Decreto del 19 giugno 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

Oggetto
della denuncia ex art. 2409 c.c. è il fondato sospetto di gravi
irregolarità nella gestione, sempre che queste siano attuali e idonee a
produrre pregiudizi per la società gestita. L’intervento giudiziario richiesto
ex art. 2409 c.c. non può essere accordato, in mancanza di potenzialità del
danno, allorquando l’azione lesiva, già verificatasi a distanza di tempo, abbia
esaurito i propri effetti in assenza di elementi tali da far ipotizzare una
verosimile reiterazione.

Si
deve ritenere esclusa l’applicazione del controllo giudiziario a tutte quelle
irregolarità c.d. informative o puramente formali che, per quanto gravi, non
sono normalmente idonee a produrre effetti negativi immediati e diretti sul
patrimonio o sull’attività sociale.

Il
requisito dell’idoneità delle irregolarità denunciate ex art. 2409 c.c.
a recare danno alla società o a sue controllate ha trasformato il procedimento
in parola in strumento diretto a interrompere comportamenti di mala gestio idonei
a danneggiare la società, se non interrotti.

Ai
fini dell’applicazione dell’art 2409 c.c. risultano irregolarità rilevanti
quelle relativi ad atti di gestioni propri della società nel cui interesse è
promosso il procedimento, e ciò sia quando venga prospettato un danno per
questa stessa società, sia allorché la lesione abbia quale possibile
destinataria una società controllata.

Principi
espressi in ipotesi di rigetto di un ricorso ex art 2409 c.c., in difetto dei
requisiti di tempestività e attualità, promosso dal alcuni soci nei confronti
nei confronti dell’amministratore, nonché socio di maggioranza, asseritamente
responsabile di gravi irregolarità nella gestione della società.

Nel
dettaglio, le ricorrenti contestavano:

  1.  condotte dell’amministratore apparentemente poste in essere al fine di estromettere le stesse dalla attività sociale e
  2. il trasferimento di assets della società in favore dello stesso e/o di soggetti a lui riconducibili che avrebbe prefigurato un grave pregiudizio per la società. 

(Massime
a cura di Giorgio Peli)




Sentenza del 15 giugno 2020 – Presidente relatore: Dott. Raffaele Del Porto

L’apposizione del timbro postale ai fini della “data certa” sul documento che contiene il contratto, nulla dice quanto al luogo della sua conclusione, atteso che il documento può essere stato senz’altro sottoscritto in un luogo e successivamente, nel corso della stessa giornata, presentato presso un ufficio postale in una provincia diversa per l’apposizione del timbro.

Il corrispettivo del trasferimento delle quote sociali è rappresentato dal pagamento del relativo prezzo. In caso di cessione di quota, i vari apporti di denaro eseguiti dai soci in favore della società non sono necessariamente ricompresi nel sinallagma contrattuale, in difetto di idonea prova quanto alla effettiva natura dei versamenti, dal momento che gli stessi possono avere forma di finanziamenti ordinari (con conseguente credito restitutorio “pieno”), di finanziamenti ex art. 2467 c.c. (con conseguente credito restitutorio postergato) o anche di meri conferimenti di capitale di rischio, potendo quindi circolare anche indipendentemente dal trasferimento delle quote. 

Qualora le parti abbiano contrattualmente stabilito il trasferimento della quota sociale senza il pagamento di alcun prezzo, l’eccezione di inadempimento relativa al mancato rimborso della quota dei versamenti effettuati medio tempore dal socio “quali finanziamenti alla società” non può utilmente essere invocata dal socio a sostegno dell’eccezione ex art. 1460 c.c. (Conf. Cass. n. 2720/2009).

Principi espressi in ipotesi di accoglimento di un’azione volta ad ottenere l’ordine al convenuto di procedere a tutti gli adempimenti necessari per l’effettiva corretta intestazione della quota in esecuzione di una scrittura privata con la quale le parti avevano riconosciuto che la quota del capitale sociale della società era stata sottoscritta dall’attore in misura del 50% in nome e per conto proprio e in misura del restante 50% in nome proprio ma per conto, su mandato fiduciario, del convenuto.

Sempre in forza della medesima scrittura, il convenuto si era obbligato a cedere all’attore, a sua semplice richiesta, la quota detenuta in forza del mandato fiduciario conferitogli, senza alcuna somma a titolo di prezzo della stessa essendo già stato oggetto di accordo tra le parti. Il convenuto si era dichiarato disponibile al trasferimento della quota, ma subordinatamente al rimborso dei finanziamenti eseguiti nel frattempo in favore della società, sollevando altresì eccezione di inadempimento, che è stata ritenuta impropriamente svolta.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Decreto del 11 giugno 2020 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Il credito di rivalsa di Mediocredito Centrale s.p.a., sorto per effetto del pagamento effettuato a favore della banca garantita dopo il fallimento della società beneficiaria, è da qualificarsi credito sopravvenuto, in quanto maturato successivamente alla sentenza dichiarativa di fallimento.

Il credito di rivalsa del garante sostituisce nella massa passiva quello del creditore comune, escludendolo dal concorso. Resta inapplicabile l’art. 101 l.f. considerando che si riferisce a crediti anteriori alla dichiarazione di fallimento. Neppure è ammissibile l’insinuazione senza limiti di tempo, dovendosi invece fissare – in coerenza con i principi di celerità e concentrazione dell’accertamento fallimentare e sulla scorta degli artt. 3 e 24 Cost. – il termine di un anno decorrente dal momento in cui si verificano le condizioni di partecipazione al passivo fallimentare.

È inammissibile l’insinuazione del credito da surroga, ai sensi dell’art. 61, comma 2, l.f., qualora non si dimostri il carattere integralmente satisfattivo delle ragioni creditorie, non essendo rilevante un pagamento parziale, sebbene idoneo ad estinguere l’obbligazione del solvens.

I principi sono stati espressi nel corso di un procedimento di opposizione allo stato passivo avente ad oggetto l’esclusione del credito di rivalsa di Mediocredito Centrale dal passivo fallimentare per ultratardività della domanda.

(Massime a cura di Alessandra Nodari)




Sentenza del 4 giugno 2020 – Presidente relatore: Dott. Raffaele Del Porto

È inammissibile, perché nuova, la domanda di risarcimento del danno presentata nei confronti di una s.r.l. e del socio, qualora l’attore, con la memoria ex art. 183, 6° comma, n. 1, c.p.c., aggiunga alla domanda originaria una domanda (nuova) di condanna nei confronti del socio stesso quale liquidatore della società, abbandonando la domanda nei confronti della società perché cancellata dal Registro delle Imprese. Alla medesima conclusione si perviene anche qualora si ritenga tale domanda siccome sostitutiva dell’originaria proposta nei confronti della società, perché avanzata verso un soggetto diverso da quello originario, a nulla rilevando la (occasionale) presenza in giudizio del convenuto nella differente veste di socio della società cancellata.

Principi espressi nel rigettare l’azione volta ad ottenere la condanna di una s.r.l. in liquidazione e dei soci al pagamento del compenso professionale per l’incarico di liquidatore svolto e subordinatamente al risarcimento in via equitativa per presunto inadempimento contrattuale.

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 20 maggio 2020 – Giudice designato: Dott. Stefano Franchioni

La conoscenza dello stato d’insolvenza dell’imprenditore da parte del terzo, che deve essere effettiva e non meramente potenziale, può essere provata dal curatore, sul quale incombe il relativo onere, tramite presunzioni gravi, precise e concordanti, ex artt. 2727 e 2729 c.c.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento in cui il fallimento di una s.r.l. conveniva in giudizio il creditore per ottenere la revoca, ai sensi dell’art. 67, comma 2, l.f., del pagamento effettuato dalla società in bonis a favore dello stesso nel semestre anteriore alla dichiarazione di fallimento.

(Massima a cura di Giulia Ballerini)




Sentenza del 18 maggio 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

La cessione delle quote (o azioni) ha come oggetto immediato la partecipazione sociale e solo quale oggetto mediato la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta. Pertanto, le carenze o i vizi relativi alle caratteristiche e al valore dei beni ricompresi nel patrimonio sociale – e, di riverbero, alla consistenza economica della partecipazione – possono giustificare l’annullamento del contratto per errore o, ai sensi dell’art. 1497 c.c., la risoluzione per difetto di “qualità” della cosa venduta (necessariamente attinente ai diritti e obblighi che, in concreto, la partecipazione sociale sia idonea ad attribuire e non al suo valore economico), solo se il cedente abbia fornito, a tale riguardo, specifiche garanzie contrattuali, ovvero nel caso di dolo di un contraente, quando il mendacio o le omissioni sulla situazione patrimoniale della società siano accompagnate da malizie ed astuzie volte a realizzare l’inganno ed idonee, in concreto, a sorprendere una persona di normale diligenza (conf. Cass. n. 16031/2007).

In materia contrattuale, per configurare la fattispecie della c.d. “presupposizione” (o condizione inespressa) è necessario che dal contenuto del contratto si evinca l’esistenza di una situazione di fatto (o di diritto), non espressamente enunciata in sede di stipulazione, ma considerata quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, il cui successivo verificarsi o venir meno dipenda da circostanze non imputabili alle parti (conf. Cass. n. 5112/2018).

Principio espresso nel giudizio promosso da una s.p.a. e una s.r.l., quali promittenti venditori, contro una s.r.l., quale promissaria acquirente al fine di accertare l’inadempimento di quest’ultima al contratto preliminare di cessione di quote e, per l’effetto, condannare la promissaria acquirente al risarcimento del danno. La convenuta si costituiva chiedendo il rigetto delle domande attoree e, in via riconvenzionale, l’annullamento del contratto preliminare sottoscritto exart. 1439 ovvero ex art. 1428 ovvero in via ulteriormente subordinata la nullità/inefficacia/risoluzione per inadempimento di parte attrice al contratto preliminare in quanto basato su una presupposizione rivelatasi insussistente.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza dell’8 maggio 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Un contratto che preveda quale suo oggetto la realizzazione di un video promozionale ricomprende tutte le attività, a carattere tecnico, necessarie per l’esecuzione del video, ivi inclusa l’attività di regia. 

La distinzione tra “regia operativa” e “diritti di regia” non è rilevante se si ha riguardo al contesto fattuale: considerata la natura dell’attività prestata, la finalità promozionale e le caratteristiche della committente, può presumersi che il corrispettivo pagato per la realizzazione di un video promozionale includa ogni voce economica riguardante l’esecuzione tecnica del video, anche a titolo di (eventuale) compenso autoriale.

L’attività di presentatore è prestazione estranea, sotto il profilo oggettivo, all’attività di realizzazione di un video promozionale giacché richiede competenze professionali di natura diversa, e pertanto da retribuirsi separatamente alle attività connaturate alla realizzazione di un video promozionale.

Principi espressi nel decidere una controversia avente ad oggetto il mancato pagamento dei diritti di regia e del compenso per l’attività di presentatore di un professionista operante nel settore della regia di spot televisivi nonché del compenso per l’attività di “presentatore” eseguita dallo stesso.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 30 aprile 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società di capitali previste dagli artt. 2393 c.c. e 2394 c.c. (o, per la s.r.l., artt. 2476, co. 3, e 2476, co. 6, c.c.), pur essendo tra loro distinte, in caso di fallimento dell’ente, confluiscono nell’unica azione di responsabilità, esercitabile, previa autorizzazione del giudice delegato, esclusivamente da parte del curatore.

In punto di prescrizione, la disciplina applicabile a detta azione si atteggia in modo differente a seconda dei presupposti operativi evocati: pur essendo comunque quinquennale il termine prescrizionale dell’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., il dies a quo è differente a seconda che il curatore abbia agito con la legittimazione processuale ex art. 146 l. fall. nell’esercizio: a) dell’azione sociale di responsabilità, oppure b) dell’azione di responsabilità esperibile da parte dei creditori.

In tal senso, il termine di prescrizione decorrerà quindi:

a) per l’azione sociale, dal momento in cui, per effetto dell’inadempimento degli obblighi degli amministratori e dei sindaci, si verifichi il danno alla società; il dies a quo, pertanto, può essere posteriore non solo a quello in cui si sia verificato l’inadempimento, ma anche a quello in cui amministratori e sindaci siano cessati dalla carica (ferma la sospensione del termine, quanto agli amministratori, durante lo svolgimento dell’incarico ex art. 2941, n. 7 c.c.);

b) per l’azione dei creditori sociali, dal momento – che può essere anteriore o coincidente con la dichiarazione del fallimento – in cui gli stessi siano stati in grado “di venire a conoscenza dello stato di grave e definitivo squilibrio patrimoniale della società” (conf. Cass. n. 9619/2009, n. 20476/2008, n. 941/2005). In ragione dell’onerosità della suddetta prova a carico del curatore, avente ad oggetto l’oggettiva percepibilità dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i crediti sociali, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quodi decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, spettando all’amministratore convenuto nel giudizio (che eccepisca la prescrizione dell’azione di responsabilità) dare la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale (conf. Cass. n. 13378/2014). La relativa prova, se è vero che può desumersi anche dal bilancio di esercizio (conf. Cass. n. 20476/2008), deve pur sempre avere ad oggetto “fatti sintomatici di assoluta evidenza (indicati da Cass. n. 8516/2009 nella chiusura della sede sociale, nell’assenza di cespiti suscettibili di esecuzione forzata, ecc.), nell’ambito di una valutazione che è riservata al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, se non per vizi motivazionali che la rendano del tutto illogica o lacunosa” (conf. Cass. n. 24715/2015).

In tema di azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., deve affermarsi la responsabilità degli amministratori laddove la curatela fallimentare-attrice abbia dato prova: a) della condotta illecita addebitata agli amministratori-convenuti consistente nell’omesso tempestivo rilievo della perdita del capitale sociale, nell’omessa adozione dei rimedi di cui all’art. 2482-ter c.c. e nell’indebita prosecuzione dell’attività d’impresa, atteso che la perdita del capitale sociale doveva essere prontamente rilevata; b) delle conseguenze lesive di detta condotta consistenti nelle maggiori perdite accumulate per effetto della indebita prosecuzione dell’attività; nonché c) del nesso eziologico sussistente tra l’indebita prosecuzione dell’attività e le conseguenze patrimoniali negative subite dalla società e dai creditori sociali.

In tema di azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare, ai fini della liquidazione del danno è necessario evidenziare che il pregiudizio arrecato alla società e ai creditori sociali deve essere calcolato, in conformità all’art. 2486 co. 3 c.c., come di recente modificato, attraverso il criterio dei cc.dd. “netti patrimoniali”, ossia nella differenza tra il patrimonio netto alla data di cessazione della carica gestoria o a quella di apertura della procedura concorsuale, da un lato, ed il patrimonio netto alla data in cui si è verificata la causa di scioglimento, dall’altro, una volta detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità.

La disciplina più favorevole dettata dall’art. 2392 c.c. per la responsabilità degli amministratori privi di specifiche deleghe (o funzioni) non può trovare applicazione nei casi in cui sia contestata agli amministratori la violazione di doveri relativi alla corretta formazione del bilancio e agli adempimenti conseguenti, nonché l’indebita prosecuzione dell’attività in assenza dei presupposti di legge, in danno della società e dei creditori sociali. Tale disciplina, essenzialmente diretta a limitare la responsabilità degli amministratori cc.dd. non operativi (cioè privi di delege) in relazione al compimento di atti gestori dannosi, non può difatti mandare esente da responsabilità l’amministratore che, sebbene estraneo alle specifiche attività gestorie, non può non partecipare, con piena consapevolezza e conseguenti responsabilità, all’adempimento fondamentale rappresentato dalla redazione del bilancio di esercizio.

Principi espressi nel giudizio promosso dal curatore fallimentare di una società a responsabilità limitata ex art. 146 l. fall. nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione della società, poi fallita, a fronte del compimento di atti di mala gestio, consistenti nell’aver redatto i bilanci in modo non corretto o non veritiero, nell’aver occultato dolosamente l’erosione del capitale sociale, nell’aver omesso di adottare i provvedimenti di cui all’art. 2447 c.c. e nell’aver indebitamente proseguito l’attività di impresa, aggravando il deficit patrimoniale.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 20 novembre 2019 – Presidente relatore: Dott. Raffaele Del Porto

La vendita del bene immobile di proprietà della società amministrata senza incasso (della gran parte) del relativo prezzo (e con rinuncia all’ipoteca legale) integra una condotta contrastante con i più elementari obblighi di diligenza dell’amministratore o del liquidatore, idonea a cagionare un altrettanto palese danno al patrimonio sociale, soprattutto in caso di conclamata insussistenza di risorse finanziarie (o di altra natura) in capo alla società acquirente. 

Integra un atto di mala gestio del liquidatore l’erogazione a proprio favore di pagamenti per compensi dallo stesso deliberati in misura eccessiva in qualità di socio unico della società fallita, trattandosi di una condotta che si pone in contrasto con la situazione di crisi, o più verosimilmente di insolvenza, in cui versava la società, che avrebbe ragionevolmente imposto una più moderata quantificazione del compenso spettante al socio unico per l’attività di liquidazione auto-affidatasi.

Il pagamento “preferenziale” eseguito dall’amministratore o dal liquidatore in favore di un creditore della società poi fallita, anche se non presenta gli estremi dell’illecito penale, è in ogni caso idoneo a cagionare un danno al patrimonio della società di cui il curatore può domandare il ristoro, costituendo violazione degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale in funzione di garanzia dei creditori. In tali casi il danno non è rappresentato dall’intera somma pagata al creditore, ma dalla differenza fra detta somma e l’importo che, in difetto di pagamento, sarebbe a questo spettato in sede di riparto fallimentare.

Principi espressi dal Tribunale in accoglimento dell’azione di responsabilità proposta dalla curatela nei confronti dell’amministratore unico e poi liquidatore di una s.r.l., per la condanna dello stesso al risarcimento dei danni cagionati al patrimonio della società fallita per effetto di condotte contrarie ai doveri propri delle cariche ricoperte, come la vendita di un immobile sociale senza incasso di gran parte del relativo prezzo, prelievi ingiustificati dai conti correnti della società, pagamenti a sé stesso per compensi del di liquidatore in misura eccessiva e ulteriori pagamenti preferenziali effettuati a favore di alcuni creditori sociali.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Ordinanza del 27 giugno 2018 – Giudice designato: Dott. Davide Scaffidi

Ai sensi dell’art. 19 Reg. CE n. 6/2002, il titolare di un disegno o modello comunitario registrato ha il diritto esclusivo di utilizzare il trovato e di vietare a terzi la commercializzazione di prodotti che per le loro caratteristiche estetiche non suscitino nell’utilizzatore informato un’impressione generale diversa da quella del modello registrato.

La valutazione del carattere individuale di un modello comunitario registrato deve avvenire considerando l’aspetto complessivo delle forme e tenendo conto dell’impressione d’insieme generata dalla percezione unitaria della combinazione peculiare dei singoli elementi costitutivi, e non sulla base dell’identità o somiglianza di singoli elementi costitutivi rispetto a modelli già noti.

L’onere di dimostrare l’invalidità di un modello comunitario registrato incombe su chi eccepisce il difetto dei requisiti di validità.

La valutazione circa l’esistenza del fumus connesso all’illecito concorrenziale dell’imitazione servile, di cui all’art. 2598, n. 1, c.c., parametrata rispetto alla percezione del consumatore medio, risulta assorbita, quanto alla dedotta imitazione servile dei prodotti, dalla tutela offerta al modello comunitario registrato, declinata in relazione al più elevato metro dell’impressione generale suscitata sul consumatore informato. 

L’imitazione diacronica può considerarsi illecita soltanto se effettuata, rispetto al prodotto o all’omologa iniziativa commerciale del concorrente, a una breve distanza di tempo, che deve essere valutata tenendo conto della natura del prodotto asseritamente imitato. 

L’imitazione del packaging utilizzato da un’impresa concorrente e l’organizzazione di attività promozionali realizzate mediante l’ausilio della stessa testimonial dei prodotti della concorrente integrano gli estremi della concorrenza sleale exart. 2598, n. 3, c.c., perpetrata mediante l’utilizzo di mezzi contrari alla correttezza professionale, volti a sfruttare la risonanza e la rinomanza dei prodotti e delle iniziative commerciali e promozionali altrui, in modo da ottenere un indebito risparmio derivante dalla mancata predisposizione di appositi investimenti autonomi.

Principi espressi in sede cautelare da parte del Tribunale che, confermando il decreto, emesso inaudita altera parte, di sequestro dei beni costituenti violazione di diritti su disegni o modelli comunitari registrati, ha affermato che la condotta posta in essere dalla resistente, consistente altresì nell’imitazione del packaging e dell’attività promozionale della concorrente, integrava gli estremi di una consapevole e sistematica attività concorrenziale sleale, attuata mediante l’utilizzo indiretto di mezzi contrari alla correttezza professionale. Il risultato di tali atti concorrenziali si sarebbe sostanziato in un agganciamento parassitario idoneo ad arrecare alla concorrente un pregiudizio consistente nell’indebolimento della sua posizione di mercato e nel possibile offuscamento dei relativi prodotti e segni distintivi.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)