni di investimento o disinvestimento poste in essere in esecuzione del contratto quadro, possono dar luogo a responsabilità contrattuale e, eventualmente, condurre alla risoluzione del contratto. In assenza di un’esplicita previsione di legge, si esclude, tuttavia, che tali violazioni possano determinare la nullità, ai sensi dell’art. 1418 c.c., del contratto quadro o dei singoli atti negoziali posti in essere in esecuzione di questo (cfr. Cass. SS.UU n. 26724/2007). In particolare, ha natura contrattuale la responsabilità dell’intermediario che ometta di informarsi sulla propensione al rischio del cliente o di rappresentare a quest’ultimo i rischi dell’investimento ovvero ancora che compia operazioni inadeguate quando dovrebbe astenersene, posto che tali condotte integrano un non corretto adempimento di obblighi legali facenti parte integrante del contratto quadro intercorrente tra le parti (cfr. Cass. n. 12262/2015).

In tema di intermediazione finanziaria, la forma scritta è prevista dalla legge per il contratto quadro e non anche per i singoli ordini, a meno che non siano state le parti stesse a prevederla per la validità di questi ai sensi dell’art. 1352 c.c. (cfr. Cass. n. 16053/2017). Ove il contratto quadro preveda, ai sensi dell’art. 1352 c.c., la possibilità di dare all’intermediario ordini orali secondo quanto disposto dal Reg. Consob n. 11522/1998, la registrazione su nastro magnetico dell’ordine non costituisce un requisito di forma, sia pure ad probationem, degli ordini suddetti, ma un mero strumento atto a facilitare la prova, altrimenti più difficile, dell’avvenuta richiesta di negoziazione dei valori (così, Cass. n. 3087/2018; in senso sostanzialmente conforme alla precedente Cass. n. 612/2016). Sicché, qualora le parti abbiano convenuto che la forma scritta sia la forma abituale, ma non esclusiva, di esecuzione del contratto quadro, sono parimenti validi gli ordini impartiti all’intermediario in forma orale.

In materia di responsabilità della banca per l’esecuzione di operazioni di investimento, notorie ragioni di elementare prudenza impongono di ritenere non adeguate le operazioni che comportino l’impiego – soprattutto da parte dell’investitore non professionale – di una parte eccessiva delle proprie risorse nel solo settore azionario, la cui aleatorietà può incidere sensibilmente sul valore dei relativi prodotti finanziari, anche in assenza di imprevedibili eventi patologici a carico delle società emittenti. Pertanto, operazioni di acquisto che, seppur singolarmente non caratterizzate da importi particolarmente elevati, debbano ritenersi non adeguate sono soggette a risoluzione in caso di inadempimento da parte della banca degli obblighi di cui all’art. 29 del Reg. Consob n. 11522/1998.

I princìpi sono stati espressi nel corso di un giudizio teso a ottenere: (i) la declaratoria di nullità degli ordini di investimento impartiti oralmente da un investitore non professionale in attuazione di due contratti quadro redatti in forma scritta, conformemente a quanto previsto dalla normativa; nonché, in subordine, (ii) la risoluzione dei medesimi ordini, accertando la responsabilità della banca per l’inosservanza degli obblighi informativi previsti dall’art. 29 del Regolamento n. 11522/1998 della Consob, concernente la disciplina degli intermediari, nella formulazione pro tempore vigente. Più precisamente, le azioni erano dirette a conseguire la «restituzione e/o ripetizione» delle ingenti perdite subite (superiori al 75% del capitale investito) ovvero la risoluzione delle negoziazioni sopra richiamate per grave inadempimento della banca, con condanna al pagamento del medesimo importo a titolo di risarcimento dei danni.

La prima domanda è stata rigettata. Parte attrice, invero, non contestava di aver impartito gli ordini, ma la validità dei medesimi per difetto di forma scritta, ritenuta in chiave difensiva ad substantiam. Nel corso del giudizio è stato, invece, accertato che il contratto esprimeva una mera preferenza per tale forma, senza escludere che gli ordini potessero essere impartiti anche oralmente. 

La seconda domanda è stata parzialmente accolta. I contratti quadro davano atto della presa visione e dell’avvenuta consegna al cliente del documento informativo sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari. Tuttavia, il Tribunale ha ritenuto la banca parzialmente responsabile per la violazione degli obblighi di cui all’art. 29 del Reg. Consob n. 11522/1998 nel difetto di prova del loro assolvimento in relazione all’investimento in capitale di rischio (azioni) di una porzione ingente del proprio patrimonio da parte di un investitore privo di specifiche qualifiche e competenze nel settore finanziario. In ragione dell’elevata componente aleatoria degli investimenti in capitale di rischio, idonea a procurare ingenti perdite pur in assenza di imprevedibili eventi patologici a carico delle società emittenti, il Tribunale ha infatti ritenuto non adeguate – e ne ha, pertanto, pronunciato la risoluzione – le operazioni in esame nella misura in cui avevano impiegato somme eccedenti il 25% delle risorse finanziarie del cliente.

(Massime a cura di Giada Trioni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 30 gennaio 2023, n. 187 – vendita di strumenti finanziari, offerta fuori sede, forma del contratto, obblighi informativi

In tema di intermediazione mobiliare, nel caso di contratti di investimento stipulati fuori dalla sede dell’intermediario, ai sensi dell’art. 30 del d. lgs n. 58 del 1998, la circostanza che la sola sottoscrizione del contratto sia avvenuta presso l’abitazione dell’investitore non è sufficiente, di per sé, per qualificare l’offerta come avvenuta “fuori sede” dell’intermediario, occorrendo piuttosto che l’investimento sia stato sollecitato presso il domicilio dell’investitore da un promotore finanziario o da un dipendente della banca intermediaria tale da sospendere l’investitore ed indurlo ad aderire ad una proposta non meditata adeguatamente facendo ritenere dunque che la decisione di investimento sia stata assunta fuori sede.

Con riferimento al recesso di cui all’art. 30 del d. lgs n. 58 del 1998, la circostanza che l’operazione d’investimento si sia perfezionata al di fuori della sede dell’intermediario a rendere necessaria una speciale tutela, prevista dal diritto di recesso dell’investitore al dettaglio di cui all’articolo 30 t.u.f., in quanto l’investimento in tale ipotesi è stato sollecitato presso il domicilio dell’investitore da un promotore finanziario o da un dipendente della banca intermediaria e, pertanto, si può presumere che lo stesso non sia conseguenza di una premeditata decisione dello stesso investitore, ma il frutto della predetta sollecitazione. Pertanto, la ratio dello jus poenitendi previsto dalla citata norma, e, quindi, del differimento dell’efficacia del contratto, con la possibilità per il cliente di recedere nel frattempo dal contratto di investimento senza oneri è, dunque, quella di porre rimedio, a posteriori, a quella mancanza di adeguata riflessione preventiva che il perfezionamento fuori sede potrebbe aver causato. Tuttavia, anche se l’acquisto di titoli sia stato offerto al cliente dall’intermediario fuori dalla sede dell’istituto bancario e la volontà del cliente di effettuare l’investimento sia sorta in tale contesto, ove l’acquisto si sia perfezionato presso la sede dell’istituto di credito nei giorni successivi non si può ritenere che tale investimento sia frutto di un “effetto sorpresa” conseguente alla sollecitazione e, pertanto, non si ravvisano, pertanto, i presupposti che giustificano la tutela supplementare apprestata dall’articolo 30, commi 6 e 7, del t.u.f.

L’art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, laddove impone la forma scritta a pena di nullità, per i contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento, si riferisce ai contratti-quadro e non ai singoli ordini di investimento (o disinvestimento) che vengono poi impartiti dal cliente all’intermediario, la cui validità non è soggetta a requisiti formali, salvo diversa previsione dello stesso contratto quadro. Tali ordini, infatti, rappresentano un elemento di attuazione delle obbligazioni previste dal contratto di investimento del quale condividono la natura negoziale come negozi esecutivi, concretandosi attraverso di essi i negozi di acquisizione – per il tramite dell’intermediario – dei titoli da destinare ed essere custoditi, secondo le clausole contenute nel contratto quadro. In particolare, la previsione contenuta nel contratto quadro circa la registrazione degli ordini orali non costituisce un requisito di forma, sia pure “ad probationem”, degli ordini suddetti, ma uno strumento atto a facilitare la prova, altrimenti più difficile, dell’avvenuta richiesta di negoziazione dei valori, con il conseguente esonero da ogni responsabilità quanto all’operazione da compiere.

In assenza di un’esplicita previsione normativa, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario non può determinare l’invalidità del contratto quadro o dei singoli ordini di acquisto effettuati in base allo stesso, ma può dar luogo soltanto a conseguenze risarcitorie, costituendo fonte di responsabilità precontrattuale nel caso in cui detta violazione si verifichi nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti, ovvero fonte di responsabilità contrattuale, nonché causa di risoluzione del contratto, ove le violazioni riguardino le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto quadro.

Il divieto di compiere operazioni inadeguate o in conflitto d’interessi e il dovere di informazione in capo all’intermediario attengono alla fase esecutiva del contratto di investimento, costituendo gli stessi una specificazione del primario dovere di diligenza, correttezza e professionalità nella cura degli interessi del cliente. Pertanto, i predetti obblighi sono da qualificare come obblighi di comportamento precontrattuali e contrattuali, a seconda del caso, e, pertanto, non possono giustificare il ricorso di tutela della nullità radicale del contratto (sia esso il contratto d’intermediazione finanziaria o i singoli negozi con cui a quello vien data esecuzione). Piuttosto il deficit informativo potrà rilevare in termini di inadempimento dell’intermediario a un obbligo a cui lo stesso è tenuto in vista del compimento dell’atto dispositivo e, ove nell’economia della singola operazione tale obbligo informativo assuma rilievo determinante essendo diretto ad assicurare scelte di investimento realmente consapevoli all’investitore al punto che in assenza di un consenso informato dell’interessato il sinallagma del singolo negozio di investimento manchi di trovare piena attuazione, l’investitore al dettaglio potrà ottenere la risoluzione del contratto per inadempimento dell’intermediario.

In tema di intermediazione finanziaria, l’obbligo informativo a carico dell’intermediario sussiste, anche al di fuori di una negoziazione diretta in contropartita, nel caso di negoziazione diretta per conto del cliente, rientrando tale operazione a pieno titolo tra “i servizi e attività di investimento” di cui all’art. 1, comma 5, lett. b) t.u.f. La violazione di tale obbligo non può ritenersi esclusa neanche in presenza di una segnalazione di non adeguatezza e di non appropriatezza, gravando sull’intermediario anche un autonomo obbligo di prestare all’investitore il corredo informativo relativo allo specifico strumento finanziario, evidenziandone le caratteristiche ed i rischi specifici.

L’adempimento degli obblighi informativi non può essere desunta in via esclusiva dalla sottoscrizione dell’avvenuto avvertimento dell’inadeguatezza dell’operazione in forma scritta, in quanto è necessario che l’intermediario, a fronte della sola allegazione contraria dell’investitore sull’assolvimento degli obblighi informativi, fornisca la prova positiva, con ogni mezzo, del comportamento diligente della banca: prova che può essere integrata dal profilo soggettivo del cliente o da altri convergenti elementi probatori, ma non può essere desunta soltanto da essi.

In materia di servizi di investimento mobiliare, l’intermediario finanziario è tenuto a fornire al cliente una dettagliata informazione preventiva circa i titoli mobiliari e, segnatamente, con particolare riferimento alla natura di essi ed ai caratteri propri dell’emittente, ricorrendo un inadempimento sanzionabile ogni qualvolta detti obblighi informativi non siano integrati e restando irrilevante, a tal fine, ogni valutazione di adeguatezza dell’investimento.

Gli obblighi informativi in capo all’intermediario relativi all’obbligo di verificare l’andamento dei titoli e gli obblighi di diligenza e trasparenza in capo all’istituto bancario non si esauriscano nella fase di negoziazione, ma si estendono a quella ulteriore dell’esecuzione delle operazioni. Pertanto, l’intermediario è tenuto a fornire al cliente informazioni sull’andamento del titolo non solo prima e all’atto della negoziazione, ma anche dopo il suo acquisto nella misura in cui ciò corrisponde ad un generale principio di correttezza e buona fede nel comportamento delle parti in pendenza di esecuzione del contratto.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello promosso dalla banca nei confronti di un proprio cliente che aveva stipulato con la stessa diversi ordini di investimento finalizzato ad ottenere la riforma della sentenza di primo grado nella parte in cui ha risolto il contratto quadro che regola il servizio di consulenza in materia di investimenti e ha condannato la banca al risarcimento del danno nei confronti del clienti per l’inadempimento degli obblighi informativi in capo alla stessa derivanti dall’art. 21 t.u.f. e dall’art. 28, comma 2, Reg. Consob che impongono in capo all’intermediario l’obbligo di diligenza e trasparenza e, per l’effetto, dichiarare che non è dovuta alcuna somma a titolo di risarcimento del danno all’investitore. L’appellato, cliente investitore che aveva sottoscritto con la banca un contratto di investimento di strumenti finanziari, si costituiva proponendo a sua volta appello incidentale chiedendo di accertare, inter alia, la nullità del contratto quadro e dei successivi ordini di acquisto di titoli sia per (i) violazione della normativa in materia di offerta fuori sede di prodotti finanziari di cui agli artt. 30 e 31 t.u.f., (ii) per violazione della forma scritta ad substantiam degli ordini impartiti solo in forma verbale e (iii) per mancato assolvimento degli obblighi informativi.

La Corte d’Appello (i) ha rigettato l’appello principale proposto dalla banca e confermato la sentenza del Tribunale, integrata con la diversa motivazione conseguente all’accoglimento del motivo di appello incidentale relativo alla risoluzione per inadempimento degli obblighi informativi e (ii) ha rigettato l’appello incidentale proposto dall’investitore.

(Massime a cura di Roberta Ponzoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 23 gennaio 2023, n. 128 – contratto di conto corrente, invalidità del contratto o di singole clausole, imprescrittibilità dell’azione di accertamento di saldo di conto corrente quale conseguenza della nullità (anche parziale) del contratto, accertamento di un saldo più sfavorevole per il correntista e divieto di reformatio in peius, spese processuali e reformatio in peius

Quale conseguenza dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità, totale o parziale, del contratto deve ritenersi imprescrittibile l’azione di accertamento del saldo dare-avere di un rapporto di conto corrente finalizzata ad accertare l’illegittimità degli addebiti derivanti dall’operatività di clausole contrattuali nulle. Pertanto, ai fini della determinazione del saldo di conto corrente, l’eccezione di prescrizione formulata dalla banca non può essere ritenuta preclusiva della domanda del correntista di accertamento dell’illegittimità degli addebiti derivanti dall’applicazione di clausole contrattuali nulle relative al medesimo rapporto di conto corrente. Accertata dunque la nullità contrattuale, anche solo parziale, ove riferita a singole clausole contrattuali del contratto di conto corrente (nel caso di specie, l’effettiva ed illegittima applicazione della capitalizzazione degli interessi), non si determina, infatti, un problema di ripetibilità o meno delle rimesse (nel caso di specie, era stata anche rinunciata la domanda restitutoria degli illegittimi addebiti) in quanto è necessario epurare il saldo dagli addebiti contra legem.

Se nel giudizio di appello promosso dal correntista il saldo di conto corrente viene rideterminato in senso più sfavorevole per il correntista rispetto a quanto accertato nel giudizio di primo grado, allora, in assenza di appello incidentale sul punto da parte della banca appellata, trova applicazione il divieto di reformatio in peius di cui agli artt. 329 e 342 c.p.c., con la conseguenza che non può essere modificato e riformato quanto statuito sul punto dalla sentenza di primo grado in forza dell’acquiescenza prestata al provvedimento di primo grado dall’appellato.

Se, nonostante l’accoglimento di un motivo di appello, il giudice di secondo grado pervenga, in definitiva, alle medesime statuizioni rese nella sentenza del Tribunale, allora, per effetto del divieto di reformatio in peius, la mancata riforma della sentenza di primo grado, in assenza di altre circostanze rilevanti, rileva anche ai fini della conferma del dispositivo sulle spese processuali del giudizio di primo grado.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello promosso da un correntista e dalla sua garante avverso la sentenza di primo grado, nel quale la medesima correntista aveva convenuto l’istituto di credito con cui aveva stipulato un contratto di conto corrente, ancora efficace al momento dell’introduzione del giudizio, chiedendo: da un lato, di determinare il corretto ”dare ed avere” tra le parti in costanza del rapporto oggetto del giudizio, anche previo accertamento di molteplici contestate illegittimità (e, in particolare, l’illegittima applicazione: (i) degli interessi passivi, “ultralegali” ed usurari, (ii) dell’interesse anatocistico con capitalizzazione trimestrale in assenza di una valida convenzione anatocistica, (iii) della commissione di massimo scoperto, (iv) degli interessi per c.d. “giorni–valuta”,); e, dall’altro, di condannare la banca convenuta (i) alla restituzione delle somme indebitamente addebitate o riscosse, oltre interessi e rivalutazione (ii) al risarcimento dei danni subiti, da determinarsi in via equitativa, in conseguenza della violazione degli artt. 1337, 1337, 1366 e 1376 c.c. Nello specifico, nonostante l’attrice avesse richiesto l’accertamento della nullità, totale o parziale, del contratto di conto corrente e avesse altresì rinunciato all’azione di ripetizione dell’indebito, il Tribunale aveva ritenuto l’eccezione di prescrizione proposta dalla banca convenuta assorbente e/o preclusiva ai fini della determinazione del saldo dovuto.

La banca convenuta appellava a sua volta la sentenza di primo grado.

Con sentenza non definitiva, la Corte d’Appello accoglieva il motivo di appello formulato dalla correntista evidenziando che l’azione di accertamento della nullità, totale o parziale, del contratto di conto corrente è imprescrittibile così come quella di accertamento della determinazione del saldo di conto corrente quale conseguenza dell’operatività di clausole contrattuali nulle.

A seguito della rinnovazione dell’istruttoria emergeva, tuttavia, in concreto, un saldo di conto corrente più sfavorevole per la correntista rispetto a quanto accertato nella sentenza di primo grado, sicché la Corte d’Appello riteneva di doversi applicare il principio secondo cui non si può riformare la sentenza di primo grado con una statuizione peggiore rispetto a quella emessa in precedenza.

La Corte d’Appello ha accertato che il saldo del conto corrente ammonta ad un importo inferiore al saldo accertato con la sentenza e ha rigettato l’appello promosso dal correntista e ha compensato le spese legali.

(Massime a cura di Giovanbattista Grazioli)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 22 dicembre 2022, n. 1555 – contratto di leasing, interessi usurari

Come statuito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. SS.UU, n. 19597/2020), seppure l’interesse moratorio vada computato nel calcolo dell’usura, la sua eventuale nullità riguarda solo tal sorta d’interesse, sicché è da escludere che, in caso di accertata usurarietà, la sanzione ex art. 1815, c. 2, c.c. si estenda anche agli interessi corrispettivi, determinandosi così la gratuità del contratto.

Qualora nel contratto venga previsto un tasso alternativo in caso di cessazione del parametro di riferimento per il calcolo del tasso corrispettivo, non si avrà comunque alcun vizio di indeterminatezza dell’obbligazione relativa agli interessi del contratto di leasing quando il tasso alternativo sia “acquisibile” dal debitore (come accade ad esempio qualora si faccia riferimento a un tasso medio d’interesse con cui un gran numero di istituti bancari europei effettuano le operazioni interbancarie di scambio di denaro nell’area Euro, il quale viene costantemente reso noto su tutti i quotidiani economici, i siti web e le riviste di settore

L’applicazione per il calcolo degli interessi di un parametro c.d. “Euribor manipolato” (in ragione di un’intesa anticoncorrenziale da parte di istituti di credito), non ha alcuna rilevanza sulla validità del riferimento al parametro e men che meno sulla determinabilità dell’oggetto del contratto stipulato da imprese estranee all’accordo, non potendo l’accertata intesa restrittiva della concorrenza produrre effetti sui contratti stipulati da imprese del tutto estranee a essa; tutt’al più, potrebbe residuare una pretesa risarcitoria, per il maggior costo subito, da esercitare nei confronti delle imprese che abbiano preso parte all’accordo.

Nel contratto di leasing, quando siano esplicitati tutti gli elementi per poter calcolare le rate, essendo così soddisfatti i requisiti richiesti dall’art. 117 T.U.B., non vi è alcuna necessità di allegare un “piano di ammortamento”, il quale non costituisce un elemento essenziale del contratto.

Princìpi esposti nel contesto di un’impugnazione in appello, volta ad accertare anzitutto la gratuità di un contratto di leasing in ragione dell’asserita nullità degli interessi di mora previsti nel contratto ai sensi dell’art. 1815, c. 2, c.c. (la quale in thesi si sarebbe estesa anche a quelli corrispettivi), nonché l’indeterminatezza dell’oggetto del contratto e la violazione dell’art. 117 T.U.B. per indeterminatezza del tasso pattuito e poiché non sarebbe stata specificata la composizione delle rate, anche considerata la nullità della clausola determinativa degli interessi in ragione dell’applicazione di un parametro Euribor manipolato. La Corte d’Appello ha rigettato nel merito la domanda svolta in via principale – diversamente dalla decisione del giudice di prime cure che aveva dichiarato l’inammissibilità della domanda in primo grado per carenza di interesse ad agire –, asserendo, in linea con la recente giurisprudenza delle Sezioni Unite, che, seppure l’interesse moratorio vada computato nel calcolo dell’usura, la sua eventuale nullità riguarda solo tal sorta d’interesse. La Corte ha altresì rigettato nel merito le ulteriori censure, ritenendo sufficiente ai fini della determinabilità degli interessi il riferimento al tasso “Euribor tre mesi lettera”, anche se non ne era stato indicato il valore specifico alla stipula, e altresì sufficienti ai fini dell’art. 117 T.U.B. gli elementi previsti nel contratto per il calcolo delle rate, del tasso e i relativi parametri.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 22 dicembre 2022, n. 1553 – sommatoria del tasso degli interessi, interessi di mora e interessi corrispettivi, contratto autonomo di garanzia, fideiussione

Per determinare il tasso contrattuale da confrontare con la soglia antiusura, è necessario considerare separatamente e distintamente gli interessi di mora e gli interessi corrispettivi (cfr. Cass. SS.UU. n. 19597/2020). In altre parole, non si può applicare il principio di sommatoria del tasso degli interessi, che non fa distinzione tra i costi associati al regolare adempimento del contratto e quelli legati al suo inadempimento.

Il contratto autonomo di garanzia è un contratto con una causa valida e si distingue dalla fideiussione. Tale contratto, espressione dell’autonomia negoziale ex art. 1322 c.c., ha la funzione di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante sul debitore principale, contrariamente al contratto del fideiussore, il quale garantisce l’adempimento della medesima obbligazione principale altrui (cfr. Cass. n. 1186/2020). 

Principi espressi nell’ambito del giudizio di appello promosso da una società a responsabilità limitata avverso la sentenza del giudice di prime cure che respingeva un’opposizione a decreto ingiuntivo non sussistendo l’usurarietà della penale da risoluzione nonché del tasso moratorio.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 19 dicembre 2022, n. 1528 – contratto di leasing, clausola penale, restituzione dei canoni

Il giudicato sostanziale conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo copre non soltanto l’esistenza del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il credito ed il rapporto stessi si fondano, ma anche l’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al ricorso per ingiunzione e non dedotti con l’opposizione. Tuttavia, il giudicato non si estende ai fatti successivi allo stesso ed a quelli che comportino un mutamento del “petitum” ovvero della “causa petendi” in seno alla domanda rispetto al ricorso esaminato dal decreto esecutivo.

In un contratto di leasing, la clausola penale che prevede, oltre all’immediata restituzione del bene, anche la definitiva acquisizione da parte della società di leasing di quanto l’utilizzatore aveva corrisposto durante la vigenza del contratto, è pienamente legittima e compatibile con l’art. 1526 c.c. in quanto, al comma primo tale norma prevede per il venditore l’obbligo di restituzione delle rate riscosse e il diritto al pagamento di equo compenso per l’uso della cosa (in aggiunta logicamente alla restituzione del bene di proprietà), mentre al secondo comma statuisce che i contraenti possano convenire che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo d’indennità; inoltre sempre il comma primo fa salvo il diritto del venditore al risarcimento del danno, e la quantificazione del danno ben può essere preventivamente determinata dalle parti con clausola penale.

In un contratto di leasing, la clausola penale è coerente con l’esigenza di riequilibrare la posizione delle parti, in quanto consente alla società concedente di recuperare integralmente il finanziamento erogato, comprensivo dell’utile sperato sino al momento in cui il contratto ha avuto regolare esecuzione, ponendola nella stessa situazione in cui si sarebbe trovata se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto e restando, d’altro canto, esclusa la possibilità di un ingiustificato arricchimento della medesima concedente, atteso l’obbligo di quest’ultima di imputare a credito dell’utilizzatore il valore del bene oggetto del contratto di leasing, dallo stesso restituito.

I principi sono stati espressi nell’ambito di un giudizio d’appello promosso da una società che aveva sottoscritto un contratto di leasing con una banca, la quale aveva prima agito in via monitoria, ingiungendo all’utilizzatrice il pagamento di una somma a titolo di canoni di leasing non pagati e, successivamente, si aveva risolto di diritto il contratto di leasing per inadempimento dell’utilizzatore stesso. Nel giudizio di primo grado, la società utilizzatrice conveniva in giudizio la concedente affinché fosse (i) accertata e dichiarata la nullità della clausola relativa alla determinazione degli interessi convenzionali e moratori usurai e, conseguentemente, fossero dichiarati non dovuti interessi ai sensi dell’art. 1815 c.c.; (ii) accertato che tra le parti era stato stipulato un contratto di leasing traslativo e che la risoluzione comportava, ai sensi dell’art. 1526 c.c. la restituzione dei canoni già pagati e riscossi e, per l’effetto, la società di leasing fosse condannata a restituire le somme riscosse a titolo di canone. Il Tribunale di Brescia, richiamando recente giurisprudenza di legittimità, accoglieva l’eccezione di giudicato della società di leasing convenuta, affermando che la sentenza che aveva respinto l’opposizione al decreto ingiuntivo con cui era stato intimato alla società utilizzatrice il pagamento di una somma a titolo di canoni di leasing non pagati, faceva stato tra le parti non solo sull’esistenza e validità del rapporto contrattuale e sulla misura del canone di leasing preteso, ma anche in ordine all’inesistenza di fatti impeditivi o estintivi non dedotti ma deducibili nel giudizio di opposizione, per cui doveva ritenersi escluso per il conduttore/utilizzatore la possibilità di eccepire la nullità delle clausole del contratto di leasing.

Nel giudizio di appello la società utilizzatrice chiedeva la riforma della sentenza fondata su due motivi di gravame e l’accoglimento delle domande già avanzate in primo grado. In particolare l’appellante contestava che il giudicato concernente il pagamento di alcuni canoni potesse paralizzare la domanda ex art. 1526 c.c. di restituzione dei canoni già pagati e riscossi e la condanna della società di leasing alla restituzione delle somme percepite a titolo di pagamento dei canoni di leasing, in quanto all’epoca di emissione del decreto ingiuntivo non era ancora intervenuta la risoluzione del contratto di leasing, posteriore di circa un anno, sicché la predetta domanda di restituzione non poteva essere dedotta nel giudizio di opposizione. Chiedeva quindi, nel merito, che la società di leasing fosse condannata ex art. 1526 c.c. alla restituzione dei canoni già pagati e riscossi.

La Corte d’Appello ha rigettato l’appello principale proposto dell’utilizzatore e confermato la sentenza del Tribunale. Il Collegio ha ritenuto, infatti, non sussistenti i presupposti per l’accoglimento della domanda di condanna della concedente alla restituzione dei canoni di leasing riscossi in esecuzione del contratto, i quali, in base al regolamento pattizio, era previsto che restassero a mani della concedente in caso di risoluzione contrattuale.

(Massime a cura di Roberta Ponzoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 25 novembre 2022, n. 1403 – contratto di leasing

La disciplina antiusura si applica agli interessi moratori essendo la stessa finalizzata a sanzionare non solo la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria dovuta in relazione al contratto. In conseguenza dell’accertamento dell’usurarietà degli interessi moratori, ai sensi dell’art. 1815, comma 2, c.c., non saranno dovuti gli interessi moratori pattuiti, ferma restando, ai sensi dell’art. 1224, comma 1, c.c., la debenza degli interessi corrispettivi lecitamente convenuti, in relazione ai quali, dunque, nessuna pretesta restitutoria può essere giustificata e, pertanto, trovare accoglimento. La soglia sopra la quale gli interessi moratori sono da considerarsi usurari, infatti, va calcolata autonomamente rispetto agli interessi corrispettivi, in forza del principio per cui interessi moratori e corrispettivi hanno cause diverse e sono dovuti in momenti ben distinti, donde la scorrettezza di una loro mera sommatoria e del loro raffronto a un unico parametro.

L’inserimento di una c.d. “clausola di salvaguardia” in forza della quale l’eventuale fluttuazione del saggio di interessi convenzionale dovrà essere comunque mantenuta entro i limiti del c.d. “tasso soglia” antiusura di cui all’art. 2, comma 4, della legge 108/1997, trasforma il divieto legale di pattuire interessi usurari nell’oggetto di una specifica obbligazione contrattuale a carico della banca consistente nell’impegno a non applicare mai, per tutta la durata del rapporto, interessi in misura superiore a quella massima consentita dalla legge. Pregiudiziale rispetto all’insorgenza dell’onere della banca di provare l’adempimento del predetto impegno assunto ai sensi della clausola di salvaguardia è però l’onere del debitore di provare il superamento del tasso soglia antiusura.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello avverso sentenza di primo grado relativa a tre contratti di leasing immobiliari finalizzato ad, inter alia (i) accertare il superamento del tasso soglia d’usura di cui alla legge 108 del 1996 e, per l’effetto, rielaborare il piano dei pagamenti senza alcuna applicazione di interessi e determinare le somme indebitamente versate a titolo di interessi usurari, (ii) accertare che il tasso di mora alla data di stipula fosse superiore al tasso soglia di usura di cui alla legge n. 108 del 1996, (iii) accertare che il tasso leasing contrattuale non sia conforme al tasso effettivo globale e, pertanto, venga applicato il tasso sostitutivo di cui all’art. 117, settimo comma, d. lgs n. 285/1993. Inoltre, quale conseguenza dei predetti accertamenti, l’appellante ha richiesto di (i) dichiarare la nullità delle clausole contenenti le condizioni economiche dei predetti contratti di locazione finanziaria per la usurarietà degli interessi in essi pattuiti, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1815, comma 2, c.c., (ii) imputare a capitale tutte le somme da essa pagate a titolo di interesse, nonché accertare e determinare le eventuali residue somme dovute a saldo e, pertanto, (iii) condannare la società di leasing al pagamento dei compensi e delle spese di giudizio.

La Corte d’Appello ha rigettato l’appello e, per l’effetto, ha confermato la sentenza impugnata. Pertanto la Corte d’Appello ha condannato alle spese legali l’appellante – utilizzatore dei contratti di leasing – risultato soccombente.

(Massime a cura di Emanuele Taddeolini Marangoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza dell’11 novembre 2022, n. 1364 – contratti bancari, mutuo di scopo, mutuo solutorio, anatocismo, ammortamento alla francese, usura

Il mutuo concesso al fine di estinguere debiti pregressi (c.d. “mutuo solutorio”) non è nullo per contrarietà alla legge o all’ordine pubblico, costituendo il ripianamento della passività una possibile modalità di impiego dell’importo mutuato. Deve dunque confermarsi il superamento dell’indirizzo giurisprudenziale per cui tale contratto sarebbe illecito o simulato, in quanto il ricorso al credito come mezzo di ristrutturazione del debito è previsto dalla stessa normativa vigente (Cass. 23419/2022).

La qualificazione del finanziamento come mutuo di scopo (in specie, solutorio), anziché come mutuo ordinario con semplice enunciazione dei motivi, dipende dalla comune volontà delle parti dedotta in contratto. Tale qualificazione impone l’accertamento dell’esistenza di un preciso e ben individuabile interesse del mutuante al raggiungimento degli obiettivi indicati nella clausola di scopo, la quale deve imporre al mutuatario l’utilizzo delle somme ricevute per la realizzazione delle particolari finalità dedotte nel contratto. In caso contrario, tale clausola dovrà intendersi come meramente enunciativa degli intendimenti del mutuatario, a lui solo riferibili e dunque privi di rilievo giuridico (App. Brescia, 29 gennaio 2020 resa nel procedimento 1197/17 RG; App. Brescia, 1344/2015).

L’adozione di un piano di ammortamento c.d. “alla francese” (che prevede la restituzione del finanziamento in rate composte da una quota di capitale e una quota di interessi calcolata sul capitale residuo, in modo tale che al progredire dell’ammortamento la quota di capitale cresca e quella di interessi diminuisca) non implica automaticamente anatocismo, in quanto il calcolo degli interessi è di regola effettuato sul capitale residuo da restituire al finanziatore. A partire dalla quota di interessi riferita alla singola rata, infatti, viene determinata per differenza la quota capitale la cui restituzione viene portata a riduzione del debito. In tal modo, l’interesse non è produttivo di altro interesse e viene separato dal capitale. La costituzione composita delle rate di rimborso attiene esclusivamente alle modalità di adempimento delle due obbligazioni restitutorie poste a carico del mutuatario (quella relativa al capitale e quella relativa agli interessi), che sono ontologicamente distinte e rispondono a finalità diverse. Il fatto che esse concorrano nella stessa rata non è sufficiente a mutarne la natura o a escluderne l’autonomia (Cass. 11400/2014).

Il costo di estinzione anticipata del mutuo non deve essere incluso nel calcolo del TEGM (necessario per la determinazione del tasso usurario rispetto all’operazione posta in essere), in quanto tale spesa è meramente eventuale dovendosi applicare nel solo caso di estinzione anticipata del mutuo. Infatti, non è un effetto che consegue direttamente alla stipula del contratto di mutuo, ma un effetto che può scaturire solo nel momento in cui si verifichino eventi che esulano dalla regolare esecuzione del contratto medesimo. Poiché la disciplina antiusura impone il confronto tra soli dati omogenei, l’importo della penale non può essere incluso tra le voci rilevanti ai sensi della L. 108/1996.

I princìpi esposti sono stati espressi in relazione ad una controversia riguardante la stipulazione, da parte di una società, di alcuni contratti di conto corrente e di mutuo da rimborsarsi secondo un piano di ammortamento c.d. “alla francese”. Rimasta insoluta l’obbligazione restitutoria, la banca creditrice aveva ottenuto l’emanazione di un decreto ingiuntivo, impugnato dalla debitrice e dai suoi garanti, i quali, in prime cure, avevano sollevato plurime contestazioni. Giunta la causa al grado d’appello, deciso con la sentenza massimata, quanto ai contratti di mutuo gli appellanti: (a) contestavano la nullità dei contratti in ragione della qualificazione dei medesimi quali mutui di scopo; (b) lamentavano la natura anatocistica degli interessi pagati nell’ammortamento alla francese; ed infine (c) rilevavano il superamento del tasso-soglia di usura previsto dalla L. 108/1996, poiché nel calcolo del TEGM – parametro base per il computo del tasso usurario – sarebbe stato necessario includere anche i costi di estinzione anticipata del mutuo.

(Massime a cura di Leonardo Esposito)