Tribunale di Brescia, ordinanza del 16 gennaio 2024, n. 60 – procedimento cautelare, azione di contraffazione, marchi, marchi di forma,  marchi non registrati e marchi registrati,  fumus boni iuris e periculum in mora della contraffazione, atti di concorrenza sleale

Differentemente dai marchi registrati, per i quali vale la presunzione di validità (presunzione comunque superabile mediante prova dell’invalidità), per i marchi di fatto è onere della parte che ne invoca la tutela allegare specificamente e dimostrare la validità del segno, dimostrandone il carattere distintivo e i tratti di novità e di originalità.

Con riguardo ai marchi di forma non registrati, l’individuazione del carattere distintivo, della novità e della originalità deve essere specifica, non potendosi ritenere assolto il relativo onere probatorio nel caso in cui la parte intenda fondare la propria pretesa sul mero esame visivo delle immagini raffiguranti il prodotto allegate nella documentazione offerta in giudizio.

Deve escludersi la sussistenza di una capacità distintiva “intrinseca” nelle forme comuni, non originali in sé né nuove.

Come recentemente affermato dalla giurisprudenza, «Può essere registrato e tutelato come marchio di forma quel prodotto la cui pubblicizzazione e commercializzazione ne abbiano favorito la diffusione tra il pubblico al punto da comportare la generalizzata riconducibilità di quella determinata forma dell’oggetto ad una specifica impresa, consentendo l’acquisto, tramite il c.d. “secondary meaning”, di capacità distintiva del marchio che ne era originariamente privo» (cfr. Cass. n. 30455/2022).

Sussiste “secondary meaning” quando «[…] il marchio, in origine sprovvisto di capacità distintiva per genericità, mera descrittività o mancanza di originalità, acquisti tale capacità in conseguenza del consolidarsi del suo uso sul mercato» (cfr. Cass. n. 53/2022). L’acquisto del carattere distintivo tramite il “secondary meaning” può essere desunto da elementi indiziari, quali indagini demoscopiche, sempre che «almeno una frazione significativa del pubblico destinatario identifichi grazie al marchio i prodotti o servizi di cui trattasi come provenienti da un’impresa determinata» (cfr. Trib. I gr. CE, 2 luglio 2009, T-414/07; analogamente Corte Giust. CE, 4 maggio 1999, C-108/97).

Configurano elementi indiziari anche le campagne pubblicitarie svolte e gli investimenti pubblicitari effettuati, relativamente ai quali è onere della parte fornire allegazioni specificamente riferibili ai prodotti contraddistinti dai marchi dei quali si invoca tutela.

Relativamente ai marchi registrati, ai fini della decadenza dai diritti sul segno per volgarizzazione (art. 26 c.p.i), la presenza sul mercato di prodotti aventi forme del tutto analoghe a quelle dei prodotti contraddistinti dai marchi di cui si invoca tutela è un dato di per sé neutro.

Nell’ambito di un giudizio cautelare instaurato nell’ambito di un’azione di merito tesa ad accertare la contraffazione di marchi registrati, ricorre il “fumus” della contraffazione ai sensi dell’art. 20, c.1, lett. b) c.p.i. non solo in caso di esatta riproduzione della forma, ma anche quando la stessa presenti un elemento inidoneo a conferire al prodotto un’impressione radicalmente differente rispetto a quella conferita dal segno oggetto di privativa, qualora tale elemento sia tradizionalmente irrilevante per il consumatore di riferimento.  

Nell’ambito di un giudizio cautelare instaurato nell’ambito di un’azione di merito tesa ad accertare la contraffazione di marchi registrati sussiste il “periculum in mora” quando l’interferenza censurata sia suscettibile di arrecare un pregiudizio al titolare del marchio in termini di svilimento dello stesso, in particolare laddove si consideri che i prodotti oggetto della contraffazione sono venduti a prezzi inferiori. Tale pregiudizio, suscettibile di assumere portata maggiore nelle more del giudizio di cognizione piena, non è adeguatamente ristorabile per equivalente.

La sussistenza del “periculum in mora” non è esclusa dall’inerzia protratta dal titolare del marchio nell’esercizio giudiziale delle sue ragioni, né dalla prolungata coesistenza sul mercato dei prodotti delle rispettive imprese, essendo dirimente in proposito l’imminenza del pericolo insita nell’attualità della produzione e commercio in violazione delle privative registrate. Tali circostanze rilevano, invece, nella modulazione temporale delle misure cautelari concesse, dovendosi accordare al resistente, compatibilmente con le esigenze cautelari, tempi ragionevoli per adeguare al provvedimento la sua organizzazione produttiva e commerciale in modo tempestivo, e possono eventualmente rilevare altresì in termini di riduzione del danno cagionato.

In tema di illeciti concorrenziali, il divieto di imitazione servile ai sensi dell’art. 2598, n.1 c.c. tutela l’interesse a che l’imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente, giacchè l’imitazione servile dei prodotti altrui che non integri violazione di diritti di privativa industriale può configurare atto di concorrenza sleale soltanto quando riguardi elementi estrinseci e formali dei prodotti stessi, che abbiano idoneità individualizzante.

In tema di imitazione servile non è idonea a ingenerare confusione la presenza, sulle confezioni dei prodotti, di marchi denominativi e figurativi radicalmente differenti che non condividano con i marchi oggetto di privativa né il nucleo concettuale, né alcun aspetto fonetico, stilistico o grafico significativo.

Ricorre appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598, n. 2 c.c., quando un’impresa, in forme pubblicitarie, attribuisca ai propri prodotti qualità non possedute, ma appartenenti ai prodotti dell’impresa concorrente.

È da ricondursi all’art. 2598 n. 3, stante l’utilizzo di mezzi non conformi alla lealtà commerciale suscettibile di danneggiare l’azienda altrui, il cd. “agganciamento parassitario”, fattispecie che può realizzarsi mediante l’utilizzo di un packaging che, sotto il profilo estetico, è del tutto simile a quello utilizzato per prodotti omologhi (ad esempio per combinazione di forma e di ingredienti) maggiormente noti, e quindi idoneo ad evocare il ricordo dell’immagine della confezione e del prodotto a marchio altrui, pubblicizzati a livello nazionale.

In tema di agganciamento parassitario, il vantaggio ingiusto ottenuto dal concorrente consiste nel realizzare un significativo risparmio in termini di investimenti necessari per accreditare autonomamente e commercializzare i propri prodotti sul mercato; a tale vantaggio corrisponde per l’impresa concorrente un indebito svantaggio, individuabile nella frustrazione dei suoi investimenti (produttivi, di marketing, pubblicitari), nella potenziale erosione di una quota di mercato in ragione dei prezzi più convenienti praticati dalla concorrente (condizione resa possibile anche grazie al risparmio conseguito, riconducibile ad un atteggiamento commerciale di tipo parassitario), nonché, potenzialmente, in uno svilimento dei suoi marchi.

Principi espressi nell’ambito di un giudizio cautelare funzionale ad un giudizio di merito volto ad accertare la contraffazione di marchi registrati e non registrati, instaurato da una società a responsabilità limitata, attiva nel settore della produzione e commercializzazione di prodotti alimentari, volto ad ottenere l’inibitoria di asseriti illeciti contraffattori e di concorrenza sleale (per imitazione servile, appropriazione di pregi e agganciamento parassitario).

(Massime a cura di Vanessa Battiato)




Tribunale di Brescia, sentenza del 28 dicembre 2023, n. 3416 – registrazione della denominazione, marchio, concorrenza sleale

In materia di società di capitali, l’imprenditore che per primo adotti una determinata denominazione sociale acquista il diritto all’uso esclusivo della stessa, con conseguente obbligo di differenziazione per chi, successivamente, utilizzi una denominazione uguale o simile idonea a generare un rischio di confusione.

Quando due società assumono la medesima denominazione sociale, il conflitto tra le stesse deve essere risolto sulla base del criterio temporale dell’anteriorità nella registrazione della denominazione sociale nel registro delle imprese. A tal proposito, non assume rilievo né il mero pregresso utilizzo della stessa denominazione da parte di altra società, che ha cessato da tempo di operare e che faceva capo a familiari del socio di una della società registrata per seconda, né il fatto che la denominazione di quest’ultima coincida con il cognome di uno di tali soci (cfr. Cass. n. 13921/2021).

La domanda risarcitoria per gli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c. deve comprendere gli elementi puntuali per quantificare il danno asseritamente subito. Il fatto che la società concorrente abbia assunto la stessa denominazione e operi nel medesimo mercato non è sufficiente a tali fini.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio di merito promosso da una società a responsabilità limitata al fine di sentire accertare e dichiarare che l’utilizzo, da parte della convenuta, della medesima denominazione sociale costituiva una violazione di quanto previsto dall’art. 2569 c.c.

In particolare, l’attrice chiedeva – oltre al ritiro ed al sequestro dal commercio di tutti i prodotti della convenuta recanti il segno in oggetto – il cambio della denominazione sociale, l’inibitoria dell’utilizzo del segno oggetto di marchio registrato nonché il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, patiti in conseguenza della condotta di contraffazione.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 28 dicembre 2023, n. 3415 – diritto al nome, marchio, concorrenza sleale

Il diritto al nome, disciplinato dall’art. 6 c.c., costituisce una specificazione del c.d. diritto all’identità personale e implica la possibilità di azionare la tutela prevista dall’art. 7 c.c. consistente nella facoltà di richiedere giudizialmente la cessazione dell’utilizzo non autorizzato del proprio nominativo. In difetto di apposita autorizzazione dell’avente diritto, infatti, l’utilizzo del suo nome è illecito e dà luogo a tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. oltre che alla possibilità, per l’autorità giudiziaria, di ordinare la pubblicazione della sentenza.

La presenza non autorizzata di un nominativo associato a prodotti recanti un determinato marchio su un sito internet ovvero su cataloghi pubblicitari di una società è meritevole di tutela inibitoria ex art. 7 c.c. ove sia proposta apposita domanda.

La tutela risarcitoria ex artt. 7 e 2043 c.c. può essere accordata – anche in via equitativa qualora ricorra l’impossibilità o l’estrema difficoltà di provare l’ammontare del danno – soltanto laddove venga debitamente allegato il tipo di danno sofferto e la dimostrazione della sua esistenza. A tali fini la mera presenza non autorizzata su un sito internet e su cataloghi commerciali del nome di un ex collaboratore di una società, congiuntamente all’affermazione che l’indicazione di tale nominativo abbia comportato per controparte vantaggi economici, non sono elementi idonei di per sé ad integrare un’allegazione circa il tipo e l’entità del danno sofferto risultando così non liquidabile, nemmeno in via equitativa.

L’ordine di pubblicazione della sentenza, per estratto, in una o più testate giornalistiche, radiofoniche o televisive e in siti internet ex art. 120 c.p.c. costituisce oggetto di un potere discrezionale del giudice volto ad impartire una sanzione autonoma che, grazie alla conoscenza da parte della collettività della reintegrazione del diritto offeso, assolve ad una funzione riparatoria strumentale ad evitare ulteriori effetti dannosi dell’illecito (cfr. Cass. n. 21651/2023). Tale potere discrezionale non può essere esercitato in una controversia vertente in materia di utilizzo non autorizzato di un nome, qualora l’illecito sia cessato a seguito della notificazione dell’atto di citazione, giacché, in tale ipotesi, non è ravvisabile la necessità di scongiurare, in via preventiva, ulteriori propagazioni di effetti dannosi.

La domanda di risarcimento del danno ex artt. 7 e 2043 c.c. e la domanda riconvenzionale di tipo risarcitorio fondata su asserite lesioni di diritti di proprietà industriale e presunte condotte di concorrenza sleale non si pongono, tra loro in rapporto di connessione oggettiva ex art. 36 c.p.c. che concede al convenuto la facoltà di proporre domanda riconvenzionale sempreché essa dipenda dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione.

Princìpi espressi in ipotesi di rigetto di una domanda proposta da un ex collaboratore di una società volta ad ottenere il risarcimento del danno asseritamente subito in conseguenza del fatto che la convenuta, cessato il rapporto di collaborazione, aveva indebitamente indicato, per anni, il suo nominativo sul proprio sito internet e su cataloghi commerciali di macchine progettate dall’attore e recanti un marchio originariamente di proprietà di una società della sua famiglia.

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, sentenza del 25 settembre 2023, n. 2378 – atti di concorrenza sleale, concorrenza parassitaria, concorrenza parassitaria c.d. diacronica e c.d. sincronica

Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, l’art. 2598, n. 1, c.c. identifica come atti di concorrenza sleale, tra gli altri, l’utilizzo di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, ovvero l’imitazione servile di prodotti di un concorrente; individua, infine, un’ipotesi, avente valore residuale, che consiste nel compimento, con qualsiasi altro mezzo, di atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente. Detta clausola consente di accordare tutela ad una varietà di fattispecie non singolarmente identificate, tra le quali può essere menzionata quella dell’imitazione di materiale pubblicitario altrui, dell’utilizzo nei propri depliant e sito internet di fotografie con la medesima inquadratura e disposizione dei prodotti usati dal concorrente e con medesime frasi pubblicitarie nonché l’imitazione di parte dei contenuti del sito internet e delle modalità di presentazione dei servizi del concorrente attraverso i social network.

Va esclusa la concorrenza sleale confusoria ex art. 2598, n. 1, c.c. nel caso in cui i marchi figurativi di due imprese concorrenti siano formati da segni distintivi in gran parte diversi, scritti in modalità grafiche e stilistiche differenti e accompagnati da disegni dalle forme geometriche difformi, e siano accomunati unicamente da un segno denominativo rappresentato dalla denominazione generica dei prodotti contraddistinti.

La concorrenza c.d. parassitaria è una forma di concorrenza sleale riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 2598, n. 3, c.c., che consiste in un continuo e sistematico operare sulle orme dell’imprenditore concorrente attraverso l’imitazione non tanto dei prodotti, ma piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest’ultimo, mediante comportamenti idonei a danneggiare l’altrui azienda con ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale (Cass. n. 25607/2018; Cass. n. 22118/2015). Tale comportamento si manifesta tramite una pluralità di atti che, considerati isolatamente, possono anche essere, in sé, non illeciti, ma che, presi nel loro insieme, lo diventano in quanto rappresentano la continua e ripetuta imitazione delle iniziative del concorrente e, quindi, lo sfruttamento sistematico del lavoro e della creatività altrui attraverso una molteplicità di azioni – o un comportamento globale – poste in essere contemporaneamente (Cass. n. 9387/1994). Una simile imitazione delle altrui proposte commerciali può, inoltre, considerarsi illecita esclusivamente se messa in atto a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (concorrenza parassitaria c.d. diacronica) o dall’ultima e più significativa di esse (concorrenza parassitaria c.d. sincronica), con la precisazione che, per “breve”, deve intendersi sia quell’arco di tempo durante il quale l’ideatore della nuova iniziativa ha ragione di attendersi utilità particolari dal lancio della novità in termini di incassi, pubblicità e avviamento, sia il periodo durante il quale l’iniziativa è considerata tale dai clienti e si impone, quindi, alla loro attenzione nella scelta del prodotto. Ciò in quanto il nostro ordinamento accorda tutela alla creatività esclusivamente per un tempo determinato, ossia fin quando l’iniziativa possa considerarsi originale, conseguentemente allorquando l’originalità viene meno, ovvero quando quel determinato modo di produrre e/o di commerciare è divenuto patrimonio ormai comune di conoscenze e di esperienze di quanti operano nel settore, l’imitazione non costituisce più un atto contrario alla correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l’altrui azienda (Cass n. 25607/2018; Cass. n. 13423/2004).

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio instaurato da una società a responsabilità limitata operante nel settore del commercio di alimenti e bevande alcoliche e non alcoliche volto a far accertare che diverse condotte, riferibili ad un’impresa concorrente, costituivano atti di concorrenza sleale, così da ottenere, per l’effetto, l’inibitoria di tali comportamenti, oltre al risarcimento del danno subito ed alla pubblicazione della sentenza. 

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Ordinanza del 2 luglio 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

La sussistenza di un adeguato fumus boni iuris in materia di concorrenza sleale deve essere costituita da elementi diversi e ulteriori rispetto alla mera e fisiologica concorrenza tra imprese.

In merito allo sviamento di clientela, l’eventuale sussistenza di coincidenze in relazione alla perdita di clienti non può considerarsi di per sé sottrazione di clientela in mancanza di allegazioni sufficientemente precise, in quanto la mera conoscenza delle abitudini ed esigenze dei clienti rientra nel patrimonio professionale e personale del lavoratore (specialmente quando si discute di un numero limitato di clienti). 

Per quanto attiene, invece, allo sfruttamento altrui di segreti ovvero di informazioni riservate, la parte danneggiata è tenuta ad allegare specificamente le caratteristiche di tali informazioni e di produrne in giudizio evidenza documentale. 

Con riferimento, poi, allo storno di dipendenti, affinché il fatto possa essere sussunto nella relativa fattispecie a tutela della concorrenza, non è sufficiente il mero storno unitariamente considerato, essendo altresì necessario valutare i mezzi concretamente utilizzati dal concorrente, le modalità di reclutamento del personale e gli effetti destrutturanti sull’altrui organizzazione aziendale, oltre a elementi come il numero di dipendenti e le mansioni ad essi attribuite. 

Infine, ai fini della qualificazione di un determinato comportamento nella categoria della concorrenza sleale parassitaria, l’elemento determinante consiste nel «continuo e sistematico operare sulle orme dell’imprenditore concorrente attraverso l’imitazione non tanto dei prodotti ma piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest’ultimo, mediante comportamenti idonei a danneggiare l’altrui azienda».

Tali principi sono stati espressi nel corso di un procedimento finalizzato all’ottenimento di un provvedimento inibitorio tra una società e un ex dipendente, che ha dato vita a nuova realtà imprenditoriale operante nel medesimo settore. 

(Massime a cura di Marta Arici)




Sentenza del 12 aprile 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

In tema di sottrazione di
segreti aziendali, i requisiti ai fini della protezione delle informazioni
aziendali possono essere così puntualizzati: a) novità, in quanto l’informazione
non deve essere generalmente nota ovvero agevolmente accessibile da terzi; b)
valore economico, idoneo ad attribuire un vantaggio competitivo, che viene meno
laddove l’informazione sia resa pubblica, con la precisazione che tale
requisito presuppone l’effettuazione di uno sforzo economico per ottenere
(ovvero duplicare) tali informazioni; c)
segretezza, intesa come sottoposizione delle informazioni a misure
ragionevolmente adeguate alla protezione, di ordine fisico (es. password)
e giuridico (es. non disclosure agreement), con la
precisazione che la segretezza non equivale ad una assoluta inaccessibilità
(condizione, peraltro, di difficile se non impossibile verificazione), bensì
presuppone che l’acquisizione delle informazioni segrete richieda da parte del
terzo non autorizzato sforzi non indifferenti, con la conseguenza che non possono
essere tutelate informazioni soggette, per loro natura ovvero in ragione di
altre circostanze, a diffusione incontrollata o incontrollabile.

In tema di sottrazione di
segreti aziendali, la tutela di cui all’art. 99 c.p.i. è concessa contro le condotte
di acquisizione, utilizzazione e rivelazione delle informazioni, purché poste
in essere “in modo abusivo”, risultando comunque esclusa ogniqualvolta l’informazione
sia ottenuta dal terzo “in modo indipendente” (cfr. Trib. Brescia, ord.
3.1.2020). In particolare, se il know-how tecnico si identifica con il
patrimonio conoscitivo maturato dal dipendente nel corso del rapporto di
lavoro, allora si tratta di know-how di titolarità del dipendente
medesimo, non già del datore di lavoro, potendo perciò liberamente circolare
nel mercato.

Sussiste il rapporto di
concorrenza tra due imprenditori quando vi è contemporaneo esercizio di una
medesima attività industriale o commerciale in un medesimo ambito territoriale,
anche se solo potenzialmente comune. La comunanza di clientela costituisce il
presupposto per la configurazione di un rapporto concorrenziale e va verificata
anche in una prospettiva potenziale, in ragione dei profili temporali,
geografici e merceologici (cfr. in particolare Trib. Milano, 31.10.2014; nonché
Cass. n. 17144/2009; Cass n. 8215/2007; Cass. n. 621/2013).

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso
da una s.r.l. nei confronti di una s.p.a. per
l’asserita indebita appropriazione da parte della convenuta
concorrente di know-how tecnico e “industriale” dell’attrice, realizzata
tramite l’assunzione di un ex dipendente di quest’ultima.

(Massime a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 31 marzo 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Angelica Castellani

Ai
fini della configurabilità della fattispecie dello storno di dipendenti e/o
collaboratori, non è sufficiente che l’imprenditore ponga in essere
un’attività idonea a crearsi un vantaggio competitivo a danno di un
concorrente, essendo altresì indispensabile che tale vantaggio sia perseguito
mediante una strategia sorretta da un vero e proprio “animus nocendi”,
ossia diretta a svuotare l’organizzazione concorrente delle sue specifiche
possibilità operative mediante sottrazione del “modus operandi” dei
dipendenti, nonché delle conoscenze burocratiche e di mercato da essi
acquisite. Ragion per cui la concorrenza illecita non può mai derivare dalla
mera constatazione di un passaggio di collaboratori da un’impresa ad un’altra
concorrente, né dalla contrattazione che un imprenditore intrattenga con il
collaboratore del concorrente per assicurarsi le relative prestazioni, in
quanto siffatte circostanze rappresentano un’attività legittima ed espressione
dei principi della libera circolazione del lavoro e della libertà di
iniziativa economica.

Rappresentano
segreto commerciale e quindi suscettibile di tutela ai sensi del primo comma dell’art. 98
c.p.i., tutte le informazioni che sono caratterizzate, nel loro insieme o nella precisa
configurazione e combinazione dei loro elementi, dal non essere generalmente
note o facilmente accessibili agli esperti e agli operatori del settore,
dall’avere un valore commerciale e dall’essere sottoposte a misure
ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete. In particolare, sono idonee a
costituire segreto commerciale tutte quelle informazioni che sono riconducibili
a tecniche
relative a procedimenti e prodotti, brevettabili o meno (ad es. manuali d’uso,
schemi, disegni tecnici, informazioni relative alle modalità di attuazione di
un processo industriale, formule chimiche segrete, disegni esecutivi di
impianti e procedimenti), le informazioni relative a dati utili allo
svolgimento delle funzioni commerciali (ad es. quali gli elenchi contenenti i
nominativi di clienti e fornitori e le condizioni economiche praticate agli
stessi in quanto non destinate a essere pubblicizzate all’esterno dell’azienda),
le informazioni amministrative (ad es. la documentazione relativa alla
certificazione di qualità UNI, EN, ISO 9001) e le procedure attinenti all’amministrazione
interna dell’impresa.

Ai sensi dell’art. 98 c.p.i,
la segretezza deve essere valutata unitamente al requisito del valore
economico delle informazioni sottratte in quanto, proprio grazie alla
segretezza delle stesse, l’impresa che le detiene, viene a trovarsi in una
posizione privilegiata rispetto alle imprese concorrenti che non le possiedono,
potendo sfruttare tale vantaggio in termini economici, al fine di mantenere o
aumentare la propria quota di mercato.

La
fattispecie dello sviamento della clientela, presupponendo un comportamento rilevante ai sensi dell’art.
2598, comma 1, n. 3 c.c., non richiede l’episodico venire in contatto dell’ex
dipendente con clienti già seguiti presso la precedente impresa, ma un’acquisizione
sistematica e massiccia di tali clienti quale terreno di attività elettiva
svolta presso il nuovo imprenditore, praticabile proprio e solo in virtù delle
conoscenze riservate precedentemente acquisite.

Integra
la fattispecie di concorrenza di sleale, l’attività dell’imprenditore che si avvale della
collaborazione di soggetti che hanno violato l’obbligo di fedeltà nei confronti
del loro datore di lavoro, quando il terzo si appropria, per il tramite del
dipendente, di notizie riservate nella disponibilità esclusiva del predetto
datore di lavoro, ovvero che il terzo istighi o presti intenzionalmente un
contributo causale alla violazione dell’obbligo di fedeltà cui il dipendente
stesso è tenuto. Detto obbligo non vincola il terzo e non ne limita la
libertà sul piano economico, per la stessa ragione per cui il patto di
esclusiva non vincola l’imprenditore concorrente – terzo rispetto ad esso – che
operi nella zona di altrui pertinenza senza avvalersi di mezzi non conformi
alla correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda.

Principi
espressi nel procedimento promosso da un istituto di credito nei confronti dell’istituto
concorrente, al fine di ottenere tutela inibitoria ed il risarcimento dei
pregiudizi patrimoniali e non patrimoniali asseritamente patiti in conseguenza
del compimento di atti di concorrenza sleale.

Nel
dettaglio, l’attore lamentava
un
massiccio storno di dipendenti (
private
bankers/consulenti finanziari), i quali, avviato un rapporto di lavoro con
il nuovo istituto di credito, avrebbero intrapreso un’intensa attività di sviamento
della clientela seguita presso il precedente istituto utilizzando informazioni
riservate che avrebbe portato numerosi clienti a liquidare e/o trasferire i
propri investimenti. Il Tribunale escludendo la sussistenza della fattispecie
della concorrenza sleale, ha affermato che detto illecito deve essere connotato
dalla volontà dell’imprenditore concorrente di danneggiare l’impresa altrui in
misura eccedente al normale pregiudizio che ogni imprenditore può avere dalle
perdite di dipendenti che scelgono di lavorare presso altri, perché diretto a
privare intenzionalmente il concorrente di elementi indispensabili al buon
andamento dell’impresa. I giudici inoltre hanno escluso la ricorrenza dei
requisiti di cui all’art. 98 c.p.i. nel caso di specie in quanto l’acquisizione
della “lista clienti” non era avvenuta mediante lo sfruttamento di un complesso
di dati sensibili o riservati posseduti in via anticipata e organizzata
unicamente in virtù del precedente rapporto di lavoro, ma era collocabile nella
categoria di cognizioni che fanno parte del patrimonio professionale e
personale del lavoratore, il quale può legittimamente dar seguito a singoli
rapporti di conoscenza diretta con la clientela già assistita.

(Massima
a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 26 marzo 2021 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

Il rapporto concorrenziale non può essere individuato nella mera
realizzazione di prodotti aventi caratteristiche analoghe, ma occorre indagare
anche la tipologia di clientela alla quale si indirizza l’offerta e le modalità
di aggressione del mercato; non è apprezzabile alcun rapporto di concorrenza in
concreto tra due imprese ove esse operino in mercati di prodotto distinti e in
alcun modo sovrapponibili.

In tema di storno di dipendenti la concorrenza illecita non può in
alcun caso derivare soltanto dalla mera constatazione di un passaggio di
collaboratori da un’impresa ad un’altra concorrente, né dalla contrattazione
intrattenuta con il collaboratore di un concorrente. L’illiceità della
concorrenza deve essere desunta dall’obiettivo, che l’imprenditore concorrente
si proponga attraverso il passaggio di personale, di vanificare lo sforzo di
investimento del suo antagonista ed a tal fine è necessaria la sussistenza del
c.d. “animus nocendi”, nel senso che il reclutamento di personale
dipendente dell’imprenditore concorrente si connota di intenzionale slealtà
soltanto quando esso venga attuato con modalità abnormi per il numero o la
qualità dei prestatori d’opera distolti ed assunti, così da superare i limiti
di tollerabilità del reclutamento medesimo che, nella sua normale
estrinsecazione, è del tutto lecito.

Principi
espressi all’esito del giudizio promosso da una società a responsabilità
limitata avverso altra società ed alcuni collaboratori di quest’ultima,
precedentemente collaboratori dell’attrice, per concorrenza sleale.

(Massime a cura di Lorena Fanelli)




Sentenza del 12 marzo 2021 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Angelica Castellani

Il
giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto
deve rilevarne d’ufficio la sua nullità solo parziale, e solo qualora le parti,
all’esito di tale indicazione officiosa, omettano un’espressa istanza di
accertamento in tal senso, deve rigettare l’originaria pretesa non potendo
inammissibilmente sovrapporsi alla loro valutazione e alle loro determinazioni
espresse nel processo (Cass. SS.UU. n. 26242/2014).

Le
eccezioni in senso stretto si identificano solo in quelle per le quali la legge
espressamente riservi il potere di rilevazione alla parte o in quelle in cui il
fatto integratore dell’eccezione corrisponda all’esercizio di un diritto
potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare e, quindi, per
svolgere l’efficacia modificativa, impeditiva o estintiva di un rapporto giuridico, supponga il
tramite di una manifestazione di volontà della parte (ex multis, Cass. n. 20317/2019, conforme a Cass. SS.UU. n.
1099/1998, Cass. n. 12353/2010 e Cass. n. 27045/2018). L’invocata sostituzione ex art. 1419 c.c. della clausola
contrattuale derogativa dell’art. 1957 c.c. con la norma di legge costituisce
effetto consequenziale alla dedotta nullità, sicché la decadenza di cui alla
citata norma, non integrando eccezione in senso stretto per il cui rilievo
risulta indispensabile l’iniziativa di parte, può essere rilevata d’ufficio
quale fatto estintivo risultante dal materiale allegatorio e probatorio
acquisito in atti.

In tema di accertamento
dell’esistenza di intese restrittive della concorrenza vietate dall’art. 2
della l. n. 287 del 1990, con particolare riguardo alle clausole relative a
contratti di fideiussione stipulati con le banche, il provvedimento della Banca
d’Italia di accertamento dell’infrazione, adottato prima delle modifiche
apportate dall’art. 19, c. 11, della l. n. 262 del 2005, possiede, al pari di
quelli emessi dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, un’elevata
attitudine a provare la condotta anticoncorrenziale, indipendentemente dalle
misure sanzionatorie che siano in esso pronunciate, e il giudice del merito è
tenuto, per un verso, ad apprezzarne il contenuto complessivo, senza poter
limitare il suo esame a parti isolate di esso, e, per altro verso, a valutare
se le disposizioni convenute contrattualmente coincidano con le condizioni
oggetto dell’intesa restrittiva, non potendo attribuire rilievo decisivo
all’attuazione o meno della prescrizione contenuta nel menzionato provvedimento
con cui è stato imposto all’ABI di estromettere le clausole vietate dallo
schema contrattuale diffuso presso il sistema bancario (Cass. n. 13846/2019).

La produzione in
giudizio dei provvedimenti delle autorità indipendenti che espongono gli esiti
dell’istruttoria antitrust unitamente
all’ulteriore compendio probatorio atto a confermare la diffusività dello
schema contrattuale nel settore di riferimento in un arco temporale che
ricomprende il momento in cui è stata stipulata la fideiussione oggetto di
causa integrano elementi di prova sufficienti a dimostrare l’esistenza del
cartello anticoncorrenziale e la sua attitudine a spiegare effetti sulla
negoziazione particolare.

Da un lato, la
circostanza che una intesa ‘a monte sia nulla perché anticoncorrenziale
non comporta automaticamente la nullità di tutti i contratti posti in essere
dalle imprese aderenti all’intesa. Dall’altro lato, avendo l’Autorità
amministrativa circoscritto l’accertamento dell’illiceità ad alcune specifiche
clausole, ciò non esclude, né è incompatibile con il fatto che in concreto la
nullità del contratto ‘a valle’ debba essere valutata dal giudice adito e che
possa trovare applicazione l’art. 1419 c.c., laddove l’assetto degli interessi
in gioco non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata
alle clausole rivenienti dalle intese illecite (Cass. n. 24044/2019).

Pertanto, la nullità ‘a valle’ delle fideiussioni omnibus
deve essere valutata alla stregua dell’art. 1418 ss. c.c. e può trovare
applicazione l’art. 1419 cod. civ., laddove l’assetto degli interessi in gioco
non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata alle
clausole rivenienti dalla intesa illecita, posto che, in linea generale, solo
la banca potrebbe dolersi della loro espunzione (Cass. n. 4175/2020).

La valutazione
concorrenziale dello schema contrattuale non si fonda sul mero confronto della
singola clausola con la regola codicistica, quanto piuttosto sulla previsione
uniforme di una disciplina di dettaglio idonea ad incidere sulla
caratterizzazione dell’offerta bancaria, impedendo l’efficace forma di
concorrenza rappresentata dalla differenziazione della stessa e aggravando la
posizione del fideiussore.

Devono ritenersi
caratterizzate da oggetto illecito, e quindi nulle ai sensi del combinato
disposto degli artt. 1418 e 1346 c.c., le
clausole che traspongono nel contratto ‘a valle’ l’identico contenuto del
prodotto dell’intesa ‘a monte’, la cui invalidità è testualmente sancita
dall’art. 2, c. 2, lett. a) della l. n. 287 del 1990, cui va riconosciuta
natura di norma di ordine pubblico economico. Tali clausole, contenute in
un contratto c.d. ‘seriale’,
destinato all’utilizzazione sistematica e generalizzata, sono direttamente
strumentali al risultato vietato dalla legge, veicolando l’identico contenuto
di condizioni generali di cui è già stata accertata la nullità in quanto
uniformemente applicate. L’oggetto del contratto è illecito anche quando la
prestazione, pur in sé lecita, è funzionale al perseguimento di un risultato
vietato dall’ordinamento. Nel caso di specie, attraverso tali clausole si
realizza e si perpetua la violazione degli interessi generali sottesi alla
legge antitrust.

Con riferimento al
regime di nullità – totale o parziale – in mancanza della prova che i
contraenti non avrebbero concluso il contratto senza le clausole colpite da
nullità, il paradigma da adottare deve essere quello della nullità parziale ex art. 1419, c. 2, c.c.

Pertanto, salva la
dimostrazione, da fornirsi a cura della parte che invochi la nullità
dell’intero regolamento negoziale, che i contraenti non lo avrebbero concluso
senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità, deve ritenersi che il
fideiussore avrebbe prestato la garanzia, atteso che la sostituzione della
disciplina codicistica alle pattuizioni nulle è a lui più favorevole.

Con riferimento
all’eccezione ex art. 1955 c.c., il fatto del creditore rilevante ai
fini della liberazione del fideiussore non può consistere nella mera inazione,
ma deve costituire violazione di un dovere giuridico imposto dalla legge o
nascente dal contratto e integrante un fatto quanto meno colposo, o comunque
illecito, dal quale sia derivato un pregiudizio giuridico, non solo economico,
che deve concretizzarsi nella perdita del diritto (di surrogazione ex
art. 1949 c.c., o di regresso ex art. 1950 c.c.), e non già nella mera
maggiore difficoltà di attuarlo per le diminuite capacità satisfattive del
patrimonio del debitore (in tal senso, da ultimo, Cass. n. 4175/2020;
precedenti conformi: Cass. n. 21833/2017, Cass. n. 9695/2011 e Cass. n.
28838/2008).

Il principio in base al
quale, nella fideiussione per obbligazione futura, sussiste l’onere del creditore,
previsto dall’art. 1956 c.c., di richiedere l’autorizzazione del fideiussore
prima di far credito al terzo, le cui condizioni patrimoniali siano peggiorate
dopo la stipulazione del contratto di garanzia, assolvendo alla finalità di
consentire al fideiussore di sottrarsi, negando l’autorizzazione,
all’adempimento di un’obbligazione divenuta, senza sua colpa, più gravosa, non
risulta applicabile allorché nella stessa persona coesistano le qualità di
fideiussore e di amministratore della società debitrice principale, poiché, in
tale ipotesi, la richiesta di credito da parte della persona obbligatasi a
garantirlo comporta di per sé la preventiva autorizzazione del fideiussore alla
concessione del credito (ex multis, Cass. n. 31227/2019, Cass. n. 7444/2017
e Cass. n. 3761/2006).

Inoltre, qualora il
fideiussore sia anche socio della società debitrice principale, da una parte si
deve presumere – salvo circostanze particolari da dedurre – che egli sia già
pienamente informato delle peggiorate condizioni economiche della società, e
dall’altra parte, si deve ritenere che la sua qualità di socio gli consenta di
attivarsi per impedire che continui la negativa gestione (mediante la revoca
dell’amministratore) o per non aggravare ulteriormente i rischi assunti (mediante
l’anticipata revoca della fideiussione); pertanto, anche in questa circostanza,
non è consentito eccepire la liberazione ex art. 1956 c.c. (così, Cass.
n. 2902/2016 e Cass. n. 11979/2013).

Al
fine di poter efficacemente opporre al terzo contraente le limitazioni dei
poteri di rappresentanza dei propri organi sociali, la società deve dimostrare,
ai sensi dell’art. 2384, c. 2, c.c., non già la mera conoscenza o conoscibilità
dell’esistenza di tali limitazioni da parte del terzo, ma altresì la sussistenza
di un accordo fraudolento o, quanto meno, la consapevolezza di una stipulazione
potenzialmente generatrice di un danno per la società (ex multis, Cass. n. 7293/2009).

Principi espressi in sede, inter alia,
di accertamento della nullità parziale di un contratto di fideiussione omnibus
contenente clausole riproduttive degli artt. 2, 6 e 8 dello schema ABI.

(Massime
a cura di Giorgio Peli)




Ordinanza del 21 ottobre 2020 – Giudice designato: Dott.ssa Alessia Busato

Anche lo storno di un solo dipendente è da considerarsi illecito allorché connotato dall’animus nocendi dello stornante oltre che dalla natura essenziale – cioè idonea ad avere ripercussioni traumatiche sull’organizzazione aziendale – dell’apporto lavorativo del dipendente stornato.

Può configurarsi un atto di concorrenza sleale in presenza di un trasferimento di un complesso di informazioni da parte di un ex dipendente che, pur non costituenti un vero e proprio diritto di proprietà industriale, costituiscano un complesso strutturato e organizzato di dati cognitivi, che superino la normale capacità mnemonica ed esperienza del dipendente. 

Principi espressi nell’ambito di un procedimento cautelare nel quale la ricorrente chiedeva l’inibizione dell’attività dei resistenti consistente in concorrenza sleale, in particolare da sviamento della clientela con rivelazione di segreti commerciali ex artt. 98 e 99 c.p.i. e storno di dipendenti.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)