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Tribunale di Brescia, sentenza del 18 luglio 2023, n. 1843 – uso non autorizzato del marchio, contratto di licenza d’uso

L’art. 1591 c.c., non rappresenta un principio generale, almeno riferibile ai beni immateriali, poiché manca una pluralità di norme dalle quali potrebbe emergere l’esistenza di una norma generale che le accomuna. Inoltre, tale norma non può trovare applicazione analogica al contratto di licenza d’uso di un marchio per due ragioni principali. In primo luogo, nel contratto di licenza d’uso, che riguarda lo sfruttamento di diritti economici su beni immateriali, manca la ratio del contratto di locazione o affitto, che richiede la restituzione della cosa materiale come presupposto per concedere il diritto di sfruttamento, ben potendo coesistere l’utilizzo del medesimo bene immateriale contemporaneamente in capo a più soggetti. In secondo luogo, l’applicabilità analogica dell’art. 1591 c.c. è ammissibile solo quando la fattispecie non è disciplinata da una norma specificamente prevista, purché non sussista incompatibilità con la normativa speciale. (cfr. Cass. n. 2306/200). Nel caso del contratto di licenza d’uso, l’ordinamento fornisce una tutela speciale contro l’utilizzo non autorizzato del marchio. 

In particolare, nel contratto di licenza d’uso, avente ad oggetto lo sfruttamento di diritti economici su beni immateriali, al fine di impedire che l’utilizzo della privativa industriale si protragga, in modo non autorizzato, oltre i termini in cui lo sfruttamento è consentito, è prevista la possibilità per l’avente diritto di promuovere l’azione inibitoria ovvero l’azione risarcitoria ex art. 125 c.p.i. 

Principi espressi nell’ambito del giudizio promosso dal fallimento di una società a responsabilità limitata, che ha convenuto in giudizio una società per azioni lamentando l’inadempimento negoziale del contratto di licenza d’uso e l’utilizzo indebito di segni identici o simili a quello oggetto di privativa. In particolare, a fondamento della propria domanda, l’attrice deduceva di essere divenuta titolare del marchio a seguito della modifica dell’accordo di licenza d’uso, riconoscendo alla società convenuta l’esclusiva nello sfruttamento del marchio per una durata di dieci anni, verso pagamento di royalties.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 18 luglio 2023, n. 1841 – contatto di appalto pubblico, raggruppamento temporaneo di imprese, inadempimento adempimento contrattuale, restituzione dell’anticipazione contrattuale prevista dall’art. 35 comma 18 del D.lgs. 50/2016 nell’ipotesi dell’impossibilità di eseguire i lavori, compensazione

In presenza di un mandato collettivo con rappresentanza da parte di un raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) per la realizzazione di un appalto, l’appaltante è liberata dagli obblighi di pagamento verso le singole società partecipanti al RTI qualora abbia versato quanto dovuto alla mandataria-rappresentante. A tal fine, non rilevano i rapporti interni ed eventuali inadempienze tra i partecipanti al RTI. 

L’anticipazione contrattuale prevista dall’art. 35, comma 18, del decreto legislativo n. 50/2016, ha l’esclusiva natura e funzione di finanziare l’esecuzione dei lavori oggetto dell’appalto, con la conseguenza che se viene meno la possibilità di eseguire i lavori, come nel caso del sopravvenuto fallimento della società appaltatrice, l’impresa estromessa dall’esecuzione dell’appalto non ha alcun diritto di trattenere detta anticipazione ed è consentito all’appaltante, al fine di recuperare l’importo erogato, operare la compensazione tra tale suo credito e il debito per i lavori fino a quel momento svolti.

Le spese di giudizio sostenute dal terzo chiamato in garanzia, una volta che sia stata rigettata la domanda principale, vanno poste a carico della parte che, rimasta soccombente, abbia provocato e giustificato la chiamata in causa, trovando tale statuizione adeguata giustificazione nel principio di causalità, che governa la regolamentazione delle spese di lite, anche se l’attore soccombente non abbia formulato alcuna domanda nei confronti del terzo, salvo che l’iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria (cfr. Cass. n. 10364/2023).

Princìpi espressi agli esiti di un giudizio in cui è stata respinta la domanda avanzata dal fallimento di una società, facente parte quand’era in bonis (quale mandante) di un raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) che si era aggiudicato un appalto, con cui si chiedeva di condannare la committente a pagare direttamente al fallimento le somme risultanti dallo stato di avanzamento dei lavori, contestando la compensazione operata dalla committente tra tale debito e il credito relativo alla restituzione dell’anticipazione contrattuale disposta a favore del RTI e versata alla mandataria.

(Massime a cura di Giada Trioni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 14 luglio 2023, n. 1825 – titolarità del marchio d’impresa, trasferimento del marchio, “preuso” del marchio

Solo colui che si vanta avente diritto alla registrazione può contestare la titolarità del marchio in capo a colui che lo ha originariamente registrato. Analogamente, la registrazione del trasferimento del marchio può essere contestata solo da colui che prova di esserne titolare.

Il fatto che determinati negozi giuridici siano conclusi al fine di eludere le ragioni dei creditori, non costituisce una causa di nullità dei contratti stessi ma, al più, motivo di revocatoria.

La scadenza di uno (solo) dei (molteplici) marchi che declinano, o ricomprendono, un determinato nome non determina la dismissione di tutti i marchi connessi a quel nome, ad opera del soggetto titolare di altri marchi che declinano lo stesso termine.

Non costituisce “preuso” di un marchio, ossia l’utilizzo di un marchio non registrato prima della sua registrazione ad opera di terzi, il suo impiego non per contraddistinguere i propri prodotti ma in ragione di licenza o su autorizzazione della licenziante. Infatti, per “preuso” bisogna intendersi l’utilizzo di un marchio come segno distintivo dei propri prodotti o servizi e, non di quelli di terzi.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento volto a far accertare e dichiarare la contraffazione di marchi d’impresa con conseguente richiesta di ordine di inibitoria, condanna al risarcimento dei danni e pubblicazione della sentenza.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, sentenza dell’11 luglio 2023, n. 1791 – s.p.a., compenso dell’amministratore, eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. 

Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, il sinallagma alla cui tutela è predisposto il rimedio di cui all’art. 1460 c.c. va considerato separatamente per ogni singola prestazione in cui si articola il contratto perché l’esecuzione ha luogo per coppie di prestazioni da eseguirsi contestualmente e con funzione corrispettiva. Ogni prestazione eseguita costituisce un adempimento integrale e completo cui deve conseguire una controprestazione corrispondente, senza possibilità di sollevare un’eccezione di inadempimento, che non esiste in relazione a quella coppia specifica di prestazione-controprestazione. Ne deriva che l’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. può essere utilmente fatta valere solo allorché attenga temporalmente e logicamente alla prestazione di riferimento, rispetto alla controprestazione richiesta all’eccipiente (cfr. Cass. n. 4225/2022 e Cass. n. 7550/2012)

In materia di compenso spettante all’amministratore di società di capitali, esiste un nesso sinallagmatico di tipo contrattuale (sia pure originato all’interno di un rapporto di natura associativa) tra adempimento dei doveri dell’amministratore (la cui violazione è altresì fonte di responsabilità) e diritto al relativo compenso, pertanto la società può sollevare l’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. per opporsi alla richiesta del suo ex amministratore di ottenere il pagamento del compenso, allegando l’inadempimento o il non corretto adempimento degli obblighi dal medesimo assunti. In tal caso il giudice è tenuto a procedere ad una valutazione comparativa dei comportamenti delle parti contrapposte, tenendo conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche dei rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della loro incidenza sulla funzione economico-sociale del contratto (cfr. Cass. n. 29252/2021; Cass. n. 12978/2002). Ne consegue che il rifiuto della società di pagare il compenso dell’ex amministratore sollevando l’eccezione di inadempimento è ammissibile limitatamente al corrispettivo maturato nel periodo relativamente al quale sussistono i lamentati inadempimenti.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo promosso da una società per contestare la richiesta di pagamento del compenso formulata in sede monitoria dal suo ex amministratore sollevando l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c. L’opposizione è stata rigettata in quanto gli inadempimenti allegati dall’opponente consistevano in condotte realizzate nel corso dell’esercizio precedente rispetto a quello in cui erano maturati i compensi oggetto di ingiunzione, sicché è stato ritenuto insussistente il rapporto sinallagmatico tra detti inadempimenti e l’obbligazione di pagamento degli emolumenti azionati dall’ex amministratore. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni) 




Tribunale di Brescia, sentenza del 5 luglio 2023, n. 1687 – responsabilità organi societari, risarcimento del danno

L’annotazione nel registro IVA acquisti di fatture false, la successiva presentazione di crediti IVA inesistenti, nonché il loro (parziale) utilizzo in compensazione integrano condotte di chiara rilevanza penale e gravi violazioni dei doveri che incombono sugli amministratori anche in vista della conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. Pertanto, dei danni alla società e ai creditori sociali che ne siano conseguenza ne sono responsabili indubbiamente gli amministratori che hanno in concreto posto in essere tali operazioni.

Con riferimento al professionista incaricato dalla società della materiale trasmissione della dichiarazione IVA, lo stesso può concorrere nell’illecito dell’amministratore nel caso in cui sia consapevole dell’inesistenza del credito attestato o nel caso in cui, in presenza di circostanze tali da concretizzare seri indizi di insussistenza delle operazioni dichiarate, non abbia colpevolmente rilevato tale inesistenza, pertanto, nell’ipotesi in cui la propria condotta, quantomeno colposa, abbia concorso – rendendola possibile – all’operazione illecita posta in essere dall’organi amministrativo. Ciò in considerazione del fatto che, l’apposizione del visto di conformità e l’accertamento demandato al professionista ai sensi dell’art. 35 d. lgs. n. 241/1997 non può avere carattere meramente formale – pena lo svuotamento delle norme in esame e la completa inutilità del controllo richiesto finalizzato a semplificare le procedure legate alla richiesta dei rimborsi IVA e ad agevolare l’amministrazione finanziaria nella selezione delle posizioni da controllare – implicando lo stesso la verifica della regolare tenuta e conservazione delle scritture contabili obbligatorie ai fini delle imposte sui redditi e delle imposte sul valore aggiunto, della corrispondenza dei dati esposti nelle dichiarazioni alle risultanze di tali scritture contabili e di queste ultime alla relativa documentazione.

In materia di azione di responsabilità promossa ex artt. 2393 e ss. c.c. contro una pluralità di soggetti, la transazione raggiunta tra la società (o la curatela ex art. 146 L.F.) e alcuni tra i convenuti riguardante le quote di debito delle parti transigenti ha l’effetto di sciogliere, per tali quote, anche il vincolo di solidarietà passiva e, dunque, il debito, dei convenuti rimasti in causa (la cui esposizione va, pertanto, ridotta in misura corrispondente alla quota di coloro che hanno transatto), sì da rendersi necessario determinare le quote di responsabilità dei vari condebitori solidali mediante accertamento che deve necessariamente riferirsi, in via incidentale, anche alle condotte tenute dalle parti transigenti (cfr. Cass. n. 7907/2012).

La natura di debito di valore dell’obbligazione risarcitoria impone che sui relativi importi vadano conteggiati gli interessi compensativi del danno derivante dal mancato tempestivo godimento dell’equivalente pecuniario del bene perduto. Tali interessi decorrono a partire dalla produzione dell’evento di danno sino al tempo della liquidazione e si calcolano sulla somma via via rivalutata nell’arco del tempo suddetto e non sulla somma già rivalutata.

Principi espressi nell’ambito del giudizio di promosso dal fallimento a tutela del credito risarcitorio vantato ex artt. 146 L.F., 2476 e 2043 c.c. nei confronti degli ex amministratori della società fallita, in concorso con i relativi professionisti, in conseguenza degli illeciti di natura fiscale contestati agli stessi (indebita compensazione di un inesistente credito IVA) che hanno comportato l’irrogazione in capo alla fallita di una sanzione amministrativa da parte dell’amministrazione finanziaria e dell’ente previdenziale.

(Massime a cura di Giorgio Peli)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 28 giugno 2023, n. 1112 – contratti bancari, prova scritta del credito, contratto monofirma, fideiussione, nullità parziale per violazione della normativa antitrust

Qualora una banca intenda far valere in giudizio il credito derivante da un rapporto di conto corrente, deve provare l’andamento del medesimo dall’inizio e per l’intera durata del suo svolgimento, senza interruzioni (cfr. Cass. n. 23856/2021). Gli estratti conto non costituiscono tuttavia l’unico mezzo di cui la banca possa utilmente avvalersi ai fini della dimostrazione delle operazioni effettuate sul conto corrente e, quindi, del suo credito nei confronti del correntista. Pertanto, in assenza di limitazioni al riguardo, è possibile desumere la relativa prova dalle schede dei movimenti ovvero da altri atti o documenti idonei ad attestare il compimento dei negozi da cui derivano, nonché il titolo, la natura e l’importo delle operazioni, oltre che l’annotazione in conto delle relative partite (cfr. Cass. n. 11543/2019; Cass. n. 2435/2020; Cass. n. 1077/2021; Cass. n. 38976/2021 e Cass. n. 1538/2022). Va invece esclusa la possibilità per la banca di provare l’ammontare del proprio credito mediante la produzione, ai sensi dell’art. 2710 c.c., dell’estratto notarile delle sue scritture contabili o dell’estratto di saldaconto, dai quali risulti il mero saldo del conto (cfr. Cass. n. 11543/2019).

Ai fini della prova del credito della banca, l’assenza degli estratti conto per il periodo iniziale del rapporto non è astrattamente preclusiva di un’indagine contabile per il periodo successivo, potendo questa attestarsi sulla base di riferimento più sfavorevole per il creditore istante quale, a titolo esemplificativo, quella di un calcolo che preveda l’inesistenza di un saldo debitore alla data dell’estratto conto iniziale. Pertanto, nell’ipotesi in cui la banca creditrice non abbia prodotto il primo estratto conto, si ritiene corretto effettuare il calcolo dei rapporti di dare e avere tra le parti partendo dal “saldo zero” (cfr. Cass. n. 24153/2017; Cass. n. 13258/2017).

La mancanza della firma della banca sui contratti bancari che, ai sensi dell’art. 117, 1° co., TUB, devono essere redatti per iscritto e devono essere consegnati al cliente è priva di rilievo ai fini della loro validità, potendosi applicare al riguardo il principio espresso in materia di contratti di intermediazione finanziaria, secondo il quale ai fini della validità del contratto è sufficiente che questo sia redatto per iscritto, che sia sottoscritto dal cliente e che a quest’ultimo ne sia consegnata una copia, potendo desumersi il consenso dell’istituto di credito o dell’intermediario dai comportamenti concludenti dallo stesso tenuti (cfr. Cass., S.U., n. 898/2018; Cass., S.U., n. 1653/2018; Cass. n. 19298/2022; Cass. n. 8124/2022; Cass. n. 9187/2021; Cass. n. 14646/2018; Cass. n. 16270/2018; Cass. n. 14243/2018). 

In caso di lamentata nullità della fideiussione per violazione della normativa antitrust, vale il principio secondo il quale i contratti di fideiussione “a valle” di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, 2° co., lett. a), l. n. 287/1990 e 101 TFUE, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, 3° co., della legge citata e dell’art. 1419 c.c., limitatamente alle clausole che riproducono quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti (Cass., S.U., n. 41994/2021; Cass., n. 15146/2023; Cass., n. 15275/2023; Cass., n. 11333/2023; Cass., n. 9071/2023).

Princìpi espressi in grado d’appello nell’ambito di una controversia concernente l’opposizione al decreto ingiuntivo con il quale era stato ingiunto agli opponenti il pagamento, in favore della banca opposta, del saldo debitore relativo a due rapporti di conto corrente da questa intrattenuti con uno degli opponenti e garantiti dalla fideiussione prestata dall’altro.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Corte di Appello di Brescia, sentenza del 26 giugno 2023, n. 1079 – interessi usurari, usurarietà interessi moratori

La disciplina antiusura si applica agli interessi moratori essendo la stessa finalizzata a sanzionare non solo la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria dovuta in relazione al contratto. Il confronto da effettuare ai fini della verifica del rispetto della disciplina antiusura va effettuato tra dati omogenei ed in conformità alle indicazioni espresse nelle c.d. “Istruzioni della Banca d’Italia” la quali sono recepite nei decreti ministeriali attuativi al fine di far sì che il conteggio dei tassi effettivi globali medi (c.d. TEG) sia effettuato con i parametri e le modalità ivi stabilite. Con riferimento alla valutazione dell’usurarietà del tasso di mora, il decreto ministeriale di rilevazione dei tassi effettivi globali medi costituisce parametro “privilegiato” per la sua valutazione. In conseguenza dell’accertamento dell’usurarietà degli interessi moratori, ai sensi dell’art. 1815, comma 2, c.c., non saranno dovuti gli interessi moratori pattuiti, ferma restando, ai sensi dell’art. 1224, comma 1, c.c., la debenza degli interessi corrispettivi lecitamente convenuti, in relazione ai quali, dunque, nessuna pretesta restitutoria può essere giustificata e, pertanto, trovare accoglimento.

In tema di interessi convenzionali, la disciplina antiusura si applica sia agli interessi corrispettivi (e ai costi posti a carico del debitore per il caso di regolare adempimento del contratto) sia agli interessi moratori (e ai costi posti a carico del medesimo debitore per il caso, e come conseguenza dell’inadempimento), ma non consente di utilizzare il cd. criterio della sommatoria tra tasso corrispettivo e tasso di mora, poiché gli interessi corrispettivi e quelli moratori si fondano su presupposti diversi e antitetici, essendo i primi previsti per il caso di (e fino al) regolare adempimento del contratto e i secondi per il caso di (e in conseguenza dell’) inadempimento del contratto (in merito si segnala anche Cass. 05/05/2022, n. 14214; Cass. 7352/2022; Cass. 31615/2021; S.U. 19597/2020 cit.; Cass. 26286/2019). Inoltre, non è possibile procedere a sommatoria tra il tasso di mora e gli ulteriori costi e spese allo stesso contratto di mutuo, in considerazione del fatto che tali voci di costo – le quali devono essere computate ai fini della verifica dell’eventuale superamento della soglia usura ad opera degli interessi corrispettivi – non devono invece cumularsi al tasso di mora poiché lo stesso, a seguito dell’inadempimento del debitore, assume valore assorbente rispetto a tutte le pretese creditorie.

Qualora l’interesse corrispettivo sia lecito, e solo il calcolo degli interessi moratori applicati comporti il superamento della soglia usuraria, ne deriva che solo questi ultimi sono illeciti e preclusi, fermo restando che, ai sensi di quanto previsto dall’art. 1224 c.c., comma 1, dovranno essere in ogni caso applicati gli interessi corrispettivi nella misura in cui siano stati lecitamente pattuiti. Ciò in considerazione del fatto che, diversamente, ove si prevedesse la gratuità del mutuo in tale ipotesi, si finirebbe per premiare il debitore inadempiente rispetto a colui che adempia ai suoi obblighi con puntualità, determinando un pregiudizio generale all’intero ordinamento sezionale del credito (cui si assegna una funzione di interesse pubblico), nonché allo stesso principio generale di buona fede, di cui all’art. 1375 c.c.

Principi espressi nell’ambito del giudizio di appello finalizzato, inter alia, a far dichiarare la nullità del contratto di mutuo fondiario per applicazione di interessi usurari e, per l’effetto, a condannare l’istituto di credito alla rifusione di quanto percepito indebitamente dal mutuatario e al risarcimento del danno.

(Massime a cura di Giorgio Peli)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 12 giugno 2023 – s.s., revoca dell’amministratore per giusta causa




Tribunale di Brescia, sentenza del 1° giugno 2023, n. 1350 – simulazione

La divergenza tra dichiarazione-titolo e contenuto-effetti determinata dalla simulazione si realizza mediante un’unitaria fattispecie negoziale, che non prevede un distinto accordo intermedio inteso a collegare il negozio simulato a quello dissimulato. La controdichiarazione, dunque, va espunta – in quanto priva di rilevanza, tanto sul piano strutturale che su quello funzionale – dagli elementi costitutivi dell’accordo simulatorio, trattandosi di null’altro che di un documento che riveste esclusivamente funzione probatoria, meramente ricognitiva e rappresentativa del preesistente accordo simulatorio (cfr. Cass. n. 24950/2020).

Principi espressi nell’ambito del giudizio promosso dai soci di una società a responsabilità limitata al fine di ottenere: i) il pagamento del residuo prezzo di vendita del 40% delle partecipazioni nella s.r.l.; ii) la dichiarazione di inefficacia ex art. 2901 c.c. dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale; iii) la risoluzione dell’accordo fiduciario per inadempimento nonché il risarcimento dei danni.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 29 maggio 2023, n. 1316 – appalti pubblici, modifica del contratto, jus variandi

La ratio dell’istituto dello jus variandi in materia di appalti pubblici è quella di consentire la soddisfazione del preminente interesse pubblico di adattamento del contratto concluso con la pubblica amministrazione alle “necessità” sopravvenute nel corso dell’esecuzione dell’opera o del servizio, senza che ciò obblighi a nuova procedura di affidamento.

Tale esigenza è contemperata dal divieto per la P.A. di imporre al contraente una variazione eccessiva (in aumento o diminuzione) degli obblighi contrattuali rispetto all’originaria previsione e dalla necessità che tale variazione sia ancorata a oggettive esigenze e aventi carattere imprevedibile e sopravvenute successivamente, nel corso dell’esecuzione del contratto.

Il diritto di modifica, che opera entro la misura massima del quinto (c.d. quinto d’obbligo) delle prestazioni contrattuali (massimale), attiene dunque alla fase esecutiva del rapporto e non a quella precedente, di formazione del vicolo contrattuale.

Ne consegue che la trasmissione dell’ordine di fornitura, avente ad oggetto il massimale contrattuale (nell’osservanza della cornice regolamentare di riferimento), rappresenta esclusivamente il momento di perfezionamento del contratto ma non integra ed esaurisce il diritto di modifica delle prestazioni contrattuali afferente alla successiva fase esecutiva del rapporto.

La prerogativa dello jus variandi non può dunque essere legittimamente esercitata per rimediare a  originari errori, come sono ad esempio gli errori di una stazione appaltante in sede di valutazione del fabbisogno o per eludere gli obblighi discendenti dal rispetto delle procedure ad evidenza pubblica attraverso un artificioso frazionamento del contenuto delle prestazioni (nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto la stazione appaltante, contrattualmente inadempiente nei confronti della società appaltatrice, avendo esercitato lo jus variandi previsto dall’art. 106, comma 12, Codice degli Appalti, in assenza dei relativi presupposti e avendo pacificamente impedito, con la propria condotta, l’integrale esecuzione del contratto, rifiutando di ricevere l’ultima parte di vaccini acquistati e omettendo di pagarne il prezzo).

Principi espressi nell’ambito della controversia tra un soggetto appaltatore e appaltante, con riguardo all’esercizio dello jus variandi in materia di appalti pubblici. In particolare, l’appaltante è stato ritenuto contrattualmente inadempiente, avendo esercitato lo jus variandi in assenza dei relativi presupposti e avendo pacificamente impedito, con la propria condotta, l’integrale esecuzione del contratto, rifiutando di ricevere l’ultima parte di vaccini acquistati e omettendo di pagarne il prezzo.

(Massime a cura di Carola Passi)