Decreto del 16 agosto 2021 – Presidente relatore: Dott. Gianluigi Canali

Ai fini dell’estensione della
domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti agli
istituti di credito è preliminarmente necessario verificare la fondatezza della
richiesta, ai sensi dell’art. 182-septies l. fall., atteso che la
proposta di ristrutturazione potrà trovare concreta esecuzione esclusivamente in
caso di esito positivo della domanda.

In sede di omologazione dell’accordo
di ristrutturazione dei debiti, in mancanza di opposizione da parte degli
interessati, il sindacato del tribunale non è limitato ad un controllo formale
della documentazione richiesta, ma comporta anche una verifica di legalità
sostanziale, compresa quella relativa all’effettiva esistenza, in termini di
plausibilità e ragionevolezza, della garanzia del pagamento integrale dei
creditori e, in particolare, tra questi, che i soggetti terzi, estranei al
piano di ristrutturazione, godano della effettiva e reale sicurezza in
relazione al pagamento dei loro crediti (conf. Cass. n. 12064/2019).

Sebbene gli accordi di
ristrutturazione dei debiti siano atti riconducibili all’autonomia privata, è
necessario tenere conto della rilevanza pubblicistica del relativo procedimento
di omologazione, il quale comporta la sospensione delle azioni cautelari ed
esecutive pendenti e, in caso di successivo fallimento, significative deroghe al
regime generale dell’insolvenza e, in particolare, al principio della par
condicio creditorum.
Pertanto, il tribunale deve verificare l’attuabilità,
intesa come verifica della capacità del piano di liberare le risorse ivi
indicate, soprattutto di cassa, che consentano, da un lato il regolare
pagamento dei creditori non aderenti e, dall’altro, la progressiva, anche se
non repentina, uscita dell’impresa dalla situazione di crisi.

In sede di omologazione dell’accordo
di ristrutturazione dei debiti la relazione
dell’esperto: i) deve essere fondata su dati di partenza verificati; ii)
deve essere argomentata in modo coerente e logico con riferimento a detti
dati; iii) deve essere motivata nelle previsioni degli sviluppi futuri,
con particolare riferimento alla capacità del piano industriale di produrre i
flussi finanziari necessari a soddisfare i creditori estranei, attraverso
l’elaborazione e la valutazione autonoma delle previsioni anche mediante la
sottoposizione del piano a ragionevoli stress test.

Principi
espressi in ipotesi di domanda di omologazione di un accordo di
ristrutturazione dei debiti presentata da una s.r.l. in liquidazione, con
richiesta di estensione, ai sensi dell’art. 182-
septies l. fall,
agli istituti di credito.

All’esito
del giudizio, il Tribunale concedeva l’omologa dell’accordo di ristrutturazione
ed estendeva gli effetti previsti dall’accordo – raggiunto con le banche
aderenti – agli istituti di credito non aderenti, tenuto conto dell’attuabilità
dell’accordo e dell’idoneità dello stesso ad assicurare l’integrale pagamento dei
creditori estranei nei termini di legge.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 16 luglio 2021 – Presidente relatore: Dott. Raffaele Del Porto

L’art. 2393-bis c.c., attribuendo
alla minoranza qualificata dei soci di s.p.a. la legittimazione all’esercizio
dell’azione sociale di responsabilità, prevede al contempo (al 3° comma) la
necessaria partecipazione della società al giudizio promosso dai soci, nel
quale la società (destinataria degli effetti dell’eventuale provvedimento
favorevole), assumendo la veste di attore in senso sostanziale, deve essere
rappresentata da un curatore speciale, non potendo la stessa essere
rappresentata dal medesimo soggetto convenuto quale (preteso) responsabile (conf.
Cass. n. 10936/2016).

La responsabilità verso la società
degli amministratori di una società per azioni, prevista e disciplinata dagli
artt. 2392 e 2393 c.c., trova la sua fonte nell’inadempimento dei doveri
imposti ai predetti dalla legge o dall’atto costitutivo, ovvero
nell’inadempimento dell’obbligo generale di vigilanza o dell’altrettanto
generale obbligo di intervento preventivo e successivo, mentre il danno
risarcibile deve essere causalmente riconducibile, in via immediata e diretta,
alla condotta (dolosa o colposa) dell’agente, sotto il duplice profilo del danno
emergente e del lucro cessante (Cass. n. 10488/1998).

Con riferimento alla insindacabilità
delle scelte gestorie degli amministratori sotto il profilo della mera
opportunità economica, occorre segnalare che all’amministratore di una società
non può essere imputato, a titolo di responsabilità ex art. 2392 c.c.,
di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, dal momento
che una simile valutazione, attenendo alla discrezionalità imprenditoriale, non
può essere fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società, ma
può eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore. Ne
consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento
del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione (o le modalità
e circostanze di tali scelte), ma solo l’omissione di quelle cautele, verifiche
e informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo,
operata in quelle circostanze e con quelle modalità (conf. Cass. n. 3652/1997, Cass.
n. 15470/2017).

Con particolare riferimento alla
necessità di allegare il compimento di specifici atti di mala gestio e le
specifiche conseguenze lesive, legate a tali condotte da un nesso di causalità
giuridicamente rilevante, il corretto esercizio dell’azione sociale di
responsabilità nei confronti degli amministratori, pretesi responsabili, esige
la chiara allegazione: a) della(e) condotta(e) contraria(e) ai doveri imposti
dalla legge o dallo statuto; b) del danno patito dalla società; c) del nesso
causale tra condotta(e) e danno (conf. Cass. n. 23180/2006).

Principi espressi nel procedimento
promosso ai sensi dell’art. 2393-bis c.c. da due soci di minoranza di una
s.p.a. che lamentavano d’avere, in tale veste, inutilmente tentato di
contrastare le scelte gestorie degli amministratori, asseritamente spesso
viziate da situazioni di palese conflitto di interesse e che avevano condotto
la società, un tempo florida, ad un irreversibile stato di crisi, affrontato
dagli amministratori in modo palesemente inadeguato. In particolare, gli
amministratori avrebbero dapprima fatto ricorso ad un piano di risanamento
attestato ex art. 67, 3° comma, lettera d), l.f., non andato a buon fine; successivamente
tentato, sempre con esito negativo, il perfezionamento di un accordo di
ristrutturazione del debito
ex art. 182-bis l.f.; e, infine, presentato una
proposta di concordato con “continuità indiretta”, il quale, nonostante l’esito
sostanzialmente positivo, avrebbe comportato il definitivo trasferimento
dell’azienda ad un imprenditore terzo ed il completo azzeramento del patrimonio
sociale, destinato alla soddisfazione parziale del creditori. Il tribunale, in
conformità all’indirizzo della Suprema Corte ha rigettato le domande
sottolineando che gli attori si erano limitati ad allegare genericamente il
compimento di atti di
mala gestio senza però fornire un’adeguata
esposizione del nesso causale fra alcune delle condotte addebitate agli
amministratori ed il danno patito dalla società.

Il Tribunale ha avuto modo di confermare
la insindacabilità nel merito delle scelte gestorie degli amministratori, sottolineando
in particolare che le iniziative adottate per contrastare lo stato di crisi in
cui versava la società erano esenti da censure, avendo gli amministratori fatto
ricorso a professionisti qualificati e a strumenti leciti, contemplati
dall’ordinamento, che non presentavano elementi di abusività e che avevano
consentito di mantenere il presupposto della continuità aziendale, che sarebbe stata
altrimenti irrimediabilmente compromessa.

(Massime a cura di Francesco Maria
Maffezzoni)




Ordinanza del 2 luglio 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

La sussistenza di un adeguato fumus boni iuris in materia di concorrenza sleale deve essere costituita da elementi diversi e ulteriori rispetto alla mera e fisiologica concorrenza tra imprese.

In merito allo sviamento di clientela, l’eventuale sussistenza di coincidenze in relazione alla perdita di clienti non può considerarsi di per sé sottrazione di clientela in mancanza di allegazioni sufficientemente precise, in quanto la mera conoscenza delle abitudini ed esigenze dei clienti rientra nel patrimonio professionale e personale del lavoratore (specialmente quando si discute di un numero limitato di clienti). 

Per quanto attiene, invece, allo sfruttamento altrui di segreti ovvero di informazioni riservate, la parte danneggiata è tenuta ad allegare specificamente le caratteristiche di tali informazioni e di produrne in giudizio evidenza documentale. 

Con riferimento, poi, allo storno di dipendenti, affinché il fatto possa essere sussunto nella relativa fattispecie a tutela della concorrenza, non è sufficiente il mero storno unitariamente considerato, essendo altresì necessario valutare i mezzi concretamente utilizzati dal concorrente, le modalità di reclutamento del personale e gli effetti destrutturanti sull’altrui organizzazione aziendale, oltre a elementi come il numero di dipendenti e le mansioni ad essi attribuite. 

Infine, ai fini della qualificazione di un determinato comportamento nella categoria della concorrenza sleale parassitaria, l’elemento determinante consiste nel «continuo e sistematico operare sulle orme dell’imprenditore concorrente attraverso l’imitazione non tanto dei prodotti ma piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest’ultimo, mediante comportamenti idonei a danneggiare l’altrui azienda».

Tali principi sono stati espressi nel corso di un procedimento finalizzato all’ottenimento di un provvedimento inibitorio tra una società e un ex dipendente, che ha dato vita a nuova realtà imprenditoriale operante nel medesimo settore. 

(Massime a cura di Marta Arici)




Ordinanza del 1° luglio 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Ai fini dell’individuazione della competenza territoriale ai sensi dell’art. 120, co. VI, c.p.i., il locus commissi delicti si identifica con il luogo in cui la condotta è stata posta in essere. 

Detto criterio non opera in relazione al luogo in cui sono maturate le conseguenze dannose dell’illecito, bensì in relazione a quello dell’evento lesivo. 

Pertanto, ai fini dell’individuazione della competenza, rileva esclusivamente il luogo in cui si sono materialmente verificati gli atti lesivi e non quello della sede del danneggiato. 

I principi sono stati espressi nel corso di un procedimento avente ad oggetto una domanda di declaratoria di nullità di un marchio e di accertamento della contraffazione di segni distintivi.

(Massime a cura di Marta Arici)




Sentenza del 17 giugno 2021 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

In materia di determinazione dei saggi d’interesse dei buoni fruttiferi postali rileva l’indicazione apposta sul titolo sottoscritto dal risparmiatore, eventualmente anche con successivo timbro modificativo delle condizioni precedenti.

Da ciò consegue che in caso di difformità tra i tassi previsti da un eventuale decreto ministeriale modificativo e quelli risultanti dal titolo, debbano prevalere questi ultimi poiché – avendo le norme di modifica del saggio d’interesse natura eccezionale, oltre che speciale – si ritiene inammissibile, rispetto alla funzione stessa dei buoni postali, che le condizioni a cui l’amministrazione postale si obbliga possano essere diverse da quelle espressamente rese note al risparmiatore in sede di sottoscrizione del titolo stesso.

Principi espressi nell’ambito di una controversia avente a oggetto la determinazione di saggi d’interesse di buoni fruttiferi postali a seguito di modificazione a opera di decreto ministeriale.

(Massime a cura di Marta Arici)




Ordinanza del 14 giugno 2021 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

Con riferimento alla responsabilità dell’amministratore che si appropri di notizie od opportunità di affari appresi nell’esercizio del suo incarico a danno della propria società, la sanzione prevista dall’art. 2391 c.c. – norma ispirata alla Common Law statunitense e, in particolare, alla c.d. corporate opportunity doctrine – è di natura risarcitoria.

La norma, tuttavia, non risulta essere applicabile – come nella fattispecie in esame – in caso di “third party’s refusal to deal”, vale a dire qualora l’impraticabilità per la società di sfruttare opportunità di affari derivi dal rifiuto del terzo di contrarre con la stessa, non essendo in tal caso il pregiudizio patito conseguenza diretta dell’operato dell’amministratore.

Sulla base di tali principi, nella vicenda in questione, il giudice ha ritenuto insussistente il fumus boni iuris, escludendo altresì la responsabilità dell’organo amministrativo.

(Massime a cura di Marta Arici)




Ordinanza del 28 maggio 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Nell’ambito di un procedimento cautelare, al fine della verifica del requisito del fumus boni iuris, il fatto che il curatore fallimentare non abbia provveduto a rettificare il bilancio di esercizio non costituisce esimente a favore dell’amministratore che, precedentemente, abbia sottoposto il documento contabile all’assemblea ai fini della sua approvazione e non abbia successivamente impugnato la relativa delibera. 

Con riguardo al periculum in mora, invece, la sua sussistenza deve verificarsi considerando sia gli elementi oggettivi relativi alla consistenza patrimoniale del debitore – valutandone i profili quantitativi e qualitativi – sia quelli soggettivi correlati al suo comportamento. 

Il provvedimento è stato emanato a esito di un procedimento cautelare, strumentale alla tutela di un credito.

(Massime a cura di Marta Arici)




Sentenza del 25 maggio 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

In sede di azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, per quanto attiene alla possibilità di agire in regresso ai sensi dell’art. 2055 c.c., è da escludersi la sussistenza di responsabilità solidale di amministratori che non abbiano condiviso, per il medesimo periodo, la carica all’interno del consiglio di amministrazione.

Per quanto attiene, invece, ai profili di responsabilità degli amministratori di fatto – la quale, in ogni caso, non costituisce esimente per gli amministratori di diritto – l’accertamento di tale qualifica necessita di adeguate e rigorose verifiche circa l’esistenza di una sistematica ingerenza da parte di soggetti che, pur privi di cariche formali, esercitino de facto un potere connotato da esclusività e insindacabilità.

Con riguardo, invece, alle (diverse) fattispecie di responsabilità degli amministratori di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c., si ritiene che una volta intervenuto il fallimento, entrambe le azioni debbano confluire in un’unica azione unitaria, a contenuto inscindibile, esercitabile esclusivamente da parte del curatore fallimentare. Questa, pur mantenendo, da un punto di vista sostanziale, i tratti distintivi propri delle singole fattispecie, è da considerarsi proposta unicamente al fine di reintegrare il patrimonio sociale a garanzia sia dei soci sia dei creditori sociali. La ratio sottesa a tale unificazione attiene, inoltre, alla necessità di escludere il rischio che si generi una duplicazione della tutela risarcitoria per le medesime conseguenze dannose.

In relazione alla predetta unitarietà dell’azione di responsabilità, il dies a quo del termine prescrizionale coincide con il momento di oggettiva esteriorizzazione del danno all’integrità del patrimonio sociale e, perciò, con la conoscibilità della situazione patologica da parte dei terzi. 

Principi espressi nell’ambito di una controversia avente ad oggetto un’azione di responsabilità proposta dal fallimento avverso gli amministratori, sia di fatto sia di diritto.

(Massime a cura di Marta Arici)




Sentenza del 6 maggio 2021 – Giudice designato: Dott.ssa Marina Mangosi

Ai fini del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e
giudice amministrativo, rileva non tanto la prospettazione compiuta dalle
parti, quanto il petitum sostanziale, che va identificato soprattutto in
funzione della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della
posizione dedotta in giudizio (conf. Cass., Sez. Un., n. 21928/2018).

Qualora il contratto contenga sia una clausola compromissoria sia
una clausola che individui il foro territorialmente competente, la coesistenza
delle due previsioni – e sempre che la volontà compromissoria dei contraenti
sia chiara ed insuscettibile di interpretazioni alternative – deve essere
risolta sulla base dei principi di ordine generale in materia di
interpretazione delle clausole contrattuali di cui agli artt. 1362, 1° co., e
1363 c.c. e di conservazione del contratto ex art. 1367 c.c., in forza
del quale  non solo che il contratto
o  sue singole clausole devono essere
“interpretate nel senso in cui possano avere un qualche effetto”; ma anche che
il contratto “non risulti neppure in parte frustrato e che la sua efficacia
potenziale non subisca alcuna limitazione” (conf. Cass. n. 8301/07).

In ipotesi di coesistenza in un contratto di una clausola
arbitrale e di una clausola che stabilisca la competenza del tribunale
ordinario, il cui contenuto faccia riferimento a tutte le ipotetiche
controversie originate dal contratto, l’intenzione delle parti deve essere
considerata nel senso della possibilità di poter ricorrere al collegio
arbitrale in via alternativa rispetto al ricorso al tribunale non potendosi
escludere la giurisdizione statale rispetto al collegio arbitrale, qualora non
sia possibile ricostruire la volontà delle parti stesse (conf. Cass. n.
22490/2018).

Principi espressi nel procedimento promosso da una società che
aveva stipulato con un Comune due differenti contratti aventi ad oggetto,
quanto al primo, la concessione di derivazione idrica relativa a due impianti
di produzione idroelettrica e, quanto al secondo, la regolamentazione dei
rapporti economici relativamente alla cessione del diritto di superficie da
parte del Comune su terreni di sua proprietà interessati dalle opere funzionali
allo sfruttamento della concessione. Tali contratti contenevano due clausole
apparentemente contrastanti: una clausola compromissoria con la quale veniva
deferita ad arbitri ogni controversia e una seconda che devolveva alla
competenza esclusiva del foro territorialmente competente qualsiasi
controversia insorta in relazione alla validità, esecuzione o interpretazione del
contratto.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 4 maggio 2021, n. 1220 – Giudice designato: Dott. Raffaele Del Porto

Secondo la sentenza delle Sezioni Unite n.19597/2020, anche gli
interessi moratori possono avere natura usuraria e, tuttavia, l’autonomia della
relativa pattuizione fa sì che l’eventuale nullità della stessa non si estenda
a quella relativa agli interessi corrispettivi, qualora pattuiti in misura
lecita.

Secondo la medesima sentenza delle Sezioni Unite n. 19597/2020,
sussiste l’interesse dell’utilizzatore ad agire, anche in caso di svolgimento
regolare del rapporto in corso, per vedere accertata la nullità di una clausola
sugli interessi moratori “perché (cfr., fra le altre, Cass., 31 luglio 2015, n.
16262) l’interesse ad agire in un’azione di mero accertamento non implica
necessariamente l’attualità della lesione di un diritto, essendo sufficiente
uno stato di incertezza oggettiva”.

La previsione di risoluzione anticipata del
contratto di leasing è da ricondurre alla disciplina della clausola
penale, con la conseguenza che il rimedio applicabile nel caso di manifesta
eccessività della penale pattuita non è quello della gratuità del contratto di
cui all’art. 1815 c.c., bensì quello della reductio ad aequitatem della
penale eccessiva contemplato dall’art 1384 c.c.  

In caso di scostamento tra il tasso di leasing indicato e
quello concretamente applicato, laddove gli interessi concretamente corrisposti
dalla società utilizzatrice siano addirittura inferiori a quelli ricavabili in
base al piano di ammortamento sulla base del tasso contrattuale, è da
escludersi la indeterminatezza del tasso pattuito (in presenza di uno
scostamento non significativo, ed anzi irrisorio) e la sussistenza di un
diritto alla restituzione degli importi pagati in eccedenza (nel caso di
specie, insussistenti).

La difformità tra il tasso di leasing ed il tasso
effettivamente praticato può dipendere da diverse variabili: anche se detta
difformità si risolve a vantaggio della banca, con un suo arricchimento di
fatto, ciò non significa che vi sia stata applicazione di un tasso di interesse
difforme dal tasso annuo nominale (né tantomeno viene in rilievo un fenomeno di
anatocismo). Lo scostamento (di lieve entità) rilevato tra il tasso leasing
indicato rispetto a quello effettivamente applicato assume pertanto natura
fisiologica, poiché il primo si esprime su base annua indipendentemente dalla
periodicità dei pagamenti previsti.

Dalla difformità tra il tasso di leasing ed il tasso
effettivamente praticato non potrebbe mai derivare la nullità parziale del
contratto ai sensi dell’art. 117 TUB, ma potrebbe, se del caso,
ravvisarsi (in ipotesi di significativa difformità) responsabilità civile per
inadempimento dell’obbligazione di trasparenza, ove l’utilizzatore alleghi e
provi, ad esempio, che, qualora il tasso leasing fosse stato
correttamente rappresentato, egli non avrebbe stipulato il contratto o lo
avrebbe stipulato altrove a più favorevoli condizioni.

Non sussiste violazione delle norme in materia di trasparenza
laddove il contratto di leasing evidenzi, in modo sufficientemente
chiaro, le condizioni economiche applicate al finanziamento, quali ad esempio:
la durata dell’operazione, il corrispettivo globale della locazione
finanziaria, il numero e l’ammontare dei canoni, la periodicità e la
decorrenza, il prezzo per l’eventuale acquisto alla scadenza del contratto, il
parametro di indicizzazione, il tasso degli interessi di mora, il tasso interno
di attualizzazione e le singole spese.

Principi espressi all’esito del giudizio promosso da una società a
responsabilità limitata che chiedeva accertarsi l’usurarietà del tasso di
interesse in relazione a due contratti di
leasing,
il primo mobiliare ed il secondo immobiliare, e di conseguenza dichiararsi la
gratuità dei contratti in questione, con restituzione delle somme non dovute, o
in subordine la rideterminazione dei tassi di interesse e la restituzione di
quanto indebitamente incassato dalla società di
leasing.

(Massime a cura di Lorena Fanelli)