Tribunale di Brescia, sentenza del 12 ottobre 2023, n. 2584 – società a responsabilità limitata, concorrenza, clausola di restrizione della concorrenza, trasferimento di partecipazioni sociali

Alla luce di una interpretazione secondo buona fede del divieto di concorrenza, previsto in una clausola contenuta in un contratto per l’ipotesi di trasferimento della partecipazione sociale e cessazione del ruolo attivo all’interno della società, la manifestazione dell’impegno alla pronta cessazione dell’attività concorrenziale, seguita dalla immediata messa in liquidazione volontaria e cancellazione dal Registro delle Imprese della società concorrente, rappresenta idonea correzione alla violazione anche laddove siano superati i termini stabiliti dalla clausola, purché le tempistiche siano coerenti, tenuto anche conto del periodo feriale, con il pronto adeguamento alla richiesta.

La mancata chiusura del sito web non costituisce prova della continuazione “de facto” dell’attività di impresa ad opera della società cancellata.

Principi espressi in caso di rigetto della domanda promossa da una società volta ad ottenere, a seguito del trasferimento della partecipazione sociale e delle dimissioni dalla carica di consigliere da parte del convenuto, la condanna di quest’ultimo al pagamento della penale pattuita per la violazione del divieto di concorrenza.

(Massime a cura di Vanessa Battiato)




Tribunale di Brescia, sentenza del 4 settembre 2023, n. 2206 – contratti di finanziamento ad esecuzione frazionata, interessi usurai, spese di assicurazione, T.E.G., prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito

La stipula di un contratto di mutuo, salva diversa volontà delle parti, comporta l’obbligo del mutuatario di corrispondere gli interessi al mutuante, purtuttavia l’art. 1815, co. 2, c.c. reca una sanzione di gratuità del finanziamento in caso di pattuizione di interessi usurai. La valutazione della natura usuraria del contratto di mutuo — secondo le dirimenti indicazioni fornite dell’art. 644, co.  4, c.p., secondo il quale “per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito” — deve necessariamente considerare, tra le altre, anche le spese sostenute dal debitore per far fronte ai costi assicurativi necessari ad ottenere il credito, essendo, all’uopo, sufficiente che gli stessi risultino collegati alla concessione dello stesso. La sussistenza del collegamento può essere dimostrata con qualunque mezzo di prova ed è presunta nel caso di contestualità tra la spesa di assicurazione e l’erogazione del mutuo (cfr. Cass. n. 8806/2017; Cass. n. 3025/2022; Cass. n. 17466/2020; Cass. n. 22458/2018).

Ai fini del calcolo del T.E.G. (tasso effettivo globale) del singolo rapporto di credito e della conseguente (eventuale) valutazione di usurarietà degli interessi applicati, è irrilevante la circostanza che la Banca d’Italia, all’epoca della stipulazione del rapporto, non avesse inserito i costi assicurativi nelle Istruzioni per la rilevazione del T.E.G.M. (Tasso effettivo globale medio); il fatto che i decreti ministeriali di rilevazione del T.E.G.M. non includano, nel calcolo di esso, una particolare voce — che, secondo la definizione data dall’art. 644, co.  4, c.p., dovrebbe, invece, essere inserita — rileva, semmai, ai soli fini della verifica di conformità alla legge dei decreti stessi, quali provvedimenti amministrativi.  Ne consegue il dovere del giudice di prendere atto della illegittimità di detti decreti e di disapplicarli qualora ravvisi che essi omettano di considerare fattori che la legge, di contro, impone di valutare.

In materia di contratti di finanziamento ad esecuzione frazionata la prescrizione decennale della domanda volta alla ripetizione di un indebito decorre non già dalla sottoscrizione del contratto ovvero dai singoli anticipi o pagamenti rateali, bensì dall’estinzione del rapporto.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio promosso dal sottoscrittore di un contratto di finanziamento mediante cessione del quinto della pensione volto a domandare al Tribunale di accertare e dichiarare la nullità della clausola contrattuale relativa alla pattuizione degli interessi, stante il superamento della soglia di usura, con la conseguente applicazione della sanzione prevista dall’art. 1815, co. 2, c.c., e di accertare altresì il diritto dell’attore a vedersi, per l’effetto, rimborsati i costi del credito (escluse le somme relative ad imposte o tasse), le commissioni ed i costi assicurativi, oltre agli interessi indebitamente versati.

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, sentenza del 1° settembre 2023, n. 2200 – legittimazione attiva, indebito oggettivo, mutuo fondiario e mutuo di scopo, indicatore sintetico dei costi, anatocismo, onere della prova

In materia di mutuo fondiario, in mancanza di uno scopo convenzionale predeterminato, la destinazione delle somme erogate dall’istituto mutuante non attiene al momento genetico del contratto e, pertanto, non è necessario che esse siano destinate a una specifica finalità che il mutuatario sia tenuto a perseguire, né l’istituto mutuante deve controllare l’utilizzazione che viene fatta della somma erogata (cfr. Cass. n. 317/2001, Cass. n. 9511/2007, Cass. n. 4792/2012).

Nel mutuo di scopo, sia esso legale o convenzionale, la destinazione delle somme mutuate entra nella struttura del negozio incidendo sulla causa del contratto fino a coinvolgere direttamente l’interesse dell’istituto finanziatore; in quest’ottica l’impegno del mutuatario a realizzare tale destinazione assume rilevanza corrispettiva, non essendo invece indispensabile che il richiamato interesse del finanziatore sia bilanciato in termini sinallagmatici, oltre che con la corresponsione della somma mutuata, anche mediante il riconoscimento di un tasso di interesse agevolato al mutuatario (cfr.Cass. n. 15929/2018, Cass. n. 25793/2015).

L’erronea indicazione dell’ISC non può comportare la nullità della clausola relativa agli interessi, con applicazione del tasso sostitutivo ex art. 117 comma TUB, in quanto essa non determina nessuna incertezza sul contenuto effettivo del contratto stipulato e del tasso di interesse effettivamente pattuito, avendo l’ISC finalità informativa e non di condizione economica applicata al rapporto, potendo al più comportare il risarcimento dell’eventuale danno risentito dal mutuatario.

In riferimento al contratto di mutuo la previsione di un rimborso con rata fissa costante, per effetto del piano di ammortamento concordato (c.d. “alla francese”), non implica, in via automatica, alcun fenomeno di capitalizzazione degli interessi, prevedendo che in relazione a ciascuna rata fissa la quota di interessi ivi inserita sia calcolata non sull’intero importo mutuato bensì di volta in volta sulla quota capitale via via decrescente per effetto del pagamento delle rate precedenti, con conseguente esclusione del fenomeno anatocistico vietato dall’art. 1283 c.c.

In tema di ripetizione dell’indebito opera la normale distribuzione dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., per cui l’attore è tenuto a dimostrare sia l’avvenuto pagamento sia la mancanza di una causa che lo giustifichi (cfr.Cass. n. 24948/2017); principio che trova applicazione anche ove si controverta l’obbligazione restitutoria dipendente dalla nullità di singole clausole contrattuali (cfr.Cass. n. 7501/2012).

Quando il contratto di conto corrente è stato stipulato in forma scritta, l’attore che alleghi la mancata valida pattuizione dell’interesse debitorio è onerato di dar prova dell’assenza della causa debendi attraverso la produzione in giudizio del documento contrattuale ed egli non potrà invocare il principio di vicinanza della prova al fine di addossare alla banca l’onere su di sé gravante, tenuto conto che tale principio non trova applicazione quando ciascuna delle parti acquisisce la disponibilità del documento al momento della sua sottoscrizione (cfr.Cass. n. 20490/2022).

La produzione degli estratti conto, a partire dalla data di apertura del contratto di conto corrente sino alla data della domanda di chiusura del conto, consentono di pervenire all’esatta determinazione dell’eventuale credito del correntista ed alla quantificazione degli importi da espungere dal conto, essendo, per contro, insufficienti gli estratti conto scalari, che offrendo una ricostruzione solo sintetica del rapporto di conto corrente, senza distinzione delle singole annotazioni e operazioni, conducono a risultati approssimativi o, anche, inidonei al calcolo dell’esatto ammontare del conto (cfr. Corte App. Torino n. 590/2022).

Principi espressi nell’ambito di un giudizio promosso dal legale rappresentante di una società (anche in proprio) al fine di accertare la nullità di un contratto di mutuo fondiario con prestazione di garanzia ipotecaria, nonché la parziale nullità del contratto di conto corrente.

In particolare, a fondamento della propria domanda l’attore deduceva la simulazione del contratto di mutuo fondiario, e, quindi, la sua inefficacia, poiché privo di causa, non fondiario, usurario e indeterminato; in relazione al contratto di conto corrente, invece, deduceva il superamento del tasso soglia, la mancata pattuizione degli interessi ultra-legali e le difformità tra i tassi comunicati negli estratti conto e quelli effettivamente applicati.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 28 agosto 2023, n. 1334 – assegno bancario, trafugamento, responsabilità della banca per l’incasso da parte di soggetti non legittimati

Non incorre in nessuna responsabilità la banca che, in sede di apertura di un libretto di deposito finalizzato al successivo accredito su di questo di somme portate da assegni di traenza trafugati, abbia esperito correttamente le procedure di controllo dell’identità del richiedente richieste dalla relativa normativa, ovvero mediante il confronto tra le sembianze del portatore e quelle della fotografia annessa al documento di identità. La circostanza che il soggetto portatore dell’assegno non abbia in precedenza intrattenuto rapporti negoziali con la banca, o che abbia residenza in diverso comune, non è certo atta a imporre alla banca un più pregnante obbligo di controllo allorché la prima verifica summenzionata abbia dato esito positivo.

Princìpi espressi nel contesto di un appello proposto avverso la decisione del giudice di prime cure che aveva integralmente rigettato l’azione in primo grado. In particolare, l’azione aveva ad oggetto l’accertamento della responsabilità di una banca per il pagamento di assegni trafugati e la condanna della stessa al risarcimento del danno patito da parte attrice. Il giudice di seconde cure ha rigettato integralmente l’appello confermando la sentenza del giudice di prime cure.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 21 agosto 2023, n. 2161 – società semplice, diritto del socio a percepire utili e approvazione del rendiconto, art. 2262 c.c., nullità di clausola compromissoria

In materia di società semplice, il diritto del socio a percepire la sua quota di utili è subordinato all’approvazione del rendiconto (sostanzialmente equivalente ad un bilancio di esercizio), in conformità all’art. 2262 c.c. La presentazione di dichiarazioni fiscali o il versamento di imposte non possono surrogare tale rendiconto, essendo la predisposizione ed approvazione del rendiconto medesimo presupposto di liquidità del credito del socio. Pertanto, il credito azionato monitoriamente non può ritenersi liquido ed esigibile in assenza di tale approvazione.

Princìpi espressi in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, richiesto da un socio contro la società per il pagamento di un credito derivante da utili asseritamente non distribuiti. Il Tribunale ha respinto l’eccezione di carenza di giurisdizione sollevata dalla parte opponente in base alla clausola compromissoria prevista dall’atto costitutivo, la quale prevedeva che “… ciascuna delle parti nomini un proprio arbitro, ed il terzo verrà nominato dai primi due …”, ritenendola nulla per violazione di norme imperative, in quanto non rispondente ai requisiti di cui agli artt. 223-bis e 223-duodecies c.p.c. Inoltre, i patti sociali prevedevano una particolare modalità di approvazione del bilancio statuendo che “alla fine di ogni esercizio i soci, congiuntamente, procederanno alla redazione dell’inventario, sulle risultanze del quale e della contabilità sociale, redigeranno il resoconto della gestione ed il bilancio”. Ciò non era avvenuto nel caso di specie, dal momento che un solo socio aveva la gestione ed il controllo degli affari sociali.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Tribunale di Brescia, sentenza del 2 agosto 2023, n. 1997 – accertamento negativo di contraffazione di brevetti, modelli di utilità, modelli e disegni industriali

In materia di proprietà intellettuale l’art. 120, comma 6, c.p.i. riconosce il c.d. forum commissi delicti quale criterio di competenza territoriale alternativo (e non subordinato) al criterio generale del luogo di residenza o domicilio del convenuto. 

Il criterio di competenza previsto dall’art. 120, comma 3, c.p.i., ossia il criterio del luogo in cui è stato eletto domicilio al momento della registrazione della privativa, trova applicazione laddove venga fatta valere una questione di validità dei titoli di privativa, e non un accertamento negativo di contraffazione.

Il principio di prevalenza del foro del domicilio eletto dal convenuto di cui al comma 3 dell’art. 120 c.p.i. vale solo per i fori indicati al precedente comma 2 del medesimo articolo (residenza, domicilio, dimora del convenuto), essendo invece concorrente con il foro previsto dal successivo comma 6 (applicabile anche alle azioni di accertamento negativo ai sensi del comma 6-bis del medesimo articolo), che prevede anche la competenza del giudice del luogo di commissione dei fatti di contraffazione o di concorrenza sleale (cfr. Cass. civ. Sez. VI – 1 Ord., 17/11/2021, n. 35056).

In tema di contraffazione di brevetti per invenzioni industriali posta in essere per equivalenza ai sensi dell’art. 52, comma 3 bis, c.p.i., il giudice, nel determinare l’ambito della protezione conferita dal brevetto, non deve limitarsi al tenore letterale delle rivendicazioni, interpretate alla luce della descrizione e dei disegni, ma deve contemperare l’equa protezione del titolare con la ragionevole sicurezza giuridica dei terzi, e pertanto deve considerare ogni elemento che sia sostanzialmente equivalente ad uno indicato nelle rivendicazioni; a tal fine può avvalersi di differenti metodologie dirette all’accertamento dell’equivalenza della soluzione inventiva, come il verificare se la realizzazione contestata permetta di raggiungere il medesimo risultato finale adottando varianti pive del carattere di originalità, perché ovvie alla luce delle conoscenze in possesso del tecnico medio del settore che si trovi ad affrontare il medesimo problema; non può invece attribuire rilievo alle intenzioni soggettive del richiedente del brevetto, sia pur ricostruite storicamente attraverso l’analisi delle attività poste in essere in sede di procedimento amministrativo diretto alla concessione del brevetto (cfr. Cass. civ. Sez. I Ord., 07/02/2020, n. 2977).

In materia di proprietà industriale, la verifica circa la sussistenza di una contraffazione di un modello o disegno deve essere condotta valutando se il successivo modello, in tesi contraffattorio, susciti nel consumatore informato di riferimento la stessa impressione generale del precedente modello oggetto di privativa, tenuto conto della combinazione delle caratteristiche estetiche, avuto riguardo al settore merceologico, che potrà essere più o meno affollato da prodotti simili.

Principi espressi nell’ambito di un giudizio promosso da una società a responsabilità limitata, attiva nel settore della produzione e commercializzazione di armadi stagionatori e impianti frigoriferi per vari usi, volto all’accertamento negativo dell’interferenza di alcuni suoi prodotti con i titoli di privativa industriale dei convenuti (società a responsabilità limitata convenuta e persona fisica titolare di licenza d’uso) i quali, eccepita l’incompetenza territoriale del tribunale di Brescia (avendo eletto domicilio al momento della registrazione della privativa ai sensi dell’art. 120 comma 3 c.p.i.), domandavano l’inibitoria alla fabbricazione, la pronuncia dell’ordine di ritiro dal commercio, il risarcimento dei danni derivanti dalla pretesa contraffazione, assistiti da penale, nonché la pubblicazione della sentenza.

(Massime a cura di Vanessa Battiato)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 24 luglio 2023, n. 1253 – contratti di leasing, usura, interessi moratori, TAEG, chiarezza e precisione del contenuto del contratto, clausola penale, non applicabilità della mediazione obbligatoria ex art. 5 D.Lgs. 28/2010 al leasing immobiliare

Anche ai contratti di leasing immobiliare può farsi applicazione del principio di diritto espresso per i contratti bancari secondo cui il tasso annuo effettivo globale (TAEG) non rientra nel novero dei tassi, prezzi e altre condizioni la mancata indicazione scritta dei quali rende parzialmente nullo il contratto bancario, con conseguente sostituzione automatica delle relative previsioni ex art. 117, D. Lgs. 385/1993. Ciò, in quanto il TAEG è solo un indicatore sintetico del costo complessivo dell’operazione, che comprende anche gli oneri amministrativi e di gestione. Nondimeno, l’applicazione, relativamente al TAEG, di condizioni più sfavorevoli di quelle pubblicizzate può dar luogo a responsabilità contrattuale o precontrattuale della banca, determinando da parte sua la violazione di regole di condotta (Cass. n. 4597/2023).

Anche gli interessi moratori sono suscettibili di essere qualificati come usurari. Pertanto, allorquando gli stessi siano convenuti a un tasso che superi la soglia di usura, non saranno dovuti. La misurazione di tale tasso-soglia deve effettuarsi sulla base del tasso medio statisticamente rilevato negli appositi decreti ministeriali vigenti all’epoca della stipula del relativo contratto. La dichiarazione del superamento del tasso-soglia di usura determina la non-debenza dei soli interessi del tipo di interessi che hanno infranto tale soglia sicché, ove l’interesse corrispettivo sia lecito e quello moratorio sia usurario, solamente quest’ultimo sarà illecito e non dovuto. In ogni caso, caduta la clausola degli interessi moratori, permane un danno per il creditore insoddisfatto, d’onde questi avrà diritto a percepire comunque interessi di mora nella stessa misura di quelli corrispettivi, ai sensi dell’articolo 1224 c.c., purché essi siano stati lecitamente convenuti (Cass. SS.UU. n. 19597/2020).

È indirizzo pacifico quello per cui le liti in materia di leasing immobiliare non siano soggette all’obbligo di esperire un tentativo di mediazione ai sensi dell’art. 5, D. Lgs. 28/2010.

I princìpi esposti sono stati espressi in relazione a una controversia riguardante la stipulazione, da parte di una società, di un contratto di leasing immobiliare. La società concedente, per mezzo di una mandataria, aveva agito in giudizio ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c. per ottenere il rilascio dell’immobile attesa l’intervenuta scadenza del contratto e il mancato esercizio, da parte dell’utilizzatrice, del relativo diritto di acquisto finale. Costituitasi nel giudizio, l’utilizzatrice eccepiva l’improcedibilità della domanda per omesso esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione. Nel merito, l’utilizzatrice eccepiva l’eccessività degli importi pattuiti a titolo di penale, dei quali chiedeva la riduzione, e denunciava l’usurarietà degli interessi moratori convenzionali. Accolta con ordinanza la domanda della concedente – seppur sul presupposto, non allegato da alcuna delle parti, dell’intervenuta risoluzione del contratto – e condannata l’utilizzatrice al rilascio dell’immobile, quest’ultima impugnava il provvedimento domandando il rigetto delle domande proposte in prime cure e, in via subordinata, la riduzione della penale ai sensi dell’art. 1384 c.c., reiterando altresì la propria eccezione di usurarietà degli interessi di mora. Nel dettaglio, l’impugnante spiegava plurime doglianze e, segnatamente: (i) reiterava l’eccezione preliminare di omesso esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione; (ii) denunciava la violazione da parte del Giudice di prime cure del principio dispositivo, nella misura in cui questi aveva pronunciato la risoluzione del contratto pur in assenza di specifica domanda; (iii) l’usurarietà degli interessi moratori convenuti nel contratto in contesa; (iv) l’assenza di una chiara e precisa indicazione del TAEG nel testo del contratto; (v) l’eccessività della penale pattuita, della quale la concedente avrebbe preannunciato di volersi valere in un separato giudizio. La Corte, respinta l’eccezione preliminare e rettificata la decisione di prime cure dichiarando l’estinzione del contratto (non per risoluzione, bensì) per naturale scadenza, ha comunque rigettato le doglianze di merito ritenendo non provato né allegato il pagamento di interessi moratori da parte dell’utilizzatore, rilevando la non contestazione della scadenza del contratto e la genericità delle allegazioni fattuali in materia di usurarietà degli interessi.

(Massime a cura di Leonardo Esposito)




Tribunale di Brescia, sentenza del 29 giugno 2023, n. 1618 – società a responsabilità limitata, contratto di compravendita di quote, aliud pro alio, legittimazione passiva degli amministratori

L’amministratore di una società a responsabilità limitata, anche laddove ne sia socio, non ha legittimazione passiva rispetto all’azione di risoluzione di un contratto stipulato dalla società, alla conclusione del quale egli ha partecipato quale mero legale rappresentante della società medesima. Al contrario, il socio amministratore di una società di persone è titolare di detta legittimazione passiva in sede di cognizione ordinaria, dal momento che la sua responsabilità è personale e diretta, benché di carattere sussidiario, operando il beneficium excussionis di cui all’art. 2304 c.c. solo in sede esecutiva.

Le partecipazioni sociali costituiscono beni di “secondo grado”, in quanto non sono del tutto distinte e separate dai beni compresi nel patrimonio sociale. Questi ultimi, pertanto, non possono essere considerati totalmente estranei all’oggetto di un contratto di cessione di dette quote, sia qualora le parti di esso vi abbiano fatto specifico riferimento mediante la previsione di garanzie ad hoc, sia qualora l’affidamento del cessionario al riguardo debba ritenersi giustificato alla stregua del principio di buona fede. Conseguentemente, la differenza tra l’effettiva consistenza quantitativa del patrimonio sociale rispetto a quella indicata nel contratto può integrare la mancanza delle qualità essenziali della cosa giustificando la risoluzione ex art. 1497 c.c. Alla risoluzione ordinaria ex art. 1453 c.c. potrebbe, invece, ricorrersi nel caso in cui i beni siano assolutamente privi della capacità funzionale a soddisfare i bisogni dell’acquirente, quindi “radicalmente diversi” da quelli pattuiti (Cass. n. 22790/2019; Cass. n. 18181/2004). In questo contesto, la vendita di aliud pro alio sussiste allorquando “la cosa venduta appartenga ad un genere del tutto diverso o presenti difetti che le impediscano di assolvere alla sua funzione naturale o a quella ritenuta essenziale dalle parti” (Cass. n. 22790/2019; Cass. n. 6596/2016; Cass. n. 20996/2013).

Prìncipi espressi nell’ambito di un giudizio promosso da parte della società acquirente per ottenere, tra l’altro, la risoluzione del contratto di cessione di una partecipazione totalitaria in una s.r.l., adducendo che si fosse trattato di una vendita di aliud pro alio, dal momento che le tre centrali idroelettriche facenti parte del patrimonio della società acquisita avrebbero avuto, secondo la ricostruzione attorea,  una capacità produttiva di gran lunga inferiore a quella promessa in sede di preliminare.

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Tribunale di Brescia, sentenza del 26 aprile 2023, n.954 – azione di responsabilità ex art. 146 L.F.: applicabilità della prorogatio al collegio sindacale anteriforma 2003, esclusione di decadenza del collegio sindacale per ‘omissione concludente’, quantificazione del danno in caso di transazioni, graduazione di responsabilità fra ‘azione’ degli amministratori ed ‘omissione’ dei sindaci.

L’operatività generale dell’istituto della prorogatio in epoca anteriore alla riforma del diritto societario, ben può essere avallata sulla scorta dell’applicazione analogica dell’art. 2385 c.c., ai sensi del quale: a) la rinuncia dell’amministratore al suo ufficio ha effetto immediato soltanto nel caso in caso rimanga in carica la maggioranza del consiglio di amministrazione, o, in difetto, dal momento in cui la maggioranza del consiglio venga ricostituita con l’accettazione dei nuovi amministratori (primo comma), nonché, b) la cessazione dall’incarico gestorio per scadenza del termine ha effetto dal momento in cui il consiglio di amministrazione venga ricostituito. La prorogatio trova applicazione sia in caso di dimissioni, sia necessariamente anche per l’ipotesi della scadenza naturale del mandato dei sindaci in epoca anteriore al 2003, posto che la ratio dell’istituto – che assume dunque portata generale – è quella di assicurare la continuità del funzionamento degli organi della società, e come tale è applicabile anche all’organo preposto al controllo e alla vigilanza, considerato nella sua interezza. In definitiva, quindi, la liberazione dagli obblighi di vigilanza in capo ai sindaci non consegue automaticamente, nemmeno nel vigore della precedente previsione dell’art. 2400, comma 1 c.c., alla scadenza del mandato, ma soltanto dall’assunzione degli stessi obblighi da parte dei nuovi componenti del collegio sindacale, senza che si potessero ammettere soluzione di continuità.

La fattispecie di decadenza dei sindaci dal loro incarico assolve alla funzione di evitare il protrarsi di situazioni ingiustificate di inerzia che inevitabilmente minerebbero la continuità del funzionamento dell’organo sindacale nell’esercizio dell’attività di controllo. Conseguentemente, la decadenza non può essere utilmente invocata dal sindaco – quale modalità di cessazione dell’incarico “per omissione concludente”, di fatto alternativa alle dimissioni – per sottrarsi agli obblighi incombenti ex art. 2407 c.c.

La stipula di transazione tra il creditore e taluno dei condebitori solidali scioglie la solidarietà tra questi ultimi, in modo tale che il debito complessivamente gravante sugli altri condebitori si riduce in misura corrispondente alle quote interne dei condebitori transigenti, a meno che la somma corrisposta a titolo transattivo non sia stata addirittura superiore alle quote interne degli stessi transigenti, nel qual caso la riduzione del debito complessivo opera in misura corrispondente a quanto da questi pagato.

Va tenuta in debita considerazione la diversa incidenza, nella causazione del danno complessivo, da un lato dell’azione degli amministratori – consistente nella prosecuzione dell’attività d’impresa secondo modalità non conservative, foriera di significative perdite economiche – e dall’altro dell’omissione dei sindaci, consistente nel non aver rilevato l’erosione del capitale sociale e nel non aver adottato i rimedi necessari per contenere l’aggravarsi del dissesto, concretamente perpetrato dagli amministratori. Sulla base di tale rilievo, in via equitativa si reputa che nei rapporti interni tra amministratori e sindaci – e nei confronti del fallimento, una volta sciolta la solidarietà a fronte degli atti transattivi – gli amministratori debbano rispondere in misura pari a 2/3, mentre i sindaci nella misura residua di 1/3 del danno complessivo cagionato fino alla data di dimissioni dei sindaci. Al fine di pervenire alla determinazione della quota ideale di responsabilità di ciascun convenuto, è necessario altresì precisare che nei rapporti interni tra i componenti del medesimo organo, ciascuno di loro risponde in misura eguale agli altri.

(Massime a cura di Ambra De Domenico)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 26 aprile 2023 n. 710 – causa del contratto di fideiussione e del contratto autonomo di garanzia, applicabilità dell’art. 1957 c.c. nei rapporti consumeristici

Il tratto di cardinale distinzione tra il contratto di fideiussione e il contratto autonomo di garanzia (c.d. Garantievertrag) è costituito dalla mancanza del carattere dell’accessorietà dell’obbligazione, propria del primo contratto e non del secondo. La causa concreta del contratto autonomo è, infatti, quella di trasferire integralmente da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sicché l’obbligazione del garante è qualitativamente diversa da quella garantita, poiché non necessariamente sovrapponibile ad essa come invece nella fideiussione (Cass. SS.UU. n. 3947/2010).  Infatti, nel caso di fideiussione, la richiesta di adempimento è rivolta al garante anziché all’obbligato, mentre nel caso di garanzia autonoma, a prescindere dalla natura dell’inadempimento e dalla sua maggiore o minore gravità, la richiesta ha ad oggetto una prestazione diversa, di regola costituita da un indennizzo predeterminato svincolato dalla prestazione oggetto del rapporto fondamentale.

Il termine decadenziale di cui all’art. 1957 c.c., relativo all’azione del creditore nei confronti del fideiussore, si riferisce alla scadenza dell’obbligazione garantita, a decorrere dalla quale va computato il semestre previsto dalla norma menzionata.

Nel contratto di fideiussione, come da giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, i requisiti soggettivi per l’applicazione della disciplina consumeristica dipendono dalle parti di esso e non dal tipo di contratto (CGUE, 19 novembre 2015, in causa C-74/15, Tarcau, e 14 settembre 2016, in causa C-534/15, Dumitras). Dunque, alla persona fisica che stipuli il contratto di garanzia per finalità estranee alla propria attività professionale – nel senso che la prestazione della fideiussione non costituisce atto espressivo di tale attività, né è strettamente funzionale al suo svolgimento – si applicherà la disciplina consumeristica di favore (Cass. SS.UU., 27/02/2023, n. 5868).

La clausola che contempla la rinuncia ad avvalersi della decadenza di cui all’art. 1957 c.c. rientra tra le clausole di cui all’art. 33, c. 2, lett. t) del d.lgs. n. 206/2005 (c.d. Codice del Consumo). Dunque, la clausola in questione potrà sì risultare idonea a derogare la disciplina dispositiva di cui all’art. 1957 c.c. anche nel caso di rapporto consumeristico, ma solo se oggetto di specifica trattativa individuale tra le parti, nel rispetto della disciplina prevista a favore del consumatore (art. 34, c. 4, Codice del Consumo).

Princìpi espressi nel contesto di un giudizio di appello proposto avverso la decisione del giudice di prime cure che aveva integralmente rigettato l’azione in primo grado. Parte ricorrente in primo grado si era opposta a un decreto ingiuntivo, emesso a favore di una banca avverso due fideiussori di un contratto di mutuo inadempiuto, disconoscendo le firme in calce alla fideiussione, nonché eccependo la nullità del mutuo, e conseguentemente della fideiussione, per violazione del limite di finanziabilità e, infine, la decadenza dalla fideiussione ex art.1957 c.c. Il giudice di seconde cure ha rigettato integralmente l’appello confermando la sentenza di primo grado.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)