Sentenza del 3 novembre 2021 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

A seguito della riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. 6/2003, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal Registro delle Imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l’obbligazione della società non si estingue, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione, o illimitatamente, a seconda che, “pendente societate”, fossero, rispettivamente, limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese (conf. Cass. n. 6070/2013). Pertanto, il fenomeno successorio che si realizza a seguito dell’estinzione della società comporta il subentro dei soci nella medesima posizione della società con riferimento ai rapporti giuridici pendenti, con effetti analoghi a quelli tipici di una successione universale, con la conseguenza che la clausola di scelta del foro può essere efficacemente opposta ai soci succeduti alla società.

La clausola di scelta di foro esclusivo non consente il cumulo soggettivo di domande, non potendo attrarre domande svolte verso altri convenuti (conf. Cass. n. 9/13032). Difatti, la connessione per accessorietà opera nelle ipotesi in cui l’accoglimento della domanda accessoria dipenda dall’esito della causa connessa.

In tema di domanda di accertamento, con efficacia di giudicato, della risoluzione del contratto di leasing, la mancata formulazione è irrilevante atteso che la parte che agisce in giudizio ben può limitarsi a chiedere un accertamento della questione incidenter tantum, senza che tale scelta osti all’ammissibilità della domanda di rilascio, trattandosi di antecedente logico non controverso.

In tema di legittimazione passiva, la partecipazione al riparto in base al bilancio finale di liquidazione non costituisce una condizione di ammissibilità delle domande svolte dai creditori insoddisfatti nei confronti dei soci della società estinta, bensì un limite di responsabilità (conf. Cass., S.U., n. 6070/2013). Siffatto limite, pertanto, risulta inapplicabile qualora si controverta non già su crediti pecuniari insoddisfatti dal liquidatore, ma su rapporti giuridici non definiti all’esito della liquidazione, segnatamente, sui diritti discendenti dal contratto di leasing e sui beni oggetto del medesimo contratto, nonché sul correlato credito restitutorio in capo a parte concedente. Per altro verso, in punto di legittimazione passiva, la circostanza che il bene possa essere di fatto occupato da un soggetto terzo non incide sulla corretta formulazione della domanda di rilascio nei confronti dei soci succeduti, trattandosi di domanda fondata sul rapporto di leasing, che deve necessariamente essere proposta nei confronti della controparte contrattuale. In tal senso, l’eventuale presenza di un soggetto terzo all’interno dei locali può rilevare unicamente in executivis, ma non influenza la valutazione in punto di legittimazione passiva.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una banca con ricorso ex art. 702-bis c.p.c., ai fini del rilascio delle unità immobiliari sulla base del contratto di leasing, risolto dalla concedente ex art. 1456 c.c., stante il persistente inadempimento all’obbligazione di pagamento dei canoni da parte dell’utilizzatrice (nel caso di specie una s.r.l., posta in liquidazione e cancellata dal Registro delle Imprese). In particolare, la ricorrente agiva nei confronti dei soci della s.r.l. e nei confronti di una s.r.l.-c.r., quale soggetto occupante sine titulo degli immobili, già affittuaria del ramo d’azienda della s.r.l., comprensivo del diritto di godimento derivante dal rapporto di leasing in esame.

I soci eccepivano: i) l’incompetenza territoriale del Tribunale di Brescia, in favore del Tribunale di Vicenza (luogo di residenza dei convenuti) ovvero del Tribunale di Treviso (eccezione sollevata anche dalla s.r.l.-c.r.), nella cui circoscrizione era stato concluso il contratto, era sito l’immobile di cui si chiedeva il rilascio e andava eventualmente adempiuta l’obbligazione richiesta dalla ricorrente, ritenendo la clausola di scelta di foro convenzionale esclusivo, contenuta nel contratto di leasing, inopponibile ai soci del contraente estinto; ii) la nullità o inefficacia della clausola, in quanto generica e inidonea ad escludere la competenza di altri fori nonché contrastante con gli artt. 1341 e 1342 c.c.; iii) la carenza di legittimazione passiva, allegando di non avere riscosso alcuna somma in forza del bilancio di liquidazione della società cancellata;  iv) la mancata formulazione di una domanda di accertamento della risoluzione del rapporto di locazione finanziaria, con conseguente impossibilità di accoglimento della domanda di rilascio. 

Il Tribunale di Brescia, in merito alla competenza territoriale, dichiarava che la cognizione della causa andava devoluta alla competenza del Tribunale di Treviso, in quanto: a) pur se il contratto di leasing in esame conteneva una clausola (c.d. clausola di scelta del foro che può essere efficacemente opposta ai soci succeduti alla società nel rapporto contrattuale) che nitidamente rimetteva alla competenza del Tribunale di Brescia ogni controversia comunque discendente dal contratto, ad esclusione di qualsiasi altra competenza concorrente, la domanda in esame era di tipo extracontrattuale; b) a tacer della diversità di soggetti destinatari del rispettivo petitum, la causa petendi della domanda svolta nei confronti della s.r.l., oltre a essere del tutto autonoma, non dipendeva affatto da quella che identificava la domanda svolta nei confronti degli altri convenuti, trattandosi in un caso di causa petendi reale (occupazione sine titulo) e nell’altro di causa petendi contrattuale. 

Il Tribunale respingeva l’eccezione di carenza legittimazione passiva, poiché: a) il limite di responsabilità della partecipazione al riparto in base al bilancio finale di liquidazione risultava inapplicabile, posto che si controverteva su rapporti giuridici non definiti all’esito della liquidazione, segnatamente sui diritti discendenti dal contratto di leasing e sui beni oggetto del medesimo contratto nonché sul correlato credito restitutorio in capo a parte concedente; b) l’eventuale presenza di un soggetto terzo all’interno dei locali non influenzava la valutazione in punto di legittimazione passiva dei convenuti.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Decreto del 28 ottobre 2021 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: Dott. Gianluigi Canali

In tema di ammissione allo stato
passivo, colui che agisce per l’adempimento deve provare la sussistenza del
titolo e allegare l’esecuzione della prestazione promessa. Nell’ipotesi in cui
il debitore eccepisca il mancato o inesatto adempimento, il creditore deve
dimostrare di avere esattamente adempiuto la propria prestazione. Di
conseguenza, il creditore che chieda di essere ammesso allo stato passivo fallimentare
deve dimostrare la sussistenza di un vincolo contrattuale e allegare, con la
necessaria precisione, la prestazione eseguita.

Il riconoscimento di un credito nei confronti
del fallito è soggetto all’applicazione dell’art. 2704 c.c., ai fini dell’opponibilità
alla massa dei creditori. La carenza probatoria può, tuttavia, ritenersi
superata, qualora il debitore non contesti l’attività prestata dal creditore.

In relazione alla possibilità di
superare l’onere di allegazione attraverso la produzione documentale, il
giudice ha il potere-dovere di esaminare i documenti prodotti dalla parte solo
nel caso in cui la parte, interessata, ne faccia specifica istanza, esponendo
nei propri scritti difensivi gli scopi della relativa esibizione con riguardo
alle sue pretese, derivandone altrimenti per la controparte la impossibilità di
controdedurre ed essendo per lo stesso giudice impedita la valutazione delle
risultanze probatorie e dei documenti ai fini della decisione (conf. Cass. n.
8304/1990). Nel vigente ordinamento processuale, caratterizzato dall’iniziativa
della parte e dall’obbligo del giudice di rendere la propria pronunzia nei
limiti delle domande delle parti, al giudice è inibito trarre dai documenti,
comunque esistenti in atti,
deduzioni o indicazioni, necessarie ai fini della decisione, ove queste non
siano specificate nella domanda, o – comunque – sollecitate dalla parte
interessata (conf. Cass. n. 1419/1994; Cass. n. 1385/1995). Affinché il giudice
possa e debba esaminare i documenti versati in atti lo stesso deve accertare,
oltre la ritualità della produzione, ovvero che la produzione sia avvenuta nel
rispetto delle regole del contraddittorio, anche l’esistenza di una domanda, o
di un’eccezione, espressamente basata su tali documenti (conf. Cass. n. 15103/2000;
Cass. S.U. n. 2435/2008).

Il professionista incaricato
di redigere un accordo di ristrutturazione o una domanda di concordato deve –
qualora il piano non abbia alcuna possibilità di conferire ai creditori un’utilità
maggiore di quella che avrebbero conseguito con il fallimento – consigliare al
mandante di chiedere il fallimento in proprio, salvo che i soci non siano
disponibili a ricapitalizzare la società. Se il professionista collabora con
l’imprenditore per posticipare il fallimento sapendo che non vi è alcuna
possibilità di giungere alla formulazione di un piano accettabile dai
creditori, oltre al rischio di concorrere nel reato di bancarotta per
aggravamento del dissesto, pone in essere un inadempimento gravissimo, con
conseguente risoluzione dell’incarico professionale e obbligo di risarcire il
danno cagionato ai creditori e alla società.

Principi
espressi nel giudizio di opposizione
ex art. 98 l. fall. promosso dal creditore, nel caso di specie, un
professionista, avverso il decreto che aveva dichiarato inammissibile l’istanza
di ammissione allo stato passivo fallimentare, posto che l’istante non aveva né
allegato né provato le prestazioni effettuate. Il Tribunale di Brescia confermava la decisione del Giudice delegato,
ritenuto non assolto, da parte del professionista, l’onore di provare in modo
specifico e puntuale la concreta attività prestata a favore della
società fallita ai fini della liquidazione, secondo la tariffa professionale. L’opponente
si limitava, infatti, a produrre un mandato professionale privo di data certa
e, quindi, inopponibile
ex art. 2704 c.c. alla massa dei creditori. Osservava il Tribunale che la
domanda, anche a prescindere dai suddetti rilievi, sarebbe comunque stata rigettata,
poiché il creditore avrebbe dovuto provare l’adempimento e, quindi, avrebbe dimostrare
la concreta realizzabilità del piano.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 25 ottobre 2021 – s.s., nuova istanza di sospensione delibera esclusione soci basata su circostanze sopravvenute




Sentenza del 14 ottobre 2021 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

In materia di rapporti di leasing vige la regola di riparto dell’onere della prova generalmente applicabile alla responsabilità contrattuale, con la conseguenza che compete al creditore l’onere di allegare il titolo e l’altrui inadempimento e al debitore l’onere di provare la corretta esecuzione dell’obbligazione di pagamento (principalmente) dei canoni periodici, nel caso di finanziamento che presenta un piano di ammortamento predefinito. Pertanto, la parte che agisce a titolo di indebito oggettivo ha l’onere di allegare e provare i fatti a fondamento della propria pretesa. Ne consegue che tale onere non può ritenersi assolto mediante un mero rinvio alla perizia di parte, non essendo il giudice tenuto a ricercare all’interno della documentazione versata in atti quegli elementi in fatto che spetta unicamente alla parte interessata introdurre in giudizio, ritualmente e tempestivamente, all’interno dell’atto difensivo (conf. Trib. Brescia, ord. 10.2.2020).

In materia di leasing resta impregiudicata la facoltà per l’utilizzatore, nell’ipotesi in cui il valore residuo dell’immobile superi l’importo spettante al concedente in forza della clausola penale, di agire in un autonomo giudizio ai fini della restituzione della differenza (conf. Trib. Brescia, 9.7.2021). Invero, soltanto nel relativo giudizio il ricavato della vendita del bene potrà costituire un controcredito da opporre in compensazione.

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione promosso dall’utilizzatrice (nel caso di specie una s.r.l.) e dal fideiussore (nel caso di specie una s.p.a.) avverso il decreto ingiuntivo con cui il Tribunale aveva loro ingiunto il pagamento in favore di una banca della somma dovuta a titolo di canoni scaduti e interessi di mora risultanti dall’estratto conto del rapporto contrattuale (i.e. contratto di leasing immobiliare), risolto dalla concedente per inadempimento dell’utilizzatrice, giusta clausola risolutiva espressa.

In particolare, gli opponenti eccepivano: i) la carenza di prova scritta del credito, anche alla luce delle disposizioni dell’art. 1, comma 137, L. 124/2017; ii) la condotta della concedente contraria a buona fede, stante la repentina interruzione delle trattative avviate; iii) la violazione della L. 108/96, poiché il TAEG applicato al leasing risulterebbe notevolmente superiore rispetto al tasso soglia; iv) la nullità della fideiussione ex art. 2 della L. 287/90, per conformità allo schema elaborato dall’ABI nel 2003.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 24 settembre 2021 – Giudice designato: Dott. Luciano Ambrosoli

È nullo, per difetto di causa in concreto ex art. 1322 c.c., il contratto di IRS che, stipulato per dichiarate finalità di copertura del rischio di altra operazione, non sia in effetti strutturato, ad opera dell’intermediario che confeziona il derivato OTC, in correlazione alla posizione di rischio del cliente e al suo bilanciamento (cfr., specifica sul punto, Cass. Sez. 1, 31 luglio 2017, n. 19013).

È altresì nullo il contratto che, pur coerente per correlazione strutturale con la copertura del rischio del diverso rapporto contrattuale, non contenga indicazione del valore del derivato espresso dal mark to market e degli eventuali costi occulti e così pure degli scenari probabilistici in relazione ai quali si determina la misura e la distribuzione dell’alea (Cass., S.U., n. 8770 del 12 luglio 2020).

In caso di usurarierà dell’interesse moratorio per superamento del tasso soglia (tasso soglia calcolato sulla maggiorazione media per mora del 2,1%, secondo la precisa formula individuata dalle S.U. n. 19597/2020), dal principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite non discende la nullità ex art. 1815, comma 2, c.c. anche del tasso corrispettivo lecitamente determinato e l’azzeramento del costo del finanziamento (id est, la gratuità del mutuo). L’art. 1815 c. 2 c.c. importa in tal caso la nullità del solo interesse convenzionale di mora usurario; e, in forza dell’art. 1224, comma 1, c.c., gli interessi di mora non saranno affatto esclusi, ma saranno comunque dovuti, seppur nella minor misura degli interessi corrispettivi leciti.

(Massime a cura di Luisa Pascucci)




Decreto del 16 settembre 2021 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: Dott. Gianluigi Canali

In tema di locazione finanziaria, la
dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore comporta la sospensione ex
lege
dell’esecuzione del contratto sino a quando il curatore, con
l’autorizzazione del comitato dei creditori, dichiari di subentrare nel
contratto, assumendone i relativi obblighi, ovvero di recedere, con conseguente
risoluzione del contratto e obbligo di restituzione del bene. Tale sospensione,
quindi, opera ex lege e si protrae sino alla dichiarazione del curatore
o sino al momento in cui il giudice delegato, su richiesta dello stesso
contraente in bonis, assegniato al curatore un termine – massimo 60
giorni – per decidere sull’eventuale subentro.

In ambito di locazione finanziaria,
la curatela: i) se subentra nel contratto è tenuta a pagare in
prededuzione, tutte le obbligazioni derivanti dal contratto stesso, comprese
quelle maturate nel periodo di sospensione; ii) se, invece, dichiara di
sciogliersi dal contratto, si determina nella sostanza una risoluzione che ha
effetto ex tunc del rapporto pendente. Secondo quanto disposto dal secondo
comma dell’art. 72 quater l. fall., va escluso che il concedente possa
pretendere il pagamento dei canoni maturati tra la dichiarazione di fallimento
e la restituzione del bene. La sospensione, difatti, è disposta a favore della
curatela, al fine di consentir al curatore la valutazione in ordine alla
convenienza del contratto e della sua prosecuzione; nel corso della sospensione
– in quanto periodo di quiescenza del rapporto – non sussiste, se non disposto
diversamente, l’obbligo di corrispondere alcunché. La conferma di ciò si
rinviene, nell’art. 72 quater l. fall., il quale, disciplinando gli
effetti economici e le conseguenze nel rapporto creditorio con il concedente
del mancato subentro, si limita a disporre che in caso di scioglimento del
contratto, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a
versare alla curatela l’eventuale differenza tra la maggiore somma ricavata
dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso, avvenuta a valori di
mercato, rispetto al credito residuo in linea capitale. Il concedente ha
diritto ad insinuarsi nello stato passivo per la differenza tra il credito
vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dalla nuova allocazione del
bene. Infine, va osservato come naturalmente
sussista onere del pagamento in favore della concedente qualora il curatore
ritenga conveniente l’esercizio del diritto di riscatto del bene rispetto all’utilità
del bene ed alle condizioni contrattuali.

Principi
espressi nel giudizio di opposizione ex art. 98 l. fall. promosso dal
creditore, nel caso di specie, una banca, avverso il decreto che aveva
dichiarato inammissibile l’istanza
ex art. 101 l. fall. di insinuazione in prededuzione, posto che il la curatela
fallimentare non aveva mai occupato l’immobile e che il corrispettivo per
l’esercizio del diritto di riscatto non era dovuto.

Il Tribunale
di Brescia, a conferma della decisione del Giudice delegato, respingeva
l’opposizione, poiché:
a) per il periodo intercorrente tra la dichiarazione di fallimento e la
comunicazione da parte del curatore della volontà di sciogliersi dal contratto,
nulla spettava all’opponente ai sensi del secondo comma dell’art. 72-
quater l. fall.; b) per il periodo compreso tra lo scioglimento
del contratto e la restituzione del bene, nulla poteva essere riconosciuto a
titolo di risarcimento del danno, posto che il ritardo nella riconsegna risultava
ascrivibile alla responsabilità esclusiva dell’opponente;
c)
nessun credito era sorto in capo alla società di leasing, atteso che
il contratto prevedeva il pagamento della somma richiesta solamente nel caso in
cui l’opponente
avesse esercitato il diritto di riscatto e l’utilizzatrice
 fosse divenuta proprietaria del bene.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Decreto del 2 settembre 2021 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Ai sensi dell’art. 81 l.f. il contratto d’appalto si scioglie per il fallimento di una delle parti se il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, non dichiara di voler subentrare nel rapporto dandone comunicazione all’altra parte nel termine di 60 giorni dalla dichiarazione di fallimento (conf. Cass. n. 3854/2019).

Principi espressi in caso di rigetto di opposizione allo stato passivo; il Tribunale ha evidenziato che il contratto di appalto non aveva ad oggetto la fornitura di merci, ma la consegna di un impianto elevatore. Nel dettaglio è stato osservato che non erano stati richiesti la rivendica del materiale fornito, il controvalore e neppure il riconoscimento del compenso per la parte di opera eseguita in proporzione al prezzo pattuito per l’intera opera. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 10 luglio 2019 – Presidente relatore: Dott. Donato Pianta

In
ipotesi di controversia tra privati, un cittadino ed una società per azioni,
avente per oggetto la misura degli interessi dovuti in forza di un contratto di
diritto privato, sia pure disciplinato da norme speciali, e quindi di una
controversia nella quale si controverte di diritti soggettivi, sussiste la
giurisdizione ordinaria.

In
materia di buoni postali fruttiferi, se l’ufficio postale è indicato, sui detti
titoli, come soggetto debitore/pagatore, al quale i titolari dei buoni devono
rivolgersi per assicurarsi il pagamento di quanto loro spettante, sussiste la
legittimazione passiva dell’ufficio postale.

I principi sono stati espressi nel giudizio di
appello promosso avverso la sentenza del Tribunale che aveva condannato la
società appellante a versare in favore dell’appellato una somma a titolo di
rimborso di sette buoni postali fruttiferi, costituita dal capitale originario
e dall’ammontare degli interessi legali dall’introduzione della domanda
giudiziale sino al saldo.

In particolare, l’appellante lamentava di non essere
titolare del rapporto
obbligatorio controverso ed eccepiva
il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore del giudice
amministrativo.

(Massime
a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 5 febbraio 2020 – Presidente: Dott. Donato Pianta – Consigliere relatore: Dott. Giuseppe Magnoli

Attesa
l’autonomia tra i giudizi civile e penale nonché la diversità del regime
probatorio e di responsabilità ivi operante (sia con riferimento al tema del
riparto dell’onere probatorio sia con riferimento alla responsabilità solo
dolosa, per l’imputazione in ambito penale, ed invece anche colposa, in sede
civile), l’accertamento contenuto nella sentenza penale in relazione alla
condotta tenuta dall’amministratore non costituisce un vincolo per il giudice
civile nella definizione della lite.

In
tema di responsabilità degli amministratori, a fronte dell’addebito
all’amministratore unico per non aver richiesto ed ottenuto dai soci il
versamento delle quote residue di capitale sociale, l’unica replica utile è
quella costituita dalla dimostrata sollecitazione in tal senso e dall’avvenuto
versamento, a quello e non ad altro titolo, delle somme di danaro ancora dovute
dai soci alla società. Né l’amministratore può sottrarsi alla responsabilità –
per il danno che ne è derivato alla società e soprattutto ai relativi
creditori, con riferimento alla ridotta consistenza del patrimonio sociale a
ciò conseguita – attribuendo l’imputazione che assume (soltanto) erronea
all’operato di dipendenti o collaboratori. E ciò sia perché l’amministratore
risponde anche dell’operato di questi ultimi, sia perché tra gli oneri di
diligenza a suo carico rientra certamente anche quello di controllare l’operato
dei suoi collaboratori, soprattutto in quanto relativo ad operazioni
riconducibili, in ultima istanza, all’amministratore stesso.

I principi sono stati espressi nel giudizio
di appello promosso dall’ex socio e amministratore unico di una s.r.l. in
liquidazione, poi fallita, avverso la sentenza del Tribunale che aveva accertato
la sua responsabilità, quale amministratore unico, in relazione alle seguenti
condotte: (i) mancata richiesta ai soci del versamento del residuo capitale
sottoscritto, onere aggirato contabilmente tramite scritture contabili
artificiose; (ii) irregolare tenuta delle scritture contabili e compimento di
ulteriori operazioni contabili non chiare né trasparenti.

(Massime
a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 5 marzo 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Il principio di rappresentazione veritiera
della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società,
richiamato dall’art. 2423 c.c., non postula l’esistenza di una verità oggettiva
del bilancio, in quanto esso non può che
tendere a una verità “relativa” o “convenzionale”, nella misura in cui le
grandezze ivi rappresentate derivano da stime effettuate sulla base di metodi
di valutazione prescritti dalla normativa ovvero dalla best practice del
settore di riferimento. Nel processo di accertamento del grado di veridicità
del bilancio viene tuttavia in soccorso l’ulteriore principio previsto
dall’art. 2423 c.c., ovvero la correttezza (“true and fair view”). In
altre parole, l’esame del grado di accuratezza delle poste valutative presenti
in bilancio non può prescindere da un’analisi del livello di correttezza
comportamentale del redattore, desumibile dalla scelta dei criteri alla base
della rappresentazione, sotto il profilo della correttezza tecnica, della
coerenza e della razionalità.

Giacché il bilancio ha una preminente funzione
informativa (da qui l’esigenza di “chiarezza”), ai fini della declaratoria di
nullità della delibera di approvazione del bilancio è necessario che gli
eventuali scostamenti accertati in sede giudiziale si traducano in un vizio
rilevante, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, avuto riguardo alla
predetta funzione del documento, considerato nella sua interezza, e al
principio di prevalenza della sostanza sulla forma, valutando per esempio se il
vizio in questione incida sul grado di comprensibilità della singola
informazione riportata.

Allorché ad una consulenza tecnica d’ufficio siano mosse
critiche puntuali e dettagliate da un consulente di parte, il giudice che
intenda disattenderle ha l’obbligo di indicare nella motivazione della sentenza
le ragioni di tale scelta, senza che possa limitarsi a richiamare acriticamente
le conclusioni del proprio consulente, ove questi a sua volta non si sia fatto
carico di esaminare e confutare i rilievi di parte (Cassazione civile sez. I
21.11.2016, n. 23637): argomentando a contrario, si ricava che laddove
il C.T.U. abbia esaminato puntualmente i rilievi mossi dai consulenti di parte,
non sussiste in capo al Tribunale l’onere di motivazione sul punto, onere già
compiutamente assolto dal perito.

Rientra nel potere del consulente tecnico d’ufficio
attingere aliunde notizie e dati, non rilevabili dagli atti processuali
e concernenti fatti e situazioni formanti oggetto del suo accertamento, quando
ciò sia necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli. Dette
indagini possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice
purché ne siano indicate le fonti, in modo che le parti siano messe in grado di
effettuarne il controllo, a tutela del principio del
contraddittorio (cfr. Trib. Brescia
11.9.2020, conforme a Cass. 12921/2015), con l’unico limite
costituito dal divieto per il consulente di sostituirsi alla parte ricercando
dati che costituiscono materia di onere di allegazione e di prova. Peraltro,
il C.T.U. può estendere l’esame a documenti non acquisiti al processo, quando
l’esistenza di questi risulti logicamente plausibile sulla base degli elementi
forniti dalle parti o desumibili dalla stessa indagine tecnica (Cass. 877/1982).

Il credito per imposte anticipate e il fondo per imposte
differite non costituiscono voci omogenee, differendo per presupposti, natura e
finalità, restando quindi soggette al generale divieto di compensi di partite
previsto dall’ultimo comma dell’art. 2423-ter c.c.. Pertanto, secondo il
principio di chiarezza, le due voci debbono essere mantenute distinte, affinché
il lettore possa avere contezza dei diversi fatti contabilmente rilevanti alla
base di ciascuna rilevazione. 

La dichiarata nullità della delibera di approvazione del
bilancio si riverbera in concreto sulla validità della contestuale delibera di
destinazione dell’utile dell’esercizio: una volta accertato che il risultato
dell’esercizio non coincide con quello assunto come presupposto della delibera,
anche quest’ultima non può che essere dichiarata nulla (Trib. Milano,
13.1.1983, F.it. 84, I, 1068) per impossibilità dell’oggetto.

L’eventuale discrasia tra quanto riportato nel verbale e
la realtà materiale dei fatti, soprattutto nel caso di fatti marginali (quali
la presenza di persone estranee alla compagine sociale) o valutativi (quale la
dichiarazione della previa regolare comunicazione) non pare costituire
un’autonoma causa di invalidità della delibera, essendo comunque necessario
verificare se il fatto materiale non rappresentato o non correttamente
rappresentato (che dovrà in ogni caso essere provato) sia tale da determinarne
l’invalidità (Trib. Brescia 9.10.2020).

La deliberazione di approvazione del bilancio d’esercizio
di una società, adottata dall’assemblea convocata oltre la scadenza del termine
legale di centoventi giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale, è pienamente
valida anche nel caso in cui non sussistano le condizioni che, a norma
dell’ultimo comma dell’art. 2364 c.c., possono giustificare e fondare la
proroga del termine legale (Cass. civ., 14.8.1997, n. 7623).

Principi espressi in sede di impugnazione da parte dei soci di
minoranza di una s.r.l. di talune delibere di approvazione del bilancio e di
destinazione dell’utile della società, della delibera sulla conferma e sui
compensi dell’amministratore unico, nonché di verbali dell’assemblea.

(Massime a cura di Lorena Fanelli)