Decreto del 5 novembre 2015 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Gianluigi Canali

Nel caso di affitto (del ramo) di azienda, trattandosi di ipotesi non contemplata dall’art. 76, 10° co., d.p.r. n. 207/2010, è esclusa la necessità, ai fini della c.d. attestazione S.O.A., di presentare perizia giurata redatta da un soggetto nominato dal tribunale competente per territorio, di talché, nella suddetta ipotesi, non può trovare accoglimento il ricorso promosso ai fini della nomina del soggetto medesimo.

Il principio è stato espresso in ipotesi di ricorso promosso da una s.r.l. ai fini della nomina del perito di cui all’art. 76, 10° co., d.p.r. n. 207/2010, in ipotesi di affitto (del ramo) di azienda.

Sul punto il Tribunale, esclusa la necessità di nomina dell’esperto in ipotesi di affitto (del ramo) di azienda, ha rigettato il ricorso.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 28 ottobre 2015 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Gianluigi Canali

In tema di ammissione al passivo fallimentare, deve ritenersi escluso il privilegio di cui all’art. 2751-bis, n. 2, c.c. per i crediti aventi natura indennitaria, in quanto tale privilegio non compete ad ogni emolumento dovuto in forza di contratto di prestazione d’opera, ma soltanto ai corrispettivi che, per essere riconducibili ad una effettiva attività svolta dal prestatore d’opera, assumano i caratteri del compenso retributivo.

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione ex art. 98 l. fall. promosso dal prestatore d’opera avverso il decreto di esecutività dello stato passivo che aveva disposto l’ammissione del credito avente titolo nell’indennità conseguente al recesso anticipato del committente integralmente al chirografo.

L’opponente, in particolare, chiedeva l’ammissione del credito al privilegio per compensi professionali ex art. 2751-bis, n. 2, c.c. 

Sul punto il Tribunale, accertata la natura indennitaria del credito (trattandosi, in ipotesi, di indennità conseguente al recesso anticipato del committente, contrattualmente prevista), ha rigettato l’opposizione, confermando l’ammissione del credito in via chirografaria.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 23 ottobre 2015 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott.ssa Vincenza Agnese

Nelle società per azioni, ai sensi dell’art. 2367 c.c., i soci hanno il diritto di ricorrere al tribunale per ottenere la convocazione dell’assemblea soltanto qualora le ragioni addotte dagli organi sociali appaiano ingiustificate. È evidente, pertanto, che non sussiste (più) un diritto incondizionato dei soci alla convocazione dell’assemblea, essendo consentito un apprezzamento ad opera degli amministratori e dei sindaci e, quindi, un vaglio sulla correttezza dell’iniziativa della minoranza.

Così, esemplarmente, l’assenza di adeguata motivazione, che può anche desumersi dalla non perseguibilità dello scopo, nonché una valutazione di potenziale lesività della richiesta formulata dai soci di minoranza giustificano il rifiuto degli amministratori.

In ipotesi, come nel caso concreto, in cui la richiesta di aumento di capitale (formulata dai soci di minoranza) si inserisca in un contesto di indebitamento e non sia finalizzata alla copertura delle perdite risulta necessario – ancorché l’aumento di capitale non rientri necessariamente tra quelle materie che ex lege richiedono un progetto o una relazione degli amministratori – che gli amministratori predispongano una relazione quantomeno “giustificativa” dell’operazione.

Principi espressi in ipotesi di rigetto di ricorso promosso dal socio di minoranza di una s.p.a., in stato di indebitamento, per ottenere la convocazione giudiziale dell’assemblea, ex art. 2367 c.c., ai fini della deliberazione di un aumento di capitale “di scopo”, diverso dalla copertura delle perdite, genericamente determinato (nel «rapportarsi con le autorità locali»), verosimilmente non perseguibile (in ragione dello stato di indebitamento), nonché potenzialmente lesivo per la società (per l’esistenza di un accordo tra la medesima e le banche creditrici in base al quale le modificazioni statutarie non preventivamente autorizzate comportano l’accelerazione da parte degli istituti di credito della riscossione dei propri crediti).

D. 23.10.2015

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 7 ottobre 2015 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

Ai fini dell’accoglimento del ricorso per il sequestro conservativo, ex art. 671 c.p.c., proposto a cautela della domanda risarcitoria di merito di cui all’art. 2395 c.c., deve ritenersi sussistente il fumus boni iuris laddove il socio ricorrente fornisca, anche mediante perizia di parte, l’evidenza che l’amministratore abbia perfezionato e progettato operazioni gestorie con l’intento di dissimulare ai terzi il reale stato di crisi della società, rappresentando in bilancio una situazione economico-patrimoniale della medesima non veritiera.

Nel qual caso, tenendo conto delle predette operazioni, può ulteriormente ritenersi sussistente il requisito del periculum in mora.

In ossequio al principio di generale prudenza, ricavabile dal combinato disposto degli artt. 2423 bis e 2426, primo comma, n. 8, c.c., i crediti devono essere iscritti in bilancio secondo il valore presumibile di realizzo e detta valutazione deve tenere conto, tra l’altro, del grado di solvibilità del debitore.

Principi espressi in ipotesi di accoglimento di reclamo avverso l’ordinanza di rigetto della domanda cautelare di sequestro conservativo ai danni dell’amministratore di s.p.a., a fronte dell’accertamento di responsabilità personale exart. 2395 c.c., che ha indotto altra s.p.a. all’acquisto di una partecipazione pari al 10% del capitale sulla base di un bilancio non veritiero e verosimilmente priva di valore.

Ord. 7.10.2015

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 13 luglio 2015 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Gianluigi Canali

Il procedimento di determinazione giudiziale del valore della quota disciplinato all’art. 2473, co. 3, c.c. può trovare applicazione solo quando, pacifiche fra le parti la validità ed efficacia del recesso, risulti controverso, unicamente, il valore della partecipazione da rimborsare al socio receduto.

Il principio è stato espresso in ipotesi di ricorso ex art. 2473, co. 3, c.c. per la determinazione giudiziale del valore di liquidazione della quota promosso dal socio receduto ai sensi dell’art. 2473, co. 2, c.c., ritenuto che la durata della società, palesemente eccedente l’aspettativa di vita dei soci, giustificasse l’esercizio del recesso espressamente contemplato dalla norma citata per il caso di società contratta a tempo indeterminato. Nel giudizio, in particolare, si costituiva la società resistente contestando la legittimità del recesso esercitato dal socio.

Il Tribunale, accertata la natura controversa del recesso esercitato dal socio, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza dell’11 giugno 2015 – Giudice designato: dott. Gianluigi Canali

Ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria fallimentare, il curatore è, tra l’altro, tenuto a provare che l’estinzione del debito pecuniario (scaduto ed esigibile) sia avvenuta con mezzo non normale, sicché in ipotesi in cui, come nel caso di specie, il pagamento sia avvenuto mediante datio in solutum, trattandosi pacificamente di mezzo non normale di adempimento rilevante ai sensi dell’art. 67, comma primo, l. fall., tale requisito deve ritenersi provato.

La consecutiotra procedure di cui all’art. 69-bis l. fall. si giustifica in quanto, di regola, il fallimento costituisce sviluppo della condizione di dissesto che ha dato causa alla precedente procedura concordataria (conf. Cass. n. 6031/2014); nondimeno, il fatto che tra le procedure sussista uno iato temporale non rileva di per sé, anche alla luce della riforma della legge fallimentare, che ha eliminato l’automatismo tra inammissibilità della proposta di concordato e fallimento. Ciò che rileva è, dunque, la continuità causale tra concordato e fallimento, che può ritenersi sussistente laddove, come nella fattispecie in esame, quest’ultimo sia stato dichiarato in base all’accertamento dell’evoluzione negativa dello stato di insolvenza che aveva condotto al deposito del ricorso inerente la prima procedura. Grava comunque su chi contesta la soluzione di continuità l’onere di provare che il debitore era uscito, medio tempore, dallo stato di illiquidità che aveva fondato la domanda di concordato.

Il soggetto convenuto in revocatoria non può limitarsi ad una prova meramente negativa, equivalente alla mancanza della prova positiva della conoscenza, dovendo invece dimostrare la sussistenza, al momento dell’atto revocando, di circostanze tali da far ritenere, ad una persona di ordinaria prudenza ed avvedutezza, che l’imprenditore si trovasse in una situazione di normale esercizio dell’impresa (conf. Cass. n. 10432/2005).

I principi sono stati espressi nel giudizio ex art. 702-bis c.p.c. promosso dalla curatela fallimentare di una s.r.l. ai fini della revoca ex art. 67, comma primo, n. 2, l. fall. dell’atto di cessione con cui la società (cedente), poi fallita, aveva trasferito beni immobiliari di sua proprietà ad altre società (cessionarie) a titolo di dazione in pagamento della somma risultante dalla rinuncia parziale al maggior credito vantato dalle cessionarie medesime nei confronti della fallita.

Sul punto il Tribunale, accertata la sussistenza dei presupposti necessari ai fini dell’azione revocatoria ex art. 67, co. 1, n. 2, l. fall., accertato il mancato assolvimento, da parte delle convenute, dell’onere di provare la mancata conoscenza dello stato di insolvenza al momento della cessione revocanda, ha accolto il ricorso dichiarando l’inefficacia dell’atto di cessione nei confronti del fallimento.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 5 giugno 2015 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

La responsabilità risarcitoria degli amministratori verso la società, di cui all’art. 2476 c.c., sorge in capo all’amministratore unico di s.r.l. che abbia omesso di svolgere controlli su operazioni gestorie adducendo quale giustificazione il suo ruolo di mero “prestanome” e, dunque, lo svolgimento dei poteri gestori da parte di altro soggetto quale amministratore di fatto. Tale allegazione fonda, di per sé sola, un giudizio di rimprovero già a titolo di colpa, sufficiente per l’attribuzione di una responsabilità per mala gestio.

Principio applicato in ipotesi di rigetto del reclamo promosso avverso l’ordinanza che, in accoglimento del ricorso cautelare proposto dal curatore fallimentare di s.r.l. nei confronti dell’amministratore unico, aveva autorizzato il sequestro conservativo ai danni di quest’ultimo, dichiaratosi mero “prestanome”, a fronte di responsabilità risarcitoria per negligenza che ha comportato distrazione di denaro della società medesima in conseguenza di comportamenti di altro soggetto quale amministratore di fatto.

Ord. 5.6.2015

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto dell’11 maggio 2015 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Gianluigi Canali

In tema di società a responsabilità limitata, a seguito della riforma del diritto societario sostanziale attuata con il d.lgs. n. 6/2003, l’applicazione del procedimento ex art. 2409 c.c. deve ritenersi esclusa sulla base degli argomenti: (i) del legislatore storico, deponendo in tal senso il tenore della relazione ministeriale che ha accompagnato la riforma, che, nella parte in cui illustra la nuova disciplina dettata dall’art. 2476 c.c., definisce come «sostanzialmente superflua ed in buona parte contraddittoria» la previsione di forme di intervento del giudice; (ii) autoritativo, in considerazione del precedente rappresentato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 481/2005, che ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale del nuovo sistema (che esclude le s.r.l. dall’ambito di applicazione dell’art. 2409 c.c.); (iii) sistematico, tenuto conto della netta distinzione tra la disciplina dettata per le società per azioni e quella dettata per le società a responsabilità limitata.

I principi sono stati espressi in ipotesi di ricorso ex art. 2409 c.c. promosso dai sindaci di una s.r.l., i quali avevano denunciato al tribunale gravi irregolarità nella gestione della società medesima. Il Tribunale, esclusa l’applicazione dell’art. 2409 c.c. alle s.r.l., ha dichiarato il ricorso inammissibile.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 29 aprile 2015 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Gianluigi Canali

Dev’essere rigettata l’istanza di fallimento promossa nei confronti di società semplice, la quale svolga, tra le altre, attività dirette alla commercializzazione di prodotti (nel caso di specie, carni) ottenuti da animali dalla stessa allevati.

Il principio è stato espresso in ipotesi di istanza di fallimento promossa da una s.r.l. (creditrice) nei confronti di società semplice (debitrice), avente quale oggetto esclusivo l’esercizio di attività agricola e non commerciale, la quale, tra le altre, svolgeva altresì attività di commercializzazione di prodotti ottenuti da animali dalla stessa allevati.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 10 aprile 2015, n. 1083 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

Nel caso in cui una clausola statuaria di s.p.a. preveda la devoluzione ad arbitri delle controversie tra soci ovvero tra i soci e la società, nelle controversie medesime si ricomprende l’impugnativa di deliberazioni consigliari da parte dei soci o degli amministratori dissenzienti, anche ove non espressamente menzionata nella clausola, trattandosi di tipica ipotesi di controversia tra la società e il socio o l’amministratore.

Tale interpretazione risulta in linea con il canone ermeneutico di cui all’art. 808 quater c.p.c., secondo cui nel dubbio la convenzione di arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui si riferisce la convenzione.

(La giurisprudenza di legittimità ha inoltre espressamente riconosciuto la possibilità di deferire ad arbitri anche l’impugnativa di delibere del consiglio di amministrazione di cui all’art. 2388 c.c. Cfr. Cass. n. 28/2013).

La clausola compromissoria contenuta nello statuto di s.p.a. è vincolante nei confronti dell’amministratore che abbia accettato la carica di componente del consiglio di amministrazione, non essendo necessaria, a tal fine, espressa adesione negoziale. Ciò in base a quanto espressamente stabilito all’art. 34, quarto comma, del d.lgs. n. 05/2003, secondo cui «gli atti costitutivi possono prevedere che la clausola abbia ad oggetto controversie promosse da amministratori […] ovvero nei loro confronti e in tale caso essa, a seguito dell’accettazione dell’incarico, è vincolante per costoro».

L’indisponibilità dei diritti quale limite alla deferibilità della controversia in arbitrato societario deve essere circoscritta ai soli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determini una reazione dell’ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte.

(Conforme a Cass. nn. 18600/2011; 16265/2013; 15890/2012; 30519/2011).

Principi espressi in ipotesi di impugnazione di delibera consigliare di s.p.a., che ha deciso l’adesione ad una gestione accentrata dei flussi di tesoreria del gruppo di cui fa parte la società, ex artt. 2388 e 2391 c.c., in presenza di clausola compromissoria nello statuto.

Sent. 10.4.2015, n. 1083

(Massima a cura di Marika Lombardi)