Tribunale di Brescia, sentenza del 2 settembre 2022, n. 2196 – società cooperativa, rimborso del versamento dei soci, risparmio sociale, recesso, postergazione del credito

Nelle società cooperative, il diritto al rimborso spetta a ciascun socio che abbia esercitato il diritto di recesso, per il solo fatto di aver effettuato il versamento, a prescindere dalla liceità o meno della provvista impiegata, salvo che sia diversamente previsto nello statuto sociale.

La norma di cui all’art. 2467 c.c., prevista in tema di società a responsabilità limitata, che prevede la postergazione del rimborso dei finanziamenti eseguiti dai soci a favore di società rispetto al soddisfacimento degli altri creditori alla ricorrenza di determinati presupposti (ossia, l’eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto ovvero una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole effettuare un conferimento), non è applicabile alle società cooperative, tenuto conto, tra l’altro, della diversità di funzione che assolve il capitale in tale tipo sociale (funzionale alla gestione mutualistica), rispetto alle altre società lucrative. Ne consegue che deve ritenersi preclusa la possibilità di assimilare il prestito sociale cooperativo ai finanziamenti soci di cui all’art. 2467 c.c.

(Nel caso in esame, in ogni caso, la convenuta aveva omesso di allegare riferimenti concreti che avrebbero giustificato l’applicazione della norma invocata al tipo societario della società cooperativa).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo promosso da una società cooperativa, in qualità di cessionaria del credito costituito dal risparmio sociale maturato dai propri soci nei confronti di un’altra società cooperativa convenuta.

In particolare, la società attrice chiedeva, in via riconvenzionale, la condanna della società convenuta, beneficiaria della scissione parziale della società attrice, al pagamento in proprio favore del credito maturato dai soci a titolo di rimborso delle quote di risparmio sociale a seguito del loro recesso e poi ceduto all’attrice.

Secondo la tesi attorea, il suddetto credito avrebbe trovato il proprio fondamento, oltre che in una scrittura privata stipulata tra le due società cooperative e i rispettivi soci, nella scissione parziale della società attrice, con cui la stessa ha trasferito alla società beneficiaria convenuta tutte le sue passività, ad eccezione dei debiti della scissa nei confronti dei propri soci per il rimborso del risparmio sociale (non contemplati nel progetto di scissione).

La società convenuta si costituiva in giudizio chiedendo, tra l’altro, (i) di dichiarare l’inesistenza del credito ceduto costituito dal risparmio sociale, in quanto derivante da provviste conseguite dai soci illecitamente; (ii)  di accertare la postergazione del rimborso del risparmio sociale rispetto alla soddisfazione degli altri creditori ai sensi dell’art. 2467 c.c; in subordine (iii) di accertare l’estinzione del credito per confusione; in ogni caso, il rigetto della domanda riconvenzionale svolta dall’attrice.

Il tribunale ha accolto la domanda riconvenzionale formulata dalla società attrice, condannando la società convenuta al versamento del credito derivante dal risparmio sociale dei soci e al pagamento delle spese di lite.

(Massime a cura di Valentina Castelli)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 15 luglio 2022 – s.a.s., revoca dell’amministratore per giusta causa




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 13 luglio 2022, n. 944 – contratto di leasing, buona fede ed esercizio della clausola risolutiva espressa, art. 1526 c.c., legittimazione processuale del cessionario

Il principio di buona fede, in quanto principio cardine e generale dell’ordinamento, impone di valutare il comportamento dei contraenti sia al momento dell’esecuzione del contratto, sia nel momento patologico dell’inadempimento e della sua risoluzione, senza tuttavia che ciò inverta l’onere della prova nel caso di inadempimento né sovverta il principio in materia di clausola risolutiva espressa riguardo la non sindacabilità della gravità dell’inadempimento pattiziamente predeterminata. In quest’ultima ipotesi, l’indagine della buona fede – da accertarsi sia sul piano oggettivo della condotta che su quello soggettivo della colpa – va ricondotta al momento in cui l’obbligato ha tenuto il comportamento previsto in contratto e la controparte si è avvalsa della predetta clausola. L’attesa del concedente nell’avvalersi della clausola risolutiva espressa anche a seguito del susseguirsi di una serie di inadempimenti da parte dell’utilizzatore, quanto al piano oggettivo della condotta, e la mancata dimostrazione da parte dell’utilizzatore che, nonostante l’uso della normale diligenza, non sia in grado di adempiere alle obbligazioni derivanti dal contratto di leasing per causa a lui non imputabile, quanto al profilo soggettivo della colpa, indicono a considerare legittimo e non connotato da malafede l’utilizzo della clausola risolutiva espressa, anche a fronte del rifiuto della società di leasing a rinegoziare il relativo contratto. 

Alla risoluzione del leasing traslativo, i cui presupposti si siano verificati anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 124 del 2017, si applica analogicamente la disciplina di cui all’art. 1526 c.c. e, pertanto, ove la risoluzione del predetto contratto derivi da un inadempimento dell’utilizzatore, lo stesso ha diritto alla restituzione delle rate pagate solo previa restituzione del bene, dal momento che solo dopo tale restituzione il concedente potrà trarre dalla cosa ulteriori utilità e sarà possibile determinare il c.d. “equo compenso” ad esso spettante per il mero godimento garantito all’utilizzatore nel periodo di durata del contratto. Tuttavia, con riferimento al contratto di leasing, occorre tenere in considerazione l’interesse del concedente che è quello di ottenere l’integrale restituzione della somma erogata a titolo di finanziamento unitamente a interessi, spese e utili dell’operazione e non la restituzione dell’immobile che costituisce piuttosto una garanzia alla restituzione del finanziamento. Pertanto, nel leasing la riconsegna dell’immobile è insufficiente, quale risarcimento del danno, ove non avvenga la restituzione del finanziamento e il valore dell’immobile non ne copra l’intero importo.

In caso di cessione di crediti nell’ambito di un’operazione di cartolarizzazione ex legge 30 aprile 1999 n. 130, ove vi sia contestazione circa la legittimazione del cessionario, è onere di chi assuma di avere, in forza della cessione, acquisito la legittimazione attiva ad agire, sia pure ai soli fini dell’intervento ex art. 111 c.p.c., allegare e dimostrare la effettiva estensione del suo titolo di acquisto sul piano oggettivo in relazione ai rapporti e ai crediti che si assumono essere stati acquistati e, cioè, fornire la prova che il rapporto sia compreso tra quelli compravenduti nell’ambito dell’operazione di cessione in blocco.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello promosso dall’utilizzatore avverso l’ordinanza ex articolo 702-ter c.p.c. emessa all’esito del giudizio sommario di cognizione di primo grado, nel quale l’utilizzatore-convenuto, a fronte dell’accertamento della risoluzione di diritto per clausola risolutiva espressa del contratto di leasing immobiliare e condanna all’immediato rilascio dell’immobile oggetto del contratto, oltre al pagamento delle spese di lite, chiedeva, in via riconvenzionale, (i) l’inefficacia dell’utilizzo della clausola risolutiva espressa asserendo un suo utilizzo contrario a buona fede, (ii) l’applicazione analogica del disposto dell’art. 1526 c.c. (condannando la società concedente alla restituzione di tutti i canoni percepiti, dedotto l’equo compenso ad essa spettante per il godimento, da parte dell’utilizzatore, del bene concesso in leasing) e (iii) di accertare la carenza di legittimazione ad agire in capo alla società intervenuta nel giudizio quale cessionaria del credito derivante dal predetto contratto di leasing.

Con sentenza, la Corte d’Appello (i) ha rigettato integralmente l’appello formulato dall’utilizzatore, rilevando, tra l’altro, che la pretesa restituzione dei canoni versati in eccedenza (o la riduzione della clausola penale per eccessiva onerosità) è preclusa dal mancato rilascio del bene che impedisce la sua ricollocazione sul mercato da parte del concedente, non potendosi prospettare alcun credito dell’utilizzatrice in relazione all’asserito esubero di valore del bene e (ii) ha condannato alle spese di lite l’appellante.

(Massime a cura di Emanuele Taddeolini Marangoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 16 giugno 2022, n. 1687 – fideiussione omnibus, riproduzione di clausole del modulo ABI censurate dalla Banca d’Italia, nullità parziale, clausola floor, differenza rispetto all’opzione floor

Posto che in base al provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2 maggio 2005 le clausole di cui agli artt. 2, 6 e 8 dello schema contrattuale predisposto dall’ABI per le fideiussioni omnibus sono in contrasto con l’art. 2, 2° co., lett. a), l. n. 287/1990,  le fideiussioni che le riproducono in tutto o in parte  sono a loro volta parzialmente nulle, ai sensi degli artt. 2, 3° co.,  l. n. 287/1990 e 1419 c.c., limitatamente alle sole clausole che riprendono quelle dello schema contrattuale  costituente l’intesa vietata, poiché la nullità dell’intesa a monte si riverbera sul contratto stipulato a valle, che ne costituisce un effetto consequenziale, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti nel senso dell’essenzialità della parte del contratto colpita da nullità (cfr. SS.UU. n. 41994/2021).

L’eccezione di decadenza della banca dall’azione nei confronti dei fideiussori, ai sensi dell’art. 1957 c.c., essendo un’eccezione in senso stretto ex art. 2969 c.c., deve essere sollevata nel rispetto dei termini di cui agli artt. 163, 166 e 167 c.p.c. e quindi, in caso di opposizione a decreto ingiuntivo pronunciato su ricorso della banca garantita, nell’atto di citazione introduttivo del relativo giudizio.

La clausola di un contratto di fideiussione volta a far sì che il tasso di interesse dovuto dal cliente non scenda al di sotto di una determinata percentuale già predeterminata nel suo ammontare, al fine di tutelare l’interesse del mutuante, in ipotesi di mutuo a tasso variabile, a  trarre comunque lucro dalla concessione del credito, non è assimilabile alla c.d. opzione floor, ossia quello strumento finanziario derivato che consente al sottoscrittore, a fronte di un premio da versare, di porre un limite alla variabilità in discesa di un determinato indice o di un prezzo, ricevendo la differenza che alla scadenza o alle scadenze contrattuali si manifesta tra l’indice di riferimento ed il limite fissato, e quindi non trova applicazione la disciplina contenuta, principalmente, nel testo unico della finanza.

Principi espressi nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dalla banca nei confronti dei fideiussori del proprio cliente-debitore.

(Massime a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Tribunale di Brescia, sentenza del 7 maggio 2022, n. 1239 – società cooperativa, invalidità delle deliberazioni sociali, esclusione del socio, opposizione del socio escluso

L’irregolarità delle comunicazioni relative all’esclusione del socio da una società cooperativa non configura un vizio insanabile del procedimento di contestazione e successiva deliberazione, laddove esista uno stretto collegamento tra la persona del socio e il luogo di notificazione delle comunicazioni, per quanto diverso dall’indirizzo annotato sul libro soci. Tale irregolarità avrebbe potuto, piuttosto, legittimare il socio a una tardiva allegazione delle proprie giustificazioni.

In materia di esclusione del socio “volontario” appare difficile distinguere la fattispecie del socio “volontario” che abbia cessato l’attività di volontariato presso la cooperativa, legittimante l’esclusione, da quella del socio “volontario” che abbia cessato di prestare la propria opera a favore della cooperativa, determinante la decadenza. Invero, una volta qualificato il socio “volontario” come colui che presta a favore della cooperativa la propria attività gratuitamente, esclusivamente per fini di solidarietà, non sembra assumere concreta pregnanza che tale attività coincida con lo stesso servizio offerto all’esterno dalla cooperativa, con altra attività “solidaristica” o con un’attività di carattere amministrativo o professionale resa gratuitamente dal socio e, comunque, idonea a consentire alla cooperativa di poter operare in vista del raggiungimento dei suoi scopi sociali (in quanto tale, anch’essa definibile come “volontariato”). In ogni caso, per poter rimanere nella compagine sociale della cooperativa occorre mantenere con la stessa un rapporto inquadrabile nelle tipologie sopra descritte. In caso contrario, il socio è soggetto ad esclusione o dichiarazione di decadenza.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio avente ad oggetto l’opposizione della delibera del consiglio di amministrazione di una società cooperativa sociale onlus di esclusione del socio dalla medesima ai sensi della quale lo stesso ha richiesto di accertare la nullità e/o l’annullamento della relativa comunicazione relativa alla delibera in quanto non preceduta da lettera di contestazione dell’addebito, priva dell’indicazione specifica dei fatti posti alla base dell’esclusione e inviata all’indirizzo di posta elettronica certificata di un soggetto giuridico diverso dall’attore. Con riferimento al merito del provvedimento opposto, il socio ha, inter alia, contestato che la presa d’atto che il socio cessato di prestare la propria opera di amministratore a favore della cooperativa rientrasse in una ipotesi delle ipotesi di esclusione tassativamente previste dallo statuto potendo al più essere inquadrata in un’ipotesi di decadenza, la quale, tuttavia, non era stata invocata nella delibera di esclusione.

Si costituiva in giudizio la società cooperativa sociale onlus negando la fondatezza delle allegazioni e deduzioni avversarie e chiedendo il rigetto delle domande attoree.

Il Tribunale rilevato che l’irregolarità delle comunicazioni relative all’esclusione del socio poteva legittimare l’attore a una tardiva allegazione delle proprie giustificazioni, facoltà che egli aveva, nondimeno, mancato di esercitare, avendo promosso tempestiva opposizione senza negare l’addebito contestatogli e senza addurre valida giustificazione allo stesso e, rilevato che, non emergeva alcun sostanziale interesse dell’attore a pretendere una qualificazione della propria situazione in termini di decadenza piuttosto che di esclusione, ha dichiarato la correttezza e legittimità del provvedimento di esclusione oggetto di opposizione e, pertanto, ha rigettato le domande attoree.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Sentenza dell’11 aprile 2022, n. 888 – Giudice designato: Dott. Raffaele Del Porto

È da
escludersi che la mera intervenuta ammissione del creditore al passivo del
fallimento possa comportare, per effetto del preteso giudicato fallimentare, una
preclusione all’esame delle domande coltivate dalla curatela. Infatti, l’ammissione
del credito allo stato passivo non fa stato fra le parti fuori dal fallimento:
il giudicato ha natura strettamente endofallimentare, dal momento che esso, ai
sensi dell’art. 96, comma 6, l. fall., copre solo la statuizione di rigetto o
di accoglimento della domanda di ammissione, precludendone il riesame (conf. Cass.
27709/2020).

La
dichiarazione di fallimento del debitore ingiunto – intervenuta quando il
decreto ingiuntivo non era ancora definitivo – comporta la declaratoria di
improcedibilità della domanda azionata in via monitoria dal creditore, essendo
questi tenuto a far accertare il proprio credito nell’ambito della verifica del
passivo, ai sensi degli artt. 92 e ss. l.fall., in concorso con gli altri
creditori (conf., fra le altre, Cass. 6195/2020). Trattasi, inoltre, di
improcedibilità rilevabile d’ufficio, senza che vada integrato il
contraddittorio nei confronti della curatela fallimentare.

Nel
caso di specie, la dichiarazione di fallimento del debitore interveniva in
pendenza di procedimento monitorio azionato a suo carico (ed in relazione al
quale il debitore aveva altresì presentato domanda di opposizione al decreto
ingiuntivo). Da ciò consegue che:
i)
l’esame delle domande di risoluzione del contratto e di risarcimento dei danni
proposte dal debitore, poi fallito, non risulta precluso dal giudicato
endofallimentare;
ii) il credito vantato nei suoi confronti deve essere
insinuato al passivo del fallimento;
iii) il decreto ingiuntivo (non
ancora definitivo) è revocato e la domanda azionata in via monitoria per far
valere detto credito è dichiarata improcedibile.

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Sentenza dell’8 aprile 2022, n. 860 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

Nelle
società di capitali, l’interesse del socio al potenziamento e alla
conservazione della consistenza economica dell’ente è tutelabile esclusivamente
con strumenti interni (i.e., la partecipazione alla vita sociale, l’impugnazione
delle deliberazioni degli organi societari, le azioni di responsabilità contro
gli amministratori). Ritenendosi queste tutele sufficienti, i soci non sono
legittimati ad impugnare i negozi giuridici stipulati dalla società. La
validità di questi, infatti, anche nelle ipotesi di nullità per illiceità
dell’oggetto, della causa o dei motivi, può essere contestata esclusivamente
dalla stessa società, senza che, al contrario, il socio possa invocare l’applicazione
dell’art. 1421 c.c., il quale sancisce che – salvo diversa disposizione di
legge – la nullità possa essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse (conf.
Cass. 12615/1999, Cass. n. 4579/2009, Cass. n. 29325/2021).

Tra
i presupposti costitutivi dell’azione surrogatoria di cui all’art. 2900 c.c.,
il legislatore prevede l’inerzia del debitore rispetto all’esercizio delle sue
pretese personali. Tale inerzia – e con essa la legittimazione del creditore
all’esercizio in via surrogatoria dell’altrui diritto – viene meno solo nel
momento in cui il debitore ponga in essere condotte idonee e sufficienti a far
ritenere utilmente espressa la sua volontà in ordine alla gestione del
rapporto. Il creditore, inoltre, non può sindacare le modalità con cui il
debitore abbia ritenuto di esercitare la propria situazione giuridica
nell’ambito del rapporto, né contestare le scelte e l’idoneità delle
manifestazioni di volontà espresse a produrre gli effetti riconosciuti
dall’ordinamento.

Nel
caso di specie, parte attrice agiva nella duplice qualità di socia e,
ex art. 2900 c.c., di creditore della parte
convenuta, al fine di ottenere, in via gradata:
i) l’accertamento della
nullità
ovvero l’annullamento di un
lodo arbitrale irrituale pronunciato tra le medesime parti;
ii) l’annullamento dei successivi accordi, in
quanto fondati su lodo nullo o annullabile, nonché in quanto in ogni caso non
idonei a configurare convalida del lodo (sul presupposto che fosse annullabile)
a causa dell’omessa menzione, richiesta
ex art. 1444 c.c., delle cause
di annullabilità.

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Sentenza del 5 aprile 2022, n. 812 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

In tema di responsabilità degli
amministratori, il contenuto e la natura della transazione di fine mandato,
sottoscritta tra società e amministratore delegato, non precludono la
possibilità di contestare la sussistenza di profili di responsabilità a carico
dell’amministratore per presunti atti di mala gestio compiuti in corso
di rapporto, salvo che la società non vi abbia espressamente rinunciato in sede
di accordo transattivo. In ogni caso, la società che agisce per il risarcimento
dei danni è tenuta a fornire la prova dell’esistenza del danno, del suo
ammontare e della sussistenza di un nesso eziologico con il comportamento
inadempiente o illecito dell’amministratore, non essendo l’antigiuridicità
della condotta di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio
della società.

Tale principio trova applicazione sia
nel caso di transazione novativa, in cui l’accordo si pone come nuova ed unica
fonte di disciplina del rapporto preesistente, sia nel caso di transazione c.d.
“semplice” o “conservativa”, con cui le parti si limitano a regolare il
rapporto preesistente mediante reciproche concessioni, senza costituirne uno
nuovo.

Da ciò consegue altresì che, in caso di
successiva scoperta di inadempimenti non rilevati al momento della transazione,
questi potranno essere fatti valere solo mediante l’impugnazione dell’accordo
transattivo per errore, il quale rileverà in questo caso in quanto inerente al
presupposto della transazione e non, invece, alle reciproche concessioni.

Nel
caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che l’azione di responsabilità esercitata
dalla società nei confronti dell’amministratore delegato, per presunte condotte
di
mala gestio al medesimo
imputabili, non fosse preclusa dall’intervento di una transazione novativa di
fine rapporto tra i suddetti soggetti, in quanto la società non vi aveva
rinunciato espressamente nel patto transattivo. Il Tribunale, tuttavia, rigettava
la domanda in conseguente del mancato soddisfacimento dell’onere probatorio a
carico della società, la quale ometteva di dare prova sia del danno sia del
nesso causale tra questo e la condotta tenuta dall’amministratore. Al contrario,
avendo l’amministratore dichiarato, in sede di transazione, di voler rinunciare
ad ogni altra pretesa nei confronti della società, risultava a lui preclusa la
possibilità di porre in contestazione l’esistenza di un suo credito per
compensi ed indennizzo.   

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Tribunale di Brescia, sentenza del 29 marzo 2022, n. 756 – s.r.l., diritto di recesso, clausola di gradimento, clausola di prelazione impropria, limiti al trasferimento mortis causa

Qualora lo statuto di una s.r.l. contenga una clausola di gradimento non mero – tale da intendersi anche quella che subordina il trasferimento (inter vivos) di partecipazioni al preventivo gradimento dell’acquirente da parte del consiglio di amministrazione e di tutti gli altri soci, prevedendo però un chiaro limite soggettivo – il diritto di recesso non è riconosciuto per il solo fatto dell’esistenza di siffatta clausola, poiché ciò finirebbe per introdurre surrettiziamente una vera e propria facoltà di recesso ad nutum, in difetto di una chiara previsione statutaria in tal senso. Al contrario, alla luce di quanto disposto dall’art. 2469 c.c., in tale ipotesi il diritto di exit è accordato al socio solo in conseguenza del diniego ricevuto al fine di consentirgli di non rimanere prigioniero della società (cfr. Corte d’Appello Venezia n. 2158/2021).

Analoghe considerazioni debbono essere svolte con riguardo alle clausole di prelazione “a prezzo amministrato” che impongono al socio, qualora questi voglia cedere la propria partecipazione, di offrirla preventivamente e a parità di condizioni agli altri soci, cui viene altresì riconosciuto il diritto di sottoporre la determinazione del prezzo da corrispondere all’offerente a un arbitratore, nonché alle clausole di gradimento nei trasferimenti mortis causa, quando le medesime prevedono che – eccezion fatta per il trasferimento al successore o ai successori in linea retta del socio defunto – la partecipazione possa essere ceduta solo a soggetti graditi all’organo amministrativo della società. In entrambi i casi, non vi è diritto di recesso per la mera esistenza di un limite alla circolazione della partecipazione, qualora esso risulti in concreto inidoneo, in forza della sua effettiva applicazione, a determinare la definitiva compressione del diritto al trasferimento della partecipazione.

I princìpi sono stati espressi nell’ambito di un giudizio volto a dirimere una controversia sorta tra un socio di minoranza e una società a responsabilità limitata relativamente alla sussistenza del diritto di recesso dalla società in capo al primo. Nel caso di specie, infatti, la parte attrice aveva esercitato dapprima recesso parziale e poi, senza rinuncia esplicita al primo recesso, recesso per l’intera partecipazione. La società resistente adduceva, inter alia, l’insussistenza del diritto di recesso: i) nel difetto di una clausola statutaria “di mero gradimento”; ii) in ragione della clausola statutaria di prelazione impropria o “a prezzo amministrato”; iii) per la sola presenza di una clausola statutaria limitativa delle ipotesi di trasferimento mortis causa. Il Collegio ha statuito che non spettava alla parte attrice diritto di recesso, non avendo, tra l’altro, la medesima mai manifestato la propria intenzione di alienare a terzi (in tutto o in parte) la propria quota. Sono risultate perciò assorbite le ulteriori questioni relative alla ammissibilità di un recesso parziale, condizionato o esercitato dal solo nudo proprietario.

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Sentenza del 23 marzo 2022 – Presidente relatore: dott. Donato Pianta

In materia di contratto autonomo di garanzia – improntandosi il rapporto tra il garante e il creditore beneficiario a piena autonomia – il garante non può opporre al creditore la nullità di un patto relativo al rapporto fondamentale, salvo che essa dipenda da contrarietà a norme imperative o dall’illiceità della causa e che, attraverso il medesimo contratto autonomo, si intenda assicurare il risultato vietato dall’ordinamento; tuttavia, si deve escludere che la nullità della pattuizione di interessi ultra legali si comunichi sempre al contratto autonomo di garanzia, atteso che detta pattuizione – eccezion fatta per la previsione di interessi usurari – non è contraria all’ordinamento, non vietando quest’ultimo in modo assoluto finanche l’anatocismo, così come si ricava dagli artt. 1283 c.c. e 120 d.lgs. 385/1993 (conf. Cass. n. 20397/2017). Per altro verso, il garante è legittimato a proporre eccezioni fondate sulla nullità anche parziale del contratto base per contrarietà a norme imperative. Ne consegue che può essere sollevata nei confronti della banca l’eccezione di nullità della clausola anatocistica atteso che la soluzione contraria consentirebbe al creditore di ottenere, per il tramite del garante, un risultato che l’ordinamento vieta (conf. Cass. n. 371/2018, Cass. n. 3873/2021).

L’inserimento in un contratto di fideiussione di una clausola di pagamento “a prima richiesta” generalmente è idonea a qualificare il negozio come contratto autonomo di garanzia, in quanto incompatibile con il principio di accessorietà che caratterizza il contratto di fideiussione; tuttavia, allorquando vi sia un’evidente discrasia tra una clausola di tal guisa e l’intero contenuto della convenzione negoziale, ai fini dell’interpretazione della volontà delle parti, pur in presenza della clausola predetta, il giudice è sempre tenuto a valutarla alla luce della lettura dell’intero contratto (conf. Cass. n. 4717/2019). Come noto, il contratto autonomo di garanzia ha la funzione di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante sul debitore principale, che può riguardare anche un fare infungibile, contrariamente al contratto del fideiussore, il quale garantisce l’adempimento della medesima obbligazione principale; inoltre, la causa concreta del contratto autonomo è quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento colpevole oppure no, mentre con la fideiussione, nella quale solamente ricorre l’elemento dell’accessorietà, è tutelato l’interesse all’esatto adempimento della medesima prestazione principale. Ne deriva che, mentre il fideiussore è un “vicario” del debitore, l’obbligazione del garante autonomo si pone in via del tutto autonoma rispetto all’obbligo primario di prestazione, essendo qualitativamente diversa da quella garantita, perché non necessariamente sovrapponibile ad essa e non rivolta all’adempimento del debito principale, bensì ad indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore (conf. Cass. n. 3947/2010).

L’Interest Rate Swap è il contratto derivato che prevede l’impegno reciproco delle parti di pagare l’una all’altra, a date prestabilite, gli interessi prodotti da una stessa somma di denaro, presa quale astratto riferimento e denominato nozionale, per un dato periodo di tempo (conf. Cass. n. 8770/2020). Il mark to market esprime, invece, il valore che, in ciascun momento della sua esistenza, assume il contratto di IRS, inteso quale costo che un terzo estraneo al contratto è disposto a pagare o chiede di ricevere, a seconda dei casi, per subentrare nel contratto ovvero quale costo che una delle due parti è tenuta a pagare all’altra o pretende di ricevere da questa per sciogliere anticipatamente il contratto. Dunque, è un metodo di valutazione delle attività finanziarie che si contrappone a quello storico o di acquisizione attualizzato mediante indici di aggiornamento monetario, che consiste nel conferire a dette attività il valore che esse avrebbero in caso di rinegoziazione del contratto o di scioglimento del rapporto prima della scadenza naturale (conf. Cass. n. 8770/2020). Il modello per effettuare la valutazione concreta di tale istituto è standard, cioè l’unico di uso comune per la valutazione degli strumenti finanziari oggetto di causa (cioè Interest Rate Swap del tipo Plan vanilla), non essendovi, quindi, alcuna necessità di un suo richiamo nel contratto (conf. C. App. Milano n. 2003/2020). 

In materia di contratto di conto corrente bancario, ed in riferimento ai rapporti eseguiti, in tutto o in parte, nel periodo anteriore al primo gennaio 2010 – data di entrata in vigore delle disposizioni di cui all’art. 2-bis del D.L. 185/2008 – al fine di verificare se sia intervenuto il superamento del tasso soglia dell’usura presunta, come determinato in base alle disposizioni della L. 108/1996, occorre effettuare la separata comparazione del tasso effettivo globale (TEG) dell’interesse praticato in concreto con il “tasso soglia”, nonché della commissione di massimo scoperto (CMS) applicata, con la “CMS soglia” (conf. Cass. n. 1464/2019; Cass. n. 16303/2018). Allorché il tasso degli interessi concordato superi, in corso di esecuzione del rapporto, la soglia dell’usura, come determinata in base alle disposizioni della L. 108/1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula (conf. Cass. n. 24675/2017).

L’art. 2-bis, terzo comma, L. 2/2009 prevedeva esplicitamente che i contratti in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto sono adeguati alle disposizioni del presente articolo entro centocinquanta giorni dalla medesima data. Tale obbligo di adeguamento costituisce giustificato motivo agli effetti dell’art. 118, primo comma, T.U.B., con la conseguenza che l’introduzione di una commissione utilizzi oltre disponibilità su fondi in sostituzione di una precedentemente esistente CMS, che avvenisse mediante il meccanismo di modifica unilaterale del contratto di cui all’art. 118 T.U.B., doveva ritenersi perfettamente legittima. 

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello promosso dal fideiussore contro la sentenza di primo grado che rigettava l’opposizione a decreto ingiuntivo con il quale il Tribunale aveva ingiunto ad una s.n.c. e alla garante il pagamento, in via solidale, di una somma a favore di una banca a titolo di saldo debitore e di interessi debitori maturati sul conto corrente. 

In particolare, l’appellante impugnava la sentenza di prime cure, sollevando nove motivi di doglianza per: i) avere il primo giudice ritenuto preclusa alla garante, in quanto parte di un rapporto qualificato alla stregua di un contratto autonomo di garanzia, la facoltà di coltivare eccezioni concernenti l’obbligazione principale; ii) non aver il giudicante accolto la domanda di accertamento circa la nullità per indeterminabilità dell’oggetto contrattuale dei rapporti di IRS; iii) l’illegittima applicazione del tasso di interesse passivo ultra legale determinato senza alcuna pattuizione scritta; iv) accertare la nullità della previsione contrattuale inerente la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi e, conseguentemente, dichiarare non dovute le somme corrisposte a titolo di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi; v) non aver la banca, prima del D.L. 185/2008, reso determinabili né l’ammontare né le modalità con cui veniva computata la commissione di massimo scoperto, mentre a partire dal luglio 2009 avrebbe introdotto la commissione utilizzi oltre disponibilità su fondi, avvalendosi del meccanismo dello ius variandi di cui all’art. 118 T.U.B.; vi) accertare e dichiarare non dovute, per indeterminatezza e indeterminabilità dell’oggetto, ed in ogni caso perché prestazione senza causa, le somme addebitate a titolo di spese di chiusura, di penale di sconfino, di diritti di segreteria e di spese liquidazione interessi debitori; vii) accertare e dichiarare la nullità e l’inefficacia di ogni e qualsivoglia pretesa della convenuta banca, in relazione all’indicato rapporto di apertura di credito, per interessi, spese, commissioni, e competenze per contrarietà al disposto di cui alla L. 108/1996, perché eccedente il cosiddetto tasso soglia nel periodo trimestrale di riferimento; viii) il mancato assolvimento da parte della banca del proprio onere probatorio; ix) revocare il provvedimento monitorio.

Ritenuto che non vi era alcuna effettiva distinzione dell’oggetto tra l’obbligazione del rapporto fondamentale e quella del rapporto di garanzia, né della causa dei due rapporti, che potrebbe giustificare la qualificazione della garanzia contrattualmente assunta come autonoma e rilevato che nella lettera di fideiussione non era compresa alcuna rinuncia generale del fideiussore a proporre eccezioni che spetterebbero al debitore principale, ma soltanto quella ad opporre eccezioni riguardo al momento in cui la banca intenda esercitare la sua facoltà di recedere dai rapporti col debitore, la Corte adita riconduceva la fattispecie alla fideiussione a prima richiesta e non a quella del contratto autonomo di garanzia.

Rilevato che oggetto del contratto erano le reciproche obbligazioni delle due parti di pagare l’una all’altra, a scadenze prestabilite, il differenziale sussistente tra le due somme, calcolate su un medesimo capitale di riferimento, con applicazione di due determinati parametri differenti per le due parti, la circostanza per cui nei contratti derivati contestati non sia evidenziato il criterio per la determinazione del valore del mark to market secondo l’adita Corte non assume rilevanza ai fini dell’accertamento della nullità dei suddetti contratti, posto che tale valore poteva essere pienamente determinabile in via oggettiva nei contratti derivati per cui è causa, come confermato, del resto, dal fatto che il consulente di parte appellante sia stato perfettamente in grado di calcolare tale valore per ciascuno dei contratti derivati presi in esame nella perizia prodotta in giudizio.

Ulteriormente, la Corte non riteneva condivisibile la tesi di parte appellante secondo cui nel computo del T.E.G. andrebbero inserite anche le commissioni di massimo scoperto, essendo pacifico il principio giurisprudenziale secondo cui solamente l’usura c.d. originaria assume rilevanza ai fini della caducazione delle clausole contrattuali che prevedano un tasso di interessi superiore al tasso soglia. 

Quanto alla commissione di massimo scoperto va rilevato, da una parte, che la commissione prevista nel contratto di apertura di conto corrente era nulla per indeterminatezza, non essendo ivi state esplicitate le modalità per il suo calcolo, ma essendo stata prevista meramente la misura percentuale applicabile, mentre, dall’altra, che la commissione di massimo scoperto pattuita successivamente era valida, risultando determinabile sia nella misura che nelle modalità per il suo calcolo. Quanto alla commissione utilizzi oltre disponibilità su fondi veniva dichiarata la nullità, poiché la banca aveva introdotto la suddetta commissione in difformità non solo rispetto al disposto di cui all’art. 118 T.U.B., ma anche rispetto all’art. 2-bis, terzo comma, L. 2/2009.

(Massima a cura di Simona Becchetti)