Tribunale di Brescia, sentenza del 4 aprile 2023 n. 755 – società a responsabilità limitata, organo di controllo, collegio sindacale, compenso dei sindaci, prescrizione presuntiva, prescrizione quinquennale, ripartizione dell’onere della prova

Le prescrizioni presuntive, tra cui quella prevista all’art. 2956 n. 2 c.c., operano esclusivamente nell’ambito dei rapporti contrattuali che si svolgono in assenza di formalità, in cui, ordinariamente, il compenso per la prestazione ricevuta è versato senza dilazione né rilascio di quietanza di pagamento, viceversa, non trovando applicazione con riferimento ai crediti sorti per effetto di un contratto stipulato in forma scritta (tornando ad essere applicabili per l’eventuale parte del credito derivante dall’esecuzione di prestazioni che non hanno fondamento nel documento contrattuale). Ne consegue che, nei rapporti tra società di capitali e sindaci, non trova applicazione la prescrizione presuntiva ex art. 2956 n. 2 c.c., in quanto i compensi per l’esercizio dell’attività di sindaco trovano fondamento in un rapporto a carattere formale (tenuto conto, nel caso di specie, delle deliberazioni assembleari di nomina del sindaco e di successive deliberazioni assembleari aventi ad oggetto il rinnovo della carica).

Con riferimento ai crediti a titolo di compenso per l’esercizio dell’attività di sindaco del collegio sindacale di una società a responsabilità limitata trova applicazione la prescrizione quinquennale ex art. 2949 c.c., trattandosi di credito riconducibile al rapporto societario. Peraltro, ai fini della decorrenza del termine di prescrizione, occorre tenere conto che il compenso del sindaco matura annualmente a conclusione di ciascun esercizio sociale ai sensi dell’art. 2402 c.c.

In tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve provare esclusivamente la fonte (negoziale o legale) del proprio diritto e il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento. Eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. Ne consegue che, con riferimento al credito relativo al compenso maturato dal sindaco di una società a responsabilità limitata, in mancanza di prova da parte della società debitrice dell’avvenuto adempimento, il relativo credito deve ritenersi provato sulla scorta dei verbali di assemblea contenenti la deliberazione di nomina del sindaco effettivo e i successivi rinnovi.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dagli eredi legittimi del sindaco di una società a responsabilità limitata, poi deceduto, per ottenere la condanna della società convenuta al pagamento dei compensi maturati dal sindaco per l’attività svolta nel corso di tre annualità, sino alla data di cessazione dalla carica.

La società si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto della domanda attorea, eccependo (i) l’applicazione della prescrizione presuntiva ex art. 2956 n. 2 c.c. dei crediti per compensi e, in via subordinata, (ii) l’applicazione della prescrizione quinquennale ex art. 2959 c.c. con riferimento al compenso maturato per una delle tre annualità.

Il tribunale, in parziale accoglimento della domanda attorea, ha condannato la società convenuta al pagamento, in favore di parte attrice, dell’importo rideterminato alla luce dell’accoglimento parziale dell’eccezione di prescrizione formulata dalla società convenuta.

(Massime a cura di Alice Rocco)




Tribunale di Brescia, sentenza del 23 marzo 2023 n. 663 – contratto di locazione finanziaria, leasing traslativo, risoluzione per inadempimento, clausola penale

Nei casi di risoluzione per inadempimento dei contratti di locazione finanziaria di tipo traslativo, il comma 138 dell’art. 1 della legge n. 124/2017 riconosce all’utilizzatore il diritto a vedersi corrispondere il ricavato della vendita del bene oggetto di leasing da parte del concedente, dedotte le somme dovute per canoni scaduti e non pagati, del capitale a scadere, del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale e degli ulteriori crediti maturati sino alla vendita.

Il meccanismo previsto dal comma 138 dell’art 1 della legge n. 124/2017  può operare a condizione che l’utilizzatore restituisca il bene e ponga cioè il concedente nelle condizioni di ricollocare il bene sul mercato, poiché evidenti ragioni di logica e di interpretazione secondo buona fede e correttezza del contratto impediscono un’applicazione della normativa che consenta all’utilizzatore di beneficiare dei propri inadempimenti per paralizzare il diritto di credito della concedente e impedire a quest’ultima l’incasso dei canoni scaduti (oltre che di quelli a scadere e delle restanti somme che le spettano).

Devono ritenersi legittime quelle statuizioni pattizie con cui le parti, in applicazione del principio sinallagmatico cui è improntato l’elemento causale del negozio giuridico, risolvono il possibile squilibrio delle prestazioni mediante la previsione che la concedente, una volta ricollocato il bene sul mercato, debba decurtare l’importo così ottenuto dalle somme ancora dovute dall’utilizzatore.

Il giudice che ritenga che le parti abbiano pattuito una clausola penale, prevedendo, per il caso della risoluzione anticipata, il diritto del concedente di trattenere tutte le rate pagate a titolo di corrispettivo del godimento nonostante il mantenimento della proprietà, ha il potere di ridurre detta penale, in modo da contemperare, secondo equità, il vantaggio che essa assicura al contraente adempiente ed il margine di guadagno che il medesimo si riprometteva di trarre dalla regolare esecuzione del contratto, procedendo alla stima del bene secondo il valore di mercato al momento della restituzione (salvo che non sia stato già venduto o altrimenti allocato, considerando, nel qual caso, i valori conseguiti) e poi detrarre tale valore dalle somme dovute dall’utilizzatore al concedente, con diritto del primo all’eventuale residuo (cfr. Cass. n. 10249/2022).

La riduzione della penale contrattuale attinente a un contratto di locazione finanziaria di tipo traslativo non può essere in concreto concessa se al momento dell’introduzione della controversia il bene immobile non è ancora stato rilasciato in favore del concedente e se non vi siano elementi idonei a ritenere che, in ragione del presumibile valore di realizzo del bene immobile da restituirsi, la società di leasing possa ottenere una somma maggiore rispetto a quella che avrebbe conseguito con il corretto adempimento del contratto ovvero se ciò non appare in concreto verosimile.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di opposizione avverso un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo per il pagamento di somme ancora dovute dall’utilizzatrice alla concedente, nell’ambito di un contratto di locazione finanziaria di tipo traslativo.

(Massime a cura di Giada Trioni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 21 marzo 2023, n. 642 – contratto di leasing, usurarietà del tasso di interesse, scostamento tra tasso di leasing e tasso praticato, interessi moratori

In tema di contratti di leasing, l’interesse ad agire per la declaratoria di usurarietà degli interessi moratori sussiste anche nel corso dello svolgimento del rapporto contrattuale e non solo ove i presupposti della mora si siano già verificati, ciò perché l’interesse ad agire in un’azione di mero accertamento non implica necessariamente l’attualità della lesione di un diritto, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva. In particolare, nel corso dello svolgimento del rapporto contrattuale si dovrà avere riguardo al tasso-soglia applicabile al momento dell’accordo, mentre, ove i presupposti della mora, la valutazione di usurarietà riguarderà l’interesse concretamente praticato dopo l’inadempimento.

Pertanto, ove il contratto di leasing immobiliare sia in essere alla data di introduzione del giudizio, l’interesse giuridicamente apprezzabile della società utilizzatrice ad agire per ottenere la – eventuale – declaratoria di nullità (per usurarietà) della pattuizione relativa agli interessi moratori, consiste nell’evitarne l’applicazione nell’ipotesi di un proprio – futuro ed eventuale – inadempimento.

L’eventuale (lieve) difformità tra il tasso di leasing contrattualmente indicato e il tasso di leasing effettivamente applicato potendo dipendere da diverse variabili (ive incluse, il pagamento in via eventualmente anticipata anziché posticipata degli interessi, la rateazione dell’obbligo di restituzione) non significa che vi sia stata applicazione di un tasso di interesse difforme dal tasso annuo nominale, né tantomeno viene in rilievo un fenomeno di anatocismo. Pertanto, dalla dedotta difformità non potrebbe mai derivare la nullità parziale del contratto ai sensi dell’articolo 117 t.u.b. con conseguente applicazione del tasso legale sostitutivo (sia esso quello previsto dall’articolo 117, comma settimo, t.u.b. per il caso di inosservanza dei commi quarto e sesto ovvero quello previsto dall’art. 1284 c.c.), né la necessaria prevalenza del primo tasso (indicato) sul secondo (concretamente applicato), risultando perciò escluso il diritto dell’utilizzatore di ripetere gli importi (in ipotesi) versati in eccedenza. Potrebbe se del caso ravvisarsi (in caso di significativa difformità) responsabilità civile per inadempimento dell’obbligazione di trasparenza, ove l’utilizzatore alleghi e provi, che qualora il tasso di leasing fosse stato correttamente rappresentato non avrebbe stipulato il contratto o lo avrebbe stipulato altrove a più favorevoli condizioni.

La pattuizione di interessi moratori in misura usuraria ha natura autonoma e, pertanto, l’eventuale nullità della stessa non si estenda a quella relativa agli interessi corrispettivi, qualora leciti.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una società, utilizzatrice, nei confronti di società di leasing finalizzato a far accertare l’usuriarietà della pattuizione relativa agli interessi e/o la nullità della relativa pattuizione per indeterminatezza del tasso contrattuale.

Nella vicenda oggetto del giudizio, in particolare, la società aveva stipulato un contratto di leasing avente ad oggetto l’acquisto di un immobile in relazione al quale, secondo la ricostruzione dell’attore, le previsioni contrattuali relative agli interessi risultavano viziate per: (i) applicazione di un “Tasso Leasing applicato” (TAE) superiore al “Tasso Leasing contrattuale” (TAN); (ii) usurarietà del tasso stabilito per gli interessi moratori; e (iii) indeterminatezza del tasso contrattuale.

A tal fine, la società richiedeva, inter alia, l’accertamento: (i) in via principale, della nullità del contratto di leasing, con condanna della società convenuta alla restituzione, in favore della società, di tutte le somme pagate che non siano imputabili al solo capitale finanziato; (ii) in via subordinata, della nullità della pattuizione relativa agli interessi corrispettivi, ex art. 117, comma sesto, t.u.b., quale conseguenza dell’indicazione di un TAN inferiore TAE, con conseguente rideterminazione del piano di ammortamento mediante applicazione del tasso sostitutivo ex art. 117, comma settimo, lett. a), t.u.b.; e (iii) in ulteriore subordine, della nullità per usurarietà della pattuizione relativa agli interessi moratori, con conseguente gratuità del contratto ex art. 1815 c.c. e condanna della società concedente alla restituzione di tutto quanto indebitamente percepito a titolo di interessi.

Il Tribunale ha rigettato le domande proposte dalla parte attrice nei confronti della società di leasing e, per pertanto, ha condannato la società al pagamento delle spese di lite.

(Massime a cura di Giorgio Peli)




Tribunale di Brescia, sentenza del 15 marzo 2023 n. 589 – diritto industriale e della concorrenza, violazione del brevetto d’invenzione, competenza territoriale, cessione d’azienda, prova degli accordi di cessione e di licenza, tolleranza, quantificazione del danno

In tema di competenza territoriale in materia di violazione dei diritti di proprietà industriale, il sesto comma dell’art. 120 c.p.i. attribuisce la competenza territoriale all’autorità giudiziaria dotata di sezione specializzata nella cui circoscrizione i fatti sono stati commessi (c.d. forum commissi delicti). A tal fine, la nozione di “fatto lesivo” comprende ogni ipotesi di violazione dei diritti patrimoniali attribuiti al titolare del diritto di proprietà industriale, ivi compresi gli atti di fabbricazione, uso e vendita del bene prodotto in contraffazione, o che comunque si sostanziano nell’attuazione dell’oggetto della privativa o che sono diretti a trarne profitto. Il luogo di consumazione dell’illecito si specifica, poi, in relazione alle singole fattispecie concrete, sicché nel caso di fabbricazione, vendita o utilizzazione di prodotti contraffatti, deve ritenersi competente il giudice del luogo in cui tali prodotti siano stati rispettivamente fabbricati, venduti o utilizzati.

In caso di cessione d’azienda, ai sensi dell’art. 2559 c.c., il cessionario acquista i crediti relativi all’esercizio dell’azienda, tra cui vanno ricompresi, in mancanza di diversa pattuizione, quelli derivanti da fatti illeciti commessi in danno dell’impresa cedente (cfr., tra le altre, Cass. n. 13692/2012).

Sebbene i contratti di cessione e di licenza di diritti brevettuali non richiedano la forma scritta ad substantiam o ad probationem – con la conseguenza che, secondo gli ordinari principi in materia di onere della prova, chi invoca il trasferimento e/o la legittimità dello sfruttamento dei diritti sull’invenzione altrui è tenuto a dimostrare, anche per presunzioni, il titolo costitutivo del diritto invocato -, nel caso in cui, come nel caso di specie, gli accordi di cessione e di licenza del titolo brevettuale siano stati stipulati per iscritto, trova applicazione la regola probatoria di cui all’art. 2722 c.c., con conseguente impossibilità di provare tramite testimoni o presunzioni l’esistenza di patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i quali si alleghi che la stipulazione è stata contemporanea.

Peraltro, in caso di eventuali accordi successivi a un originario contratto di concessione di diritti di sfruttamento del brevetto, troverebbe comunque applicazione la regola probatoria di cui all’art. 2723 c.c., in base alla quale la prova per testimoni o presuntiva può essere consentita soltanto se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e a ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali.

In caso di licenza di brevetto, sebbene la tolleranza del licenziante allo sfruttamento da parte del licenziatario, di privative diverse da quelle oggetto di licenza, non sia, di per sé, idonea a integrare una modifica dei patti stipulati tra le parti per iscritto (nel senso che non consente di estendere la licenza contrattuale anche ad un altro brevetto), potendo tale condiscendenza essere ispirata da ragioni ulteriori e diverse rispetto alla volontà di modificazione del patto), nondimeno, la manifestata acquiescenza del titolare del brevetto all’utilizzo, noto, di esso da parte dell’utilizzatore esclude la sussistenza dell’illecito, dovendosi ritenere l’attività oggettivamente dannosa posta in essere con il consenso del titolare avente diritto incompatibile con la volontà di farlo valere. Ne consegue che, il temporaneo assenso allo sfruttamento del brevetto, pur dovendosi ritenere inidoneo alla costituzione del vincolo contrattuale, fa venir meno l’antigiuridicità della condotta posta in essere nel periodo di tempo in cui perdurava l’assenso.

In caso di illecito sfruttamento dell’altrui brevetto, il danno patito del titolare della privativa deve essere quantificato ai sensi dell’art. 125 c.p.i., in forza del quale il lucro cessante è determinato in una somma non inferiore ai canoni che l’utilizzatore del brevetto avrebbe dovuto pagare in favore del titolare qualora avesse ottenuto regolare licenza di utilizzo e, nella misura in cui eccedano l’importo dei canoni, nella retroversione degli utili realizzati dall’autore della violazione.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una società che lamentava l’abusivo sfruttamento del brevetto di cui era titolare da parte della società convenuta e chiedeva, previo accertamento di tale contraffazione e/o comunque della violazione delle regole di correttezza professionale ex art. 2598 n. 3 c.c., la conferma dell’inibitoria già disposta in sede cautelare, la pronuncia degli ordini di distruzione dei prodotti in contraffazione, dell’inibizione della reiterazione dell’illecito, dell’ordine di ritiro dal commercio dei prodotti contraffatti e la fissazione di una penale per ogni violazione, oltre che il risarcimento dei danni subiti in misura pari alle mancate royalties da licenza d’uso e comunque agli utili illecitamente ricavati dalla convenuta, di cui chiedeva la retroversione. La società attrice chiedeva, inoltre, la pubblicazione della sentenza.

La convenuta si costituiva in giudizio eccependo, in via pregiudiziale, l’incompetenza territoriale del Tribunale.

Nel merito, la convenuta sosteneva che lo sfruttamento del brevetto oggetto del contenzioso fosse oggetto di accordi commerciali tra le parti, avendo la convenuta stipulato con una società fallita – da cui la società attrice aveva acquistato il brevetto – un accordo in virtù del quale venivano regolamentati i rapporti di cessione, concessione e sfruttamento delle privative riferite ad un altro brevetto e sosteneva che anche il brevetto per cui l’attrice chiedeva la tutela dovesse ritenersi ricompreso nel predetto accordo. In ogni caso, la convenuta sosteneva che il brevetto oggetto di causa avrebbe dovuto considerarsi quale estensione del brevetto concesso in licenza alla convenuta stessa dalla società, poi fallita, da cui l’attrice aveva acquistato il brevetto.

Il Tribunale: (i) ha parzialmente accolto le domande dell’attrice e, nello specifico, ha accertato la violazione da parte della società convenuta del brevetto di titolarità dell’attrice, condannando la convenuta al risarcimento dei danni in un importo comprensivo di interessi compensativi e rivalutazione, oltre interessi legali successivi al deposito della sentenza; (ii) ha inibito alla convenuta la fabbricazione, il commercio e l’uso dei prodotti costituenti violazione del brevetto e fissato una penale per ogni violazione o inosservanza successivamente contestata; (iii) ha ordinato il ritiro definitivo dal commercio dei prodotti in contraffazione nei confronti di chi ne sia proprietario o ne abbia comunque la disponibilità e la distruzione a cura e spese della convenuta di tutte le cose costituenti la violazione. Tenuto conto del significativo lasso di tempo trascorso dal momento delle violazioni, il Tribunale ha rigettato la domanda di pubblicazione della sentenza, essendo venuto meno il concreto interesse dell’attrice o della collettività alla diffusione capillare dell’accertamento in essa contenuto.

(Massime a cura di Alice Rocco)




Tribunale di Brescia, sentenza del 2 marzo 2023, n. 354 –contratto di locazione finanziaria, inadempimento, azioni di risoluzione o riduzione del prezzo, responsabilità del concedente

In un processo in cui le parti contestano reciproci inadempimenti, non è rilevante la dichiarazione – ai sensi dell’art. 1456, comma 2, c.c. – con cui una parte intende avvalersi della clausola risolutiva espressa pattuita, se il comportamento antecedente della stessa costituisce già di per sé inadempimento rilevante idoneo a giustificare l’accoglimento della domanda di risoluzione giudiziale – ai sensi dell’art. 1453 c.c. – presentata dalla controparte.

Come è pacificamente riconosciuto, il contratto di leasing finanziario si caratterizza per l’esistenza di un collegamento negoziale in forza del quale, ferma restando l’individualità propria di ciascun tipo negoziale, l’utilizzatore è legittimato a far valere la pretesa all’adempimento del contratto di fornitura, oltre che al risarcimento del danno eventualmente sofferto. In mancanza di un’espressa previsione normativa, però, l’utilizzatore non può esercitare anche l’azione di risoluzione o di riduzione del prezzo del contratto di vendita tra il fornitore ed il concedente, rispetto al quale esso è estraneo. Tali facoltà sono ammesse solo in presenza di specifica clausola contrattuale, con la quale il concedente trasferisce la propria posizione sostanziale in capo all’utilizzatore (cfr. SS.UU. n. 19785/2015).

Il dovere del concedente di agire per la risoluzione o al riduzione del prezzo non è un obbligo generale del concedente in leasing, che ricorra ni qualsiasi contratto di locazione finanziaria, ma che si configura solo in quei casi in cui, mancando clausole di trasferimento della posizione del concedente e non essendo configurabile una generica legittimazione attiva dell’utilizzatore nei confronti del fornitore (se non per le azioni di adempimento o di risarcimento), l’utilizzatore si trovi privo di tutela.

Solo nell’ipotesi in cui l’utilizzatore sia impossibilitato ad agire autonomamente nei confronti del fornitore (per chiedere la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo), il concedente potrà essere chiamato a rispondere, a titolo di responsabilità contrattuale, per un’eventuale negligenza nell’adempiere al suo dovere di cooperazione e per la violazione del principio di buona fede. Sicché, il contratto di leasing può essere risolto solo in caso di assoluta impossibilità per l’utilizzatore di recuperare alcunché dal fornitore.

Qualora un contratto preveda più prestazioni, la valutazione dell’inadempimento per la risoluzione giudiziale, ai sensi dell’art. 1453 c.c., deve essere effettuata dal giudice con riferimento a ciascuna di esse. (Ad esempio, nell’ipotesi di compravendita di più macchinari, anche se inseriti in un ciclo produttivo, il giudice dovrà tenere conto delle funzionalità, dei vizi e dei difetti di ciascun bene).

I principi sono stati espressi nel corso di un giudizio di appello ove il tribunale ha respinto la domanda di risoluzione di un contratto di locazione finanziaria, rispetto al quale le parti contestavano reciproci inadempimenti.

(Massime a cura di Giada Trioni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 23 febbraio 2023, n. 434 – fideiussione omnibus

L’art. 1304, comma 1, c.c., nel consentire, in deroga al principio secondo cui il contratto produce effetti solo tra le parti, che il condebitore in solido, pur non avendo partecipato alla stipulazione della transazione tra creditore e uno dei debitori solidali, se ne possa avvalere, si riferisce esclusivamente all’atto di transazione che abbia ad oggetto l’intero debito, mentre non include la transazione parziale che, in quanto tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva, riguarda unicamente il debitore che vi aderisce e non può coinvolgere gli altri condebitori, che non hanno alcun titolo per profittarne (cfr. Cass. n. 7094/2022). Pertanto, qualora l’oggetto del negozio transattivo sia limitato alla sola quota del debitore solidale stipulante, l’art. 1304 c.c. non è applicabile e il debito solidale è ridotto dell’importo corrispondente alla quota transatta, con conseguente scioglimento del vincolo solidale fra il debitore stipulante e gli altri condebitori.

In tema di mutuo fondiario, il limite di finanziabilità ex art. 38, comma 2, d.lgs. n. 385/1993 non costituisce elemento essenziale del contenuto del contratto, non essendo tale norma determinativa del contenuto medesimo, né posta a presidio della validità del negozio, ma rappresenta piuttosto un elemento meramente specificativo o integrativo dell’oggetto contrattuale, fissato dall’autorità di vigilanza sul sistema bancario nell’ambito della c.d. vigilanza prudenziale in forza di una norma di natura non imperativa, e, pertanto, la relativa violazione è insuscettibile di determinare la nullità del contratto (cfr. SS.UU. n. 33719/2022).

Le clausole della fideiussione omnibus che riproducono quelle contenute nel modulo ABI, censurato con provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2 maggio 2005, alla ricorrenza di determinati presupposti sono nulle, ex art. 1418, comma 1, c.c., per contrarietà a norme imperative di ordine pubblico economico, posto che, in base al citato provvedimento dell’autorità di vigilanza, le clausole riprodotte, di cui agli artt. 2, 6 e 8 dello schema contrattuale dell’ABI predisposto nel periodo ottobre 2002 – maggio 2005, sono in contrasto con l’art. 2, comma 2, lett. a), l. n. 287/1990.In tal caso si ravvisa la nullità parziale della fideiussione che costituisce l’esito, a valle, di un’intesa anticoncorrenziale, nullità che concerne solo le predette clausole e non, invece, l’intero regolamento negoziale (cfr. SS.UU. n. 41994/2021).

L’erogazione del credito è qualificabile come abusiva qualora sia effettuata, con dolo o colpa, ad un’impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economico – finanziaria ed in assenza di concrete prospettive di superamento della crisi, ed integra un illecito del soggetto finanziatore, per essere venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione, obbligando il medesimo al risarcimento del danno, ove ne discenda un aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell’attività di impresa. Ad ogni modo, l’abusiva concessione del credito non comporta in ogni caso alcuna nullità del rapporto principale (nel caso di specie il mutuo), dando semmai luogo al risarcimento del danno (cfr. Cass. n. 1387/2023; Cass., n. 24725/2021; Cass., n. 18610/2021).

Nella fideiussione per obbligazione futura il garante che chiede la liberazione dalla garanzia invocando l’art. 1956 c.c. ha l’onere di provare che, successivamente alla prestazione della predetta garanzia, il creditore, senza la sua autorizzazione, ha fatto credito al terzo garantito pur essendo consapevole del peggioramento delle sue condizioni economiche in misura tale da suscitare il fondato timore che questi potesse divenire insolvente. Tale circostanza non è ravvisabile, di per sé, nella mera circostanza di un saldo negativo dei conti correnti del garantito (cfr. Cass. n. 34685/2022).

Il fatto del creditore, rilevante ai sensi dell’art.1955 c.c. ai fini della liberazione del fideiussore, non può consistere nella mera  inerzia, ma deve costituire una violazione di un dovere giuridico imposto dalla legge o nascente dal contratto e integrante un fatto quanto meno colposo, o comunque illecito, dal quale sia derivato un pregiudizio giuridico, non solo economico, che deve concretizzarsi nella perdita del diritto di surrogazione ex art. 1949 c.c. o di regresso ex art. 1950 c.c., e non nella mera maggiore difficoltà di attuarlo per le diminuite capacità satisfattive del patrimonio del debitore (cfr. Cass. n. 4175/2020).

La decadenza dalla fideiussione ex art. 1957 c.c. può verificarsi – se il debito principale è ripartito in scadenze periodiche – in relazione a ciascuna scadenza, qualora ogni pagamento sia considerato come debito autonomo, ma se l’obbligazione è unica, e la divisione in rate costituisce solo una modalità per agevolare una delle parti, il debito non può considerarsi scaduto prima della scadenza dell’ultima rata. Pertanto, nel contratto di mutuo, essendo lo stesso un contratto di durata, le diverse rate in cui il dovere di restituzione è ripartito non costituiscono autonome e distinte obbligazioni, bensì l’adempimento frazionato di un’unica obbligazione, di conseguenza il termine dell’art. 1957 c.c., entro il quale il creditore garantito deve proporre le sue istanze contro il debitore, decorre non dalla scadenza delle singole rate, ma dalla scadenza dell’ultima rata (cfr. Cass. n. 2301/2004).

In caso di fallimento del mutuatario garantito, ai fini della individuazione del dies a quo del termine decadenziale ex art. 1957 c.c. rileva l’articolo 55, comma 2, l. fall., ai sensi del quale i debiti pecuniari del fallito si considerano scaduti, agli effetti del concorso, alla data di dichiarazione del fallimento. Ne deriva che l’istituto di credito che abbia depositato tempestivamente la domanda di ammissione al passivo per le somme dovute a titolo di mutuo dal debitore garantito dichiarato fallito, non incorre nella decadenza di cui al citato art. 1957 c.c.

I principi sono stati espressi nell’ambito dell’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dai ricorrenti nei confronti di un istituto di credito finalizzata ad accertare, inter alia, la nullità e/o l’estinzione della fideiussione omnibus concessa dai  primi a favore del secondo a garanzia dei crediti da questo vantati nei confronti della società a responsabilità limitata controllata dagli opponenti e successivamente dichiarata fallita, in forza di un contratto di mutuo fondiario di importo massimo pari ad Euro 38.000.000,00, erogato solo parzialmente, finalizzato all’acquisto di un’area industriale e alla realizzazione di un progetto immobiliare.

A tal fine, i ricorrenti richiedevano, inter alia, l’accertamento della: (i) nullità del contratto di mutuo fondiario per superamento del limite di finanziabilità ex art. 38, comma 2, d.lgs. n. 385/1993; (ii) la nullità della fideiussione per violazione della normativa antitrust; (iii) la nullità della fideiussione per concessione abusiva del credito ravvisata nelle erogazioni parziali del mutuo; (iv) la liberazione dalla fideiussione ex art. 1956 c.c. e estinzione della medesima ex art. 1955 c.c.; e (v) della decadenza dell’obbligazione fideiussoria ex art. 1957 c.c.

Nelle more del giudizio uno degli opponenti aveva concluso con la banca opposta una transazione, la cui efficacia liberatoria era stata invocata dagli altri, e il credito litigioso era stato ceduto ad una società, intervenuta in giudizio, che a seguito dell’omologazione del concordato fallimentare della società mutuataria aveva percepito un pagamento parziale del credito residuo.

Il Tribunale, dichiarata la nullità parziale della fideiussione per violazione della normativa antitrust limitatamente alle clausole di sopravvivenza, reviviscenza e deroga all’art. 1957 c.c., in accoglimento parziale dell’opposizione proposta ha revocato il decreto ingiuntivo opposto e ha condannato i ricorrenti (ad esclusione del fideiussore che aveva stipulato con la banca un accordo transattivo) al pagamento, in solido tra loro, dell’importo rideterminato in base alle risultanze dell’istruttoria espletata  oltre interessi, in favore della parte opposta con effetti, ex art. 111, comma 3, c.p.c., nei confronti della società cessionaria del credito, intervenuta in giudizio.

(Massime a cura di Giorgio Peli)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 9 febbraio 2023, n. 240 – piano di ammortamento alla francese, determinatezza o determinabilità degli interessi, TAEG/ISC, interessi usurari

In relazione al piano d’ammortamento a rata costante, c.d. alla francese, la quota interessi essendo sempre calcolata sul capitale da restituire non genera alcun anatocismo. Tal sorta di ammortamento, così come tutte le forme di rimborso che prevedano il pagamento annuo degli interessi sul debito ancora esistente, configura una situazione equivalente a quella conseguente all’utilizzo dell’interesse composto, la cui formula viene impiegata per il solo calcolo dell’importo della rata costante. Ciò, tuttavia, non toglie che, una volta fissato l’importo della rata, gli interessi in essa ricompresi siano calcolati sempre e solo sul capitale residuo e non su interessi già maturati, escludendosi così ogni forma di anatocismo.

In merito alla determinatezza o determinabilità dell’oggetto dell’obbligazione accessoria relativa agli interessi, è indispensabile che gli elementi estrinseci o i parametri della determinazione degli interessi – ad un tasso diverso da quello legale – siano specifici. Pertanto, si ha indeterminatezza quando le clausole richiedono la necessità di una scelta applicativa tra più alternative possibili, ciascuna delle quali comportante l’applicazione di tassi di interessi diversi e, dunque, non determinate o determinabili nel loro oggetto come richiesto dagli artt. 1418 e 1346 c.c.; mentre la determinabilità è definibile come la possibilità di identificare chiaramente l’oggetto sulla base dagli elementi prestabiliti dalle parti.

Laddove il piano di ammortamento dia attuazione a criteri di calcolo difformi da quelli previsti in contratto o non risulti chiaro quali siano i criteri di calcolo e le varie componenti di determinazione della rata ovvero ancora nell’ipotesi di difformità tra entità del capitale finanziato e rata di ammortamento, ciò non comporta che il tasso risulti indeterminato, in quanto la determinatezza o meno va valutata ex ante e in riferimento alla clausola contrattuale. Pertanto, l’eventuale discrasia sulla modalità di calcolo della rata comporta una rimodulazione del piano di rimborso mediante la corretta determinazione della rata e dell’interesse.

In materia di TAEG/ISC, in quanto espressione in termini percentuali del costo complessivo del finanziamento, deve escludersi che esso costituisca una condizione economica direttamente applicabile al contratto e possa considerarsi un tasso, o prezzo, o condizione la cui erronea indicazione sia sanzionata dall’art. 117 t.u.b. Pertanto l’ISC/TAEG non ha alcuna funzione essenziale e non incide sul piano della validità del contratto (cfr. Cass. n. 24690/2020) né sul contenuto della prestazione a carico del cliente.

In materia antiusura, l’art. 1815, comma secondo, c.c. pur sanzionando la pattuizione degli interessi usurari, preserva anche il prezzo del denaro, facendo seguire la sanzione della non debenza di qualsiasi interesse limitatamente al tipo di interesse che quella soglia abbia superato. Infatti, laddove l’interesse corrispettivo sia lecito, e solo il calcolo degli interessi moratori applicati comporti il superamento della predetta soglia usuraria, ne deriva che solo questi ultimi sono illeciti e preclusi; ma resta l’applicazione dell’art. 1224 c.c., in quanto la nullità della clausola sugli interessi moratori non porta con sé anche quella degli interessi corrispettivi (cfr. Cass. n. 19597/2020).

Anche in caso di regolare svolgimento del rapporto, è riconosciuto al mutuatario – per una esigenza di certezza del diritto – un interesse ad agire per l’accertamento della nullità o inefficacia di una clausola, non essendo richiesta una lesione in atto del diritto stesso ed essendo sufficiente uno stato di incertezza; l’accertamento, tuttavia, non è automaticamente idoneo a valere in vista della futura applicazione di un interesse moratorio concreto, ma solo ad escludere che l’interesse sia dovuto.

Princìpi espressi, in grado di appello, nel giudizio promosso da una s.a.s. nei confronti di un ente di credito deducendo, con riferimento ad un mutuo con tasso variabile e un piano di ammortamento alla francese, l’indeterminatezza/indeterminabilità delle clausole relative agli interessi, l’usurarietà degli interessi ed oneri convenuti nonché l’applicazione di interessi anatocistici.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 6 febbraio 2023 – s.r.l., clausola compromissoria, azione di sospensione dell’esecuzione della delibera assembleare di approvazione del bilancio ex art. 2378 comma terzo c.c.

Tra i «diritti disponibili relativi al rapporto sociale» ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, suscettibili di tutela arbitrale laddove sia presente in statuto una valida clausola compromissoria, è compreso il diritto di impugnazione (ed eventualmente anche di sospensione dell’esecuzione) della delibera di approvazione del bilancio il cui iter di formazione sia viziato da un’asserita illegittima esclusione di un socio dal quorum costitutivo e deliberativo. Si tratta infatti di vizi attenenti al rapporto tra singolo socio e società, pertanto «disponibili» ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. 17 gennaio 2003. Diversamente, i vizi attinenti al contenuto informativo del bilancio, legati cioè a una violazione dei requisiti di verità, chiarezza e precisione, trascendono l’interesse del singolo e coinvolgono diritti indisponibili ai sensi della norma summenzionata, poiché le norme imperative poste a presidio dei  detti requisiti sono dettate, oltre che a tutela dell’interesse di ciascun socio ad essere informato dell’andamento della gestione societaria, altresì a garanzia dell’affidamento di tutti i soggetti che con la società entrino in rapporto (cfr. Cass. n. 20674/2016; Cass. n. 13031/2014).

Il quinto comma dell’art. 35 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari e agli arbitri compete sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della delibera. Tale ultimo potere ha natura eccezionale in quanto costituisce una rilevante deroga alla regola generale di cui al combinato disposto degli artt. 818 c. p.c. e 669-quinquies c. p.c., per cui la domanda cautelare si propone al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito.

Principi espressi nel contesto di un rigetto di un reclamo cautelare promosso dal reclamante avverso un’ordinanza in cui il giudice istruttore aveva dichiarato l’incompetenza del Tribunale – per la presenza in statuto di una valida clausola compromissoria – a pronunciarsi sul ricorso avente come petitum la sospensione dell’efficacia di una delibera di approvazione del bilancio. Il giudice di seconde cure conferma l’incompetenza del Tribunale adito e, inoltre, ravvisa in ogni caso la carenza del periculum in mora, a seguito della valutazione comparativa degli interessi del socio e della società richiesta dall’art. 2378, comma quarto, c.c.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 2 febbraio 2023, n. 223 – responsabilità dell’intermediario per l’esecuzione di operazioni di investimento, forma degli ordini di investimento, inadeguatezza delle operazioni di investimento, obblighi informativi, art. 29 Reg. Consob n. 11522/1998

Le violazioni dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni da parte dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario, che riguardino le operazioni di investimento o disinvestimento poste in essere in esecuzione del contratto quadro, possono dar luogo a responsabilità contrattuale e, eventualmente, condurre alla risoluzione del contratto. In assenza di un’esplicita previsione di legge, si esclude, tuttavia, che tali violazioni possano determinare la nullità, ai sensi dell’art. 1418 c.c., del contratto quadro o dei singoli atti negoziali posti in essere in esecuzione di questo (cfr. Cass. SS.UU n. 26724/2007). In particolare, ha natura contrattuale la responsabilità dell’intermediario che ometta di informarsi sulla propensione al rischio del cliente o di rappresentare a quest’ultimo i rischi dell’investimento ovvero ancora che compia operazioni inadeguate quando dovrebbe astenersene, posto che tali condotte integrano un non corretto adempimento di obblighi legali facenti parte integrante del contratto quadro intercorrente tra le parti (cfr. Cass. n. 12262/2015).

In tema di intermediazione finanziaria, la forma scritta è prevista dalla legge per il contratto quadro e non anche per i singoli ordini, a meno che non siano state le parti stesse a prevederla per la validità di questi ai sensi dell’art. 1352 c.c. (cfr. Cass. n. 16053/2017). Ove il contratto quadro preveda, ai sensi dell’art. 1352 c.c., la possibilità di dare all’intermediario ordini orali secondo quanto disposto dal Reg. Consob n. 11522/1998, la registrazione su nastro magnetico dell’ordine non costituisce un requisito di forma, sia pure ad probationem, degli ordini suddetti, ma un mero strumento atto a facilitare la prova, altrimenti più difficile, dell’avvenuta richiesta di negoziazione dei valori (così, Cass. n. 3087/2018; in senso sostanzialmente conforme alla precedente Cass. n. 612/2016). Sicché, qualora le parti abbiano convenuto che la forma scritta sia la forma abituale, ma non esclusiva, di esecuzione del contratto quadro, sono parimenti validi gli ordini impartiti all’intermediario in forma orale.

In materia di responsabilità della banca per l’esecuzione di operazioni di investimento, notorie ragioni di elementare prudenza impongono di ritenere non adeguate le operazioni che comportino l’impiego – soprattutto da parte dell’investitore non professionale – di una parte eccessiva delle proprie risorse nel solo settore azionario, la cui aleatorietà può incidere sensibilmente sul valore dei relativi prodotti finanziari, anche in assenza di imprevedibili eventi patologici a carico delle società emittenti. Pertanto, operazioni di acquisto che, seppur singolarmente non caratterizzate da importi particolarmente elevati, debbano ritenersi non adeguate sono soggette a risoluzione in caso di inadempimento da parte della banca degli obblighi di cui all’art. 29 del Reg. Consob n. 11522/1998.

I princìpi sono stati espressi nel corso di un giudizio teso a ottenere: (i) la declaratoria di nullità degli ordini di investimento impartiti oralmente da un investitore non professionale in attuazione di due contratti quadro redatti in forma scritta, conformemente a quanto previsto dalla normativa; nonché, in subordine, (ii) la risoluzione dei medesimi ordini, accertando la responsabilità della banca per l’inosservanza degli obblighi informativi previsti dall’art. 29 del Regolamento n. 11522/1998 della Consob, concernente la disciplina degli intermediari, nella formulazione pro tempore vigente. Più precisamente, le azioni erano dirette a conseguire la «restituzione e/o ripetizione» delle ingenti perdite subite (superiori al 75% del capitale investito) ovvero la risoluzione delle negoziazioni sopra richiamate per grave inadempimento della banca, con condanna al pagamento del medesimo importo a titolo di risarcimento dei danni.

La prima domanda è stata rigettata. Parte attrice, invero, non contestava di aver impartito gli ordini, ma la validità dei medesimi per difetto di forma scritta, ritenuta in chiave difensiva ad substantiam. Nel corso del giudizio è stato, invece, accertato che il contratto esprimeva una mera preferenza per tale forma, senza escludere che gli ordini potessero essere impartiti anche oralmente. 

La seconda domanda è stata parzialmente accolta. I contratti quadro davano atto della presa visione e dell’avvenuta consegna al cliente del documento informativo sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari. Tuttavia, il Tribunale ha ritenuto la banca parzialmente responsabile per la violazione degli obblighi di cui all’art. 29 del Reg. Consob n. 11522/1998 nel difetto di prova del loro assolvimento in relazione all’investimento in capitale di rischio (azioni) di una porzione ingente del proprio patrimonio da parte di un investitore privo di specifiche qualifiche e competenze nel settore finanziario. In ragione dell’elevata componente aleatoria degli investimenti in capitale di rischio, idonea a procurare ingenti perdite pur in assenza di imprevedibili eventi patologici a carico delle società emittenti, il Tribunale ha infatti ritenuto non adeguate – e ne ha, pertanto, pronunciato la risoluzione – le operazioni in esame nella misura in cui avevano impiegato somme eccedenti il 25% delle risorse finanziarie del cliente.

(Massime a cura di Giada Trioni)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 2 febbraio 2023 – s.n.c., sequestro giudiziario della quota, rigetto