Tribunale di Brescia, sentenza del 13 maggio 2024, n. 1917 – credito di firma, esposizione contestata, erronea/illegittima segnalazione in Centrale Rischi, risarcimento del danno, nesso di causalità

In forza delle indicazioni contenute nella circolare n. 139 dell’11.2.1991 della Banca d’Italia, la scadenza della fideiussione integra evento estintivo del rapporto di garanzia legittimante l’azzeramento dell’accordato operativo, sicché la Banca è obbligata a censire l’azzeramento dell’“accordato” e “dell’accordato operativo”, modificando in tal modo la segnalazione iniziale. In presenza di accertamento giudiziale dotato di indiscutibile coerenza e chiarezza, e di impugnazioni della soccombente fondate su argomenti privi di supporto probatorio ed espressione di un contegno processuale contraddittorio e ondivago, la condotta della banca di voler attendere il passaggio in giudicato della declaratoria di inefficacia della garanzia prima di procedere alla rettifica del censimento in coerenza con il suddetto accertamento giudiziale non può ritenersi conforme ai doveri dell’intermediario in materia di segnalazioni in Centrale Rischi e al generale canone della buona fede: scaduto il termine di tale garanzia senza che nelle more sia stato efficacemente esercitato il diritto di pagamento da parte della beneficiaria, il mantenimento dell’importo dell’utilizzato non trova giustificazione alcuna. Non può dunque trovare accoglimento la tesi per cui, a fronte dell’azzeramento dell’accordato, la Banca possa mantenere l’originario “utilizzato” sino al passaggio in giudicato, anche nei confronti della beneficiaria, della sentenza che ha dichiarato scaduta e inefficace la garanzia, sostenendo che sino a tale evento non si sia verificata alcuna delle condizioni previste dal par. 8, sez. I, cap. II della circolare 139 della Banca d’Italia per il relativo azzeramento.

In presenza di contenzioso promosso dal cliente, il censimento del credito di firma come “non contestato” appare gravemente contrario ai canoni di accuratezza, completezza e pertinenza delle informazioni sanciti dalla normativa di settore, a nulla rilevando che nelle plurime diffide inviate alla Banca la cliente abbia omesso uno specifico riferimento alla erronea rilevazione anche dello stato del rapporto. Con il tredicesimo aggiornamento entrato in vigore il 4 marzo 2010, la circolare n. 139 dell’11.2.1991 della Banca d’Italia ha previsto espressamente che l’intermediario è tenuto a dar conto dell’esistenza di una contestazione concernente la segnalazione, ogni qual volta il cliente abbia sollevato eccezioni promuovendo un giudizio davanti ad un’autorità terza, a prescindere dalla valutazione circa la fondatezza delle eccezioni fatte valere. In tal modo, gli intermediari che accedono al sistema centralizzato, oltre ad avere evidenza della segnalazione del credito come sofferenza o come credito scaduto o sconfinante, apprendono della pendenza di una contestazione relativa alla posizione segnalata e, conseguentemente, della possibilità che il presupposto su cui detta segnalazione si fonda sia, in realtà, insussistente. La giurisprudenza oramai consolidata riconosce indubbia rilevanza alla evidenza di eventuale “contestazione” nelle segnalazioni effettuate dagli istituti di credito, chiarendo come detto stato del rapporto consenta di arguire che il mancato rientro (o gli altri eventi idonei a rappresentare un rischio) è dovuto non necessariamente ad una negativa valutazione dell’affidabilità del cliente, potendo piuttosto dipendere dalla eventualità che la pretesa non sia fondata.

Il nesso causale in tema di responsabilità civile, contrattuale o extracontrattuale  è regolato dai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per i quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della “condicio sine qua non”), nonché dal criterio della c.d. causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiono – ad una valutazione “ex ante” – del tutto inverosimili.

La valutazione del nesso causale in sede civile presenta, rispetto all’accertamento penale, notevoli discrepanze in relazione al regime probatorio applicabile: a differenza di quanto richiesto in sede penale (ove vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”), nel processo civile vige la regola della “preponderanza dell’evidenza” (altrimenti definita del “più probabile che non”), in coerenza con il principio eurounitario della effettività della tutela giurisdizionale.

L’accertamento del nesso causale in sede civile richiede la concorrente valutazione, da un lato, della (astratta) idoneità della condotta a cagionare il danno lamentato, dall’altro, della (effettiva) correlazione con l’evento in concreto verificatosi, apprezzata sulla scorta delle circostanze esistenti nella loro irripetibile singolarità per come emergenti dall’istruzione probatoria condotta nel processo, sicché non potrà ritenersi sussistente il nesso di causalità tra la condotta illegittima e il pregiudizio prospettato come sua possibile e normale conseguenza, qualora essa, pur se astrattamente idonea a provocare il danno lamentato, non ne costituisca l’effettiva ragione, per essere questo riconducibile in concreto – secondo la valutazione del giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della inadeguatezza o illogicità della motivazione – ad un fatto diverso, idoneo a interrompere il nesso di causalità.

Tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima, o in via indiretta e remota, salvo il temperamento contemplato al capoverso dell’art. 41 c.p., secondo cui la causa prossima sufficiente da sola a produrre l’evento esclude il nesso eziologico fra questo e le altre cause antecedenti, facendole scadere al rango di mere occasioni; pertanto, al fine di escludere che un determinato fatto abbia concorso a cagionare un danno, non basta affermare che il danno stesso avrebbe potuto verificarsi anche in assenza di quel fatto, ma occorre dimostrare, avendo riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, che il danno si sarebbe egualmente verificato senza quell’antecedente.

Qualora la produzione dell’evento di danno risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale (o comunque di un fattore estrinseco al comportamento umano imputabile), l’autore del fatto risponde, in base ai criteri della causalità naturale, di tutti i danni che ne sono derivati, non potendo, in tal caso, operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, poiché una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile (cfr. Cass. n. 5737/2023; Cass. n. 30521/2019).

Mentre sul piano della causalità materiale non rileva che i danni siano stati causati anche da eventi esterni alla condotta umana (a meno che gli stessi non siano stati sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente da tale comportamento), la concomitanza di plurimi fattori causali può incidere sulla stima del danno, ossia sul piano della causalità giuridica, legittimando una proporzionale riduzione volta a identificare il solo danno eziologicamente riferibile alla condotta presa in esame (ex multis, Cass. n. 13037/2023).

Il diritto al risarcimento in relazione ad un eventuale aggravamento che si verifichi nel corso del giudizio non configura una nuova posta risarcitoria, facendo parte della domanda originaria di risarcimento (cfr. Cass. n. 23220/2005; Cass. n. 8292/2008; Cass. n. 1281/2003).

La natura di debito di valore dell’obbligazione risarcitoria (anche derivante da responsabilità contrattuale: cfr. Cass. n. 37798/2022) impone che sull’importo liquidato vadano conteggiati gli interessi compensativi del danno derivante dal mancato tempestivo godimento dell’equivalente pecuniario del bene perduto: secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (n. 1712/1995), tali interessi decorrono dalla produzione dell’evento di danno sino al tempo della liquidazione e si calcolano sulla somma via via rivalutata nell’arco di tempo suddetto e non sulla somma già rivalutata (cfr. Cass. n. 4791/2007).

Principi espressi nell’ambito di un giudizio promosso per l’accertamento della responsabilità risarcitoria di Istituto di Credito per mancata cancellazione di posizione fideiussoria segnalata in Centrale Rischi sebbene non escussa e scaduta nonché per l’erroneo censimento quale posizione “non contestata”, sebbene la società attrice avesse censurato la pretesa della banca convenendola in giudizio.  Il Tribunale, accertata l’erronea/illegittima segnalazione in Centrale Rischi, a seguito di un rigoroso esame dell’andamento degli affidamenti della società attrice e dei possibili riflessi sui risultati dell’attività d’impresa, ha verificato e quantificato, sulla scorta dei formulati principi in materia di nesso di causalità, il pregiudizio patrimoniale effettivamente riconducibile agli inadempimenti dell’intermediario.

(Massime a cura di Ambra De Domenico)




Tribunale di Brescia, sentenza del 26 aprile 2023, n.954 – azione di responsabilità ex art. 146 L.F.: applicabilità della prorogatio al collegio sindacale anteriforma 2003, esclusione di decadenza del collegio sindacale per ‘omissione concludente’, quantificazione del danno in caso di transazioni, graduazione di responsabilità fra ‘azione’ degli amministratori ed ‘omissione’ dei sindaci.

L’operatività generale dell’istituto della prorogatio in epoca anteriore alla riforma del diritto societario, ben può essere avallata sulla scorta dell’applicazione analogica dell’art. 2385 c.c., ai sensi del quale: a) la rinuncia dell’amministratore al suo ufficio ha effetto immediato soltanto nel caso in caso rimanga in carica la maggioranza del consiglio di amministrazione, o, in difetto, dal momento in cui la maggioranza del consiglio venga ricostituita con l’accettazione dei nuovi amministratori (primo comma), nonché, b) la cessazione dall’incarico gestorio per scadenza del termine ha effetto dal momento in cui il consiglio di amministrazione venga ricostituito. La prorogatio trova applicazione sia in caso di dimissioni, sia necessariamente anche per l’ipotesi della scadenza naturale del mandato dei sindaci in epoca anteriore al 2003, posto che la ratio dell’istituto – che assume dunque portata generale – è quella di assicurare la continuità del funzionamento degli organi della società, e come tale è applicabile anche all’organo preposto al controllo e alla vigilanza, considerato nella sua interezza. In definitiva, quindi, la liberazione dagli obblighi di vigilanza in capo ai sindaci non consegue automaticamente, nemmeno nel vigore della precedente previsione dell’art. 2400, comma 1 c.c., alla scadenza del mandato, ma soltanto dall’assunzione degli stessi obblighi da parte dei nuovi componenti del collegio sindacale, senza che si potessero ammettere soluzione di continuità.

La fattispecie di decadenza dei sindaci dal loro incarico assolve alla funzione di evitare il protrarsi di situazioni ingiustificate di inerzia che inevitabilmente minerebbero la continuità del funzionamento dell’organo sindacale nell’esercizio dell’attività di controllo. Conseguentemente, la decadenza non può essere utilmente invocata dal sindaco – quale modalità di cessazione dell’incarico “per omissione concludente”, di fatto alternativa alle dimissioni – per sottrarsi agli obblighi incombenti ex art. 2407 c.c.

La stipula di transazione tra il creditore e taluno dei condebitori solidali scioglie la solidarietà tra questi ultimi, in modo tale che il debito complessivamente gravante sugli altri condebitori si riduce in misura corrispondente alle quote interne dei condebitori transigenti, a meno che la somma corrisposta a titolo transattivo non sia stata addirittura superiore alle quote interne degli stessi transigenti, nel qual caso la riduzione del debito complessivo opera in misura corrispondente a quanto da questi pagato.

Va tenuta in debita considerazione la diversa incidenza, nella causazione del danno complessivo, da un lato dell’azione degli amministratori – consistente nella prosecuzione dell’attività d’impresa secondo modalità non conservative, foriera di significative perdite economiche – e dall’altro dell’omissione dei sindaci, consistente nel non aver rilevato l’erosione del capitale sociale e nel non aver adottato i rimedi necessari per contenere l’aggravarsi del dissesto, concretamente perpetrato dagli amministratori. Sulla base di tale rilievo, in via equitativa si reputa che nei rapporti interni tra amministratori e sindaci – e nei confronti del fallimento, una volta sciolta la solidarietà a fronte degli atti transattivi – gli amministratori debbano rispondere in misura pari a 2/3, mentre i sindaci nella misura residua di 1/3 del danno complessivo cagionato fino alla data di dimissioni dei sindaci. Al fine di pervenire alla determinazione della quota ideale di responsabilità di ciascun convenuto, è necessario altresì precisare che nei rapporti interni tra i componenti del medesimo organo, ciascuno di loro risponde in misura eguale agli altri.

(Massime a cura di Ambra De Domenico)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 26 aprile 2023 n. 710 – causa del contratto di fideiussione e del contratto autonomo di garanzia, applicabilità dell’art. 1957 c.c. nei rapporti consumeristici

Il tratto di cardinale distinzione tra il contratto di fideiussione e il contratto autonomo di garanzia (c.d. Garantievertrag) è costituito dalla mancanza del carattere dell’accessorietà dell’obbligazione, propria del primo contratto e non del secondo. La causa concreta del contratto autonomo è, infatti, quella di trasferire integralmente da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sicché l’obbligazione del garante è qualitativamente diversa da quella garantita, poiché non necessariamente sovrapponibile ad essa come invece nella fideiussione (Cass. SS.UU. n. 3947/2010).  Infatti, nel caso di fideiussione, la richiesta di adempimento è rivolta al garante anziché all’obbligato, mentre nel caso di garanzia autonoma, a prescindere dalla natura dell’inadempimento e dalla sua maggiore o minore gravità, la richiesta ha ad oggetto una prestazione diversa, di regola costituita da un indennizzo predeterminato svincolato dalla prestazione oggetto del rapporto fondamentale.

Il termine decadenziale di cui all’art. 1957 c.c., relativo all’azione del creditore nei confronti del fideiussore, si riferisce alla scadenza dell’obbligazione garantita, a decorrere dalla quale va computato il semestre previsto dalla norma menzionata.

Nel contratto di fideiussione, come da giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, i requisiti soggettivi per l’applicazione della disciplina consumeristica dipendono dalle parti di esso e non dal tipo di contratto (CGUE, 19 novembre 2015, in causa C-74/15, Tarcau, e 14 settembre 2016, in causa C-534/15, Dumitras). Dunque, alla persona fisica che stipuli il contratto di garanzia per finalità estranee alla propria attività professionale – nel senso che la prestazione della fideiussione non costituisce atto espressivo di tale attività, né è strettamente funzionale al suo svolgimento – si applicherà la disciplina consumeristica di favore (Cass. SS.UU., 27/02/2023, n. 5868).

La clausola che contempla la rinuncia ad avvalersi della decadenza di cui all’art. 1957 c.c. rientra tra le clausole di cui all’art. 33, c. 2, lett. t) del d.lgs. n. 206/2005 (c.d. Codice del Consumo). Dunque, la clausola in questione potrà sì risultare idonea a derogare la disciplina dispositiva di cui all’art. 1957 c.c. anche nel caso di rapporto consumeristico, ma solo se oggetto di specifica trattativa individuale tra le parti, nel rispetto della disciplina prevista a favore del consumatore (art. 34, c. 4, Codice del Consumo).

Princìpi espressi nel contesto di un giudizio di appello proposto avverso la decisione del giudice di prime cure che aveva integralmente rigettato l’azione in primo grado. Parte ricorrente in primo grado si era opposta a un decreto ingiuntivo, emesso a favore di una banca avverso due fideiussori di un contratto di mutuo inadempiuto, disconoscendo le firme in calce alla fideiussione, nonché eccependo la nullità del mutuo, e conseguentemente della fideiussione, per violazione del limite di finanziabilità e, infine, la decadenza dalla fideiussione ex art.1957 c.c. Il giudice di seconde cure ha rigettato integralmente l’appello confermando la sentenza di primo grado.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 26 aprile 2023, n. 711 – Contratti bancari e finanziari, mutuo agrario, interessi convenzionali e moratori, tasso soglia di usura

Qualora il decreto ingiuntivo avente ad oggetto l’importo residuo di un mutuo agrario non venga opposto ex art. 645 c.p.c., il giudicato sostanziale ex art. 2909 c.c.  copre non soltanto l’esistenza del credito azionato, del rapporto che ne è oggetto e del titolo su cui il credito ed il rapporto si fondano, ma anche l’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al ricorso per ingiunzione e non dedotti con l’opposizione. Conseguentemente non è più possibile dedurre in altra sede le questioni connesse alla pretesa erroneità o illiceità dell’applicazione, sulla sorte capitale, degli interessi e dunque anche quelle relative all’usurarietà dei tassi pattuiti (cfr. Cass. n. 9299/2018).

Posto che i decreti ministeriali di cui all’art. 2, 1° co., l. n. 108/1996 anteriori al 25 marzo 2003 non indicavano la maggiorazione media degli interessi moratori, ne discende che, per i contratti conclusi fino al 31 marzo 2003, il tasso soglia di mora coincide con il tasso soglia dei corrispettivi, per cui il criterio di calcolo che va applicato al fine di determinare il tasso soglia degli interessi moratori non prevede la maggiorazione di 2,1 punti percentuali del Tasso effettivo globale medio (T.E.G.M.) riferito all’interesse corrispettivo, ma solo l’aumento del 50% (art. 2 l. n. 108/1996 vigente ratione temporis), secondo la formula: T.S.U. = T.E.G.M. x 1,5.

In tema di interessi convenzionali la disciplina antiusura si applica sia agli interessi corrispettivi (e ai costi posti a carico del debitore per il caso di regolare adempimento del contratto), sia agli interessi moratori (e ai costi posti a carico del medesimo debitore per il caso dell’inadempimento), ma non consente la sommatoria tra tasso corrispettivo e tasso di mora al fine di determinare il superamento, o meno, del tasso soglia usura, poiché gli interessi corrispettivi e quelli moratori si fondano su presupposti diversi e antitetici, essendo i primi previsti per il caso di (e fino al) regolare adempimento del contratto e i secondi per il caso di (e in conseguenza dell’) inadempimento del contratto (cfr. Cass. n. 14214/2022).

Gli interessi moratori devono ritenersi sicuramente assoggettabili alla disciplina dell’usura e anche la sola pattuizione di interessi moratori usurari è sufficiente a determinare l’applicazione delle norme di cui agli artt. 1815 e 1224 c.c., senza che tuttavia ciò possa portare alla gratuità del mutuo, restando comunque dovuti gli interessi corrispettivi, ove lecitamente convenuti (cfr. Cass., S.U., n. 19597/2020).

Chi agisce in giudizio per la ripetizione di somme corrisposte a titolo di interessi usurari deve dare prova dall’avvenuto effettivo pagamento degli stessi.

La ripetizione dell’indebito oggettivo invoca un pagamento, che, considerate le modalità di funzionamento del rapporto di conto corrente, si rende configurabile soltanto all’atto della chiusura del conto, chiusura che necessariamente deve precedere l’introduzione del giudizio di prime cure, salvo cadere in ipotesi non già di emendatio quanto piuttosto di vera e propria mutatio libelli (Cass., S.U., n. 24418/2010).

Principi espressi nell’ambito di un giudizio d’appello promosso nei confronti di un istituto di credito per domandare l’accertamento della natura usuraria dei tassi pattuiti relativamente a contratti di mutuo anteriori al 31 marzo 2003 e di conto corrente stipulati dagli attori, con conseguente declaratoria di gratuità di detti mutui, restituzione delle somme asseritamente indebite corrisposte dai correntisti e condanna al risarcimento dei danni patrimoniali da questi lamentati.

(Massime a cura di Carola Passi)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 11 aprile 2023, n. 624 – leasing, nullità delle clausole contrattuali, riduzione ad equità, valutazione valore immobile CTU, violazione del patto commissorio, lease-back

È valida ed è meritevole di tutela la clausola penale presente nelle condizioni generali del contratto di leasing finanziario che prevede che, nel caso in cui, a seguito della risoluzione dello stesso, il bene venga restituito al concedente, il debito dell’utilizzatore venga ridotto di un importo pari al ricavato della vendita dello stesso o della sua ricollocazione in leasing, o in alternativa pari al valore determinato secondo perizia di stima giurata eseguita da un professionista incaricato dal concedente. Nel caso di specie, l’applicazione di siffatta clausola non produce effetti distorsivi che portano al concedente di percepire somme maggiori rispetto a quelle che avrebbe ottenuto dall’adempimento del contratto e non può ritenersi eccessivamente onerosa, mancando i presupposti per la riduzione ad equità ex art 1384 c.c. (cfr. Cass. n. 15202/2018; Cass. n. 26531/2021; Cass. n. 15202/2018; Cass. n. 21762/2019; Cass. n. 25031/2019; Cass. n. 1581/2020)).

La risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore di un contratto di leasing traslativo, concluso anteriormente al 29 agosto 2017 (entrata in vigore della disciplina prevista dall’art. 1, commi 136 e ss., L. 4 agosto 2017 n.124), è sottoposta all’applicazione analogica dell’art. 1526 c.c. Pertanto, qualora il giudice, ove ritenga che le parti abbiano pattuito una clausola penale, che prevede il diritto del concedente di trattenere tutte le rate pagate a titolo di corrispettivo del godimento nonostante il mantenimento della proprietà, ha il potere di ridurre detta penale, in modo da contemperare, secondo equità, il vantaggio che essa assicura al contraente adempiente ed il margine di guadagno che il medesimo si riprometteva di trarre dalla regolare esecuzione del contratto (cfr. Cass. n. 10249/2022).

Ai fini della determinazione del valore di un immobile da parte del CTU è preferibile l’utilizzo dei dati forniti dalla Banca dati delle quotazioni Immobiliari relativi alle compravendite già concluse, rispetto ai prezzi per gli immobili posti in vendita.

Non è riconducibile ad una violazione del patto commissorio ex art, 2744 c.c. l’operazione di sale and lease back che non presenta gli elementi sintomatici atti ad evidenziare che la vendita sia stata posta in essere con funzione di garanzia quali: i) l’esistenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice utilizzatrice; ii) le difficoltà economiche dell’impresa venditrice utilizzatrice; iii) la sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente (cfr. Cass. n. 4664/2021).

Princìpi espressi in grado d’appello ove la Corte ha respinto la domanda con cui l’appellante chiedeva di accertare e dichiarare indebita la percezione da parte della società di leasing degli importi corrisposti in esubero rispetto al valore dei contratti di finanziamento tenuto conto della diversa valutazione dei beni oggetto dell’operazione effettuata dall’appellante, nonché delle deduzioni proposte in ordine all’inefficacia e alla nullità delle clausole contrattuali comportanti un vantaggio indebito per la società di leasing, ovvero di condannare l’appellata alla restituzione degli stessi.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 21 marzo 2023, n. 488 – apertura di credito in conto corrente, interessi anatocistici, commissioni di massimo scoperto, commissioni ex art. 117 bis TUB, nullità di clausole contrattuali, ripetizione di indebito

In tema di ripetizione di indebito opera il normale principio dell’onere della prova a carico dell’attore il quale, quindi, è tenuto a dimostrare sia l’avvenuto pagamento, sia la mancanza di una causa che lo giustifichi (cfr. Cass. n. 30713/2018; Cass. n. 24948/2017). Il principio trova applicazione anche ove si faccia questione dell’obbligazione restitutoria dipendente dalla (asserita) nullità di singole clausole contrattuali, relativamente cioè ad un pagamento dovuto solo in parte, di cui si chieda la restituzione limitatamente alla somma pagata in eccedenza (Cass. n. 7501/2012). In applicazione dei suddetti principi, assunta l’esistenza di un contratto scritto di apertura di credito in conto corrente, l’attore in ripetizione che alleghi la mancata valida pattuizione, in esso, dell’interesse debitore è onerato di dar prova dell’assenza della causa debendi attraverso la produzione in giudizio del documento contrattuale, mediante il quale dimostrare la mancanza, nel contratto, della pattuizione degli interessi o la nullità di essa. 

È da ritenersi valida, sotto il profilo causale, la previsione pattizia della commissione di massimo scoperto, posto che la legge 28 gennaio 2009 n. 2, nel dettare una disciplina in materia, ne ha riconosciuto l’astratta legittimità per il periodo anteriore (Cass., sez. un., n. 16303/2018; Cass. n. 870/2006). Tale corrispettivo, che è pagato dal cliente per compensare l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell’utilizzo dello scoperto del conto e che di norma viene applicato allorché il saldo del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni, viene calcolato in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento. Tuttavia, a fronte della mancata indicazione, nel contratto, di ulteriori elementi, ed in primo luogo dell’importo su cui la dedotta percentuale andrebbe applicata, si deve ritenere che la previsione pattizia non soddisfi i requisiti di cui all’art 1346 c.c. e che quindi ne vada dichiarata la nullità (cfr. Cass. n. 19825/2022).

Principi espressi, in grado di appello, nell’ambito di un giudizio promosso per l’accertamento dell’illegittimo addebito al correntista di importi a titolo di interessi anatocistici, commissioni di massimo scoperto, commissioni ex art. 117 bis TUB, spese e interessi passivi maturati su tali voci per valori superiori a quelli effettivamente dovuti e per la conseguente condanna dell’intermediario alla restituzione dell’indebito e al risarcimento del danno.

(Massime a cura di Luisa Pascucci)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza 27 febbraio 2023, n. 320 – contratti bancari, mutuo, usura, conseguenze dell’autonomia degli interessi corrispettivi e degli interessi moratori, ammortamento alla francese, anatocismo, danno da illegittima segnalazione alla Centrale Rischi

In tema di usura, non può dubitarsi della diversità ontologica tra interessi corrispettivi, che regolano l’attuazione del programma contrattuale, e interessi moratori, che predeterminano l’ammontare del risarcimento in caso di inadempimento, cui consegue l’autonomia delle pattuizioni contrattuali relativi all’uno e all’altro tipo di interesse, quand’anche esse siano dedotte in una medesima clausola del contratto. Conseguentemente, nell’accertamento del superamento del tasso-soglia di usura, non è possibile procedere al cumulo dei due tassi di interesse (cfr. Cass. n. 14472/2022; Cass. n. 26286/2019). Per le stesse ragioni, l’eventuale nullità delle pattuizioni relative agli interessi di mora non si estende alla pattuizione concernente gli interessi corrispettivi (cfr. Cass. n. 9327/2020).

Nella verifica del superamento delle soglie usurarie non è possibile cumulare voci di costo del credito corrispondenti a distinte funzioni. In particolare, la commissione di estinzione anticipata – avente natura di clausola penale per il recesso – non è computabile ai fini della verifica di usurarietà, giacché non è collegata, se non indirettamente, all’erogazione del credito e, pertanto, non ne costituisce remunerazione (cfr. Cass. n. 7532/2022).

È sempre possibile esperire, anche in assenza di inadempimento, un’azione di mero accertamento dell’usurarietà degli interessi moratori. Laddove essa venga accolta, il mutuante, quale conseguenza dell’inefficacia della clausola recante determinazione convenzionale dell’interesse moratorio, ex art. 1224 c.c., ha l’onere di fornire la prova dell’esistenza di un danno da ritardo ulteriore rispetto all’interesse corrispettivo.

La strutturazione di un piano di ammortamento alla francese secondo lo schema c.d. a rate costanti (in cui il valore delle rate rimane costante del tempo, di modo che con il progredire delle rate diminuisca, in ciascuna di esse, la quota da imputarsi agli interessi mentre aumenta correlativamente quella imputabile al rimborso del capitale) non implica di per sé anatocismo, trattandosi di una mera modalità di adempimento delle obbligazioni di rimborso (cfr. Cass. n. 11400/2014). Gli interessi, infatti, sono calcolati applicando il tasso pattuito, di volta in volta, sul capitale residuo risultante dalla detrazione dal capitale originario di quello già rimborsato.

Il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno da illegittima segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d’Italia postula la prova che tale segnalazione sia effettivamente avvenuta. Non è sufficiente, a tal fine, produrre una comunicazione dell’istituto di credito che si limiti a minacciare tale segnalazione né è invocabile come prova indiretta della medesima la decadenza del debitore segnalato da talune cariche.

I princìpi sono stati espressi nel giudizio d’appello promosso dal titolare di una ditta individuale avverso l’ordinanza del giudice di primo grado  denunciando: i) l’usurarietà del contratto di mutuo, in quanto il cumulo degli interessi corrispettivi e di mora avrebbe determinato il superamento del tasso-soglia di usura; ii) l’indeterminatezza delle pattuizioni contrattuali – in particolare, quella del piano di ammortamento applicato – da cui deriverebbe l’impossibilità di stabilire il tasso effettivo del mutuo, con conseguenze sostituzione di diritto ex art. 1284 c.c. del tasso di interesse con quello legale ovvero con quello stabilito all’art. 117 TUB; iii) l’illegittimità dell’ammortamento, qualificato come alla francese, in quanto anatocistico; iv) l’illegittimità dell’indicizzazione dei tassi contrattuali all’Euribor, in quanto esso costituirebbe il frutto di un’intesa anticoncorrenziale ai sensi della L. 287/1990; e v) l’illegittimità della segnalazione alla Centrale Rischi effettuata dalla creditrice e il risarcimento del conseguente danno.

(Massime a cura di Leonardo Esposito)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 13 febbraio 2023, n. 258 – leasing, mancata indicazione del TAEG, indeterminatezza del contratto

La mancata indicazione del tasso leasing non determina di per sé la nullità del contratto per indeterminatezza, laddove esso rimanga comunque chiaramente determinato nei suoi elementi costitutivi. Piuttosto tale omissione consente l’esperimento di un’azione di responsabilità nei confronti della società di leasing, qualora sia ravvisabile un danno conseguente all’omessa informazione circa il tasso interno di attualizzazione.

L’indicazione del TAEG/ISC nei contratti di leasing finanziario non è obbligatoria, in quanto tale tipo contrattuale non rientra negli “altri finanziamenti” di cui al Provvedimento del Governatore della Banca d’Italia in materia di trasparenza delle operazioni e dei servizi degli intermediari finanziari del 25 luglio 2003.

Princìpi espressi in grado d’appello ove il tribunale ha respinto la domanda con cui l’appellante chiedeva di accertare l’indeterminatezza del contratto di leasing per omessa indicazione del Taeg da questi stipulato con la società di leasing appellata; nonché di condannare detta società a restituire le somme indebitamente corrisposte a titolo di canone di locazione finanziaria.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza dell’11 novembre 2022, n. 1364 – contratti bancari, mutuo di scopo, mutuo solutorio, anatocismo, ammortamento alla francese, usura

Il mutuo concesso al fine di estinguere debiti pregressi (c.d. “mutuo solutorio”) non è nullo per contrarietà alla legge o all’ordine pubblico, costituendo il ripianamento della passività una possibile modalità di impiego dell’importo mutuato. Deve dunque confermarsi il superamento dell’indirizzo giurisprudenziale per cui tale contratto sarebbe illecito o simulato, in quanto il ricorso al credito come mezzo di ristrutturazione del debito è previsto dalla stessa normativa vigente (Cass. 23419/2022).

La qualificazione del finanziamento come mutuo di scopo (in specie, solutorio), anziché come mutuo ordinario con semplice enunciazione dei motivi, dipende dalla comune volontà delle parti dedotta in contratto. Tale qualificazione impone l’accertamento dell’esistenza di un preciso e ben individuabile interesse del mutuante al raggiungimento degli obiettivi indicati nella clausola di scopo, la quale deve imporre al mutuatario l’utilizzo delle somme ricevute per la realizzazione delle particolari finalità dedotte nel contratto. In caso contrario, tale clausola dovrà intendersi come meramente enunciativa degli intendimenti del mutuatario, a lui solo riferibili e dunque privi di rilievo giuridico (App. Brescia, 29 gennaio 2020 resa nel procedimento 1197/17 RG; App. Brescia, 1344/2015).

L’adozione di un piano di ammortamento c.d. “alla francese” (che prevede la restituzione del finanziamento in rate composte da una quota di capitale e una quota di interessi calcolata sul capitale residuo, in modo tale che al progredire dell’ammortamento la quota di capitale cresca e quella di interessi diminuisca) non implica automaticamente anatocismo, in quanto il calcolo degli interessi è di regola effettuato sul capitale residuo da restituire al finanziatore. A partire dalla quota di interessi riferita alla singola rata, infatti, viene determinata per differenza la quota capitale la cui restituzione viene portata a riduzione del debito. In tal modo, l’interesse non è produttivo di altro interesse e viene separato dal capitale. La costituzione composita delle rate di rimborso attiene esclusivamente alle modalità di adempimento delle due obbligazioni restitutorie poste a carico del mutuatario (quella relativa al capitale e quella relativa agli interessi), che sono ontologicamente distinte e rispondono a finalità diverse. Il fatto che esse concorrano nella stessa rata non è sufficiente a mutarne la natura o a escluderne l’autonomia (Cass. 11400/2014).

Il costo di estinzione anticipata del mutuo non deve essere incluso nel calcolo del TEGM (necessario per la determinazione del tasso usurario rispetto all’operazione posta in essere), in quanto tale spesa è meramente eventuale dovendosi applicare nel solo caso di estinzione anticipata del mutuo. Infatti, non è un effetto che consegue direttamente alla stipula del contratto di mutuo, ma un effetto che può scaturire solo nel momento in cui si verifichino eventi che esulano dalla regolare esecuzione del contratto medesimo. Poiché la disciplina antiusura impone il confronto tra soli dati omogenei, l’importo della penale non può essere incluso tra le voci rilevanti ai sensi della L. 108/1996.

I princìpi esposti sono stati espressi in relazione ad una controversia riguardante la stipulazione, da parte di una società, di alcuni contratti di conto corrente e di mutuo da rimborsarsi secondo un piano di ammortamento c.d. “alla francese”. Rimasta insoluta l’obbligazione restitutoria, la banca creditrice aveva ottenuto l’emanazione di un decreto ingiuntivo, impugnato dalla debitrice e dai suoi garanti, i quali, in prime cure, avevano sollevato plurime contestazioni. Giunta la causa al grado d’appello, deciso con la sentenza massimata, quanto ai contratti di mutuo gli appellanti: (a) contestavano la nullità dei contratti in ragione della qualificazione dei medesimi quali mutui di scopo; (b) lamentavano la natura anatocistica degli interessi pagati nell’ammortamento alla francese; ed infine (c) rilevavano il superamento del tasso-soglia di usura previsto dalla L. 108/1996, poiché nel calcolo del TEGM – parametro base per il computo del tasso usurario – sarebbe stato necessario includere anche i costi di estinzione anticipata del mutuo.

(Massime a cura di Leonardo Esposito)




Corte d’appello di Brescia, sentenza del 17 marzo 2022, n. 353 – ripetizione dell’indebito, ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., determinazione delle commissioni.

In materia di ripetizione di indebito, colui che propone domanda di restituzione è onerato non solo della produzione degli estratti conto, sulla base dei quali possa essere elaborata la ricostruzione, da integrarsi, eventualmente, con altri elementi probatori in caso di incompleta produzione, ma altresì della dimostrazione delle condizioni economiche in relazione alle quali ha dedotto l’illegittima applicazione degli interessi passivi e di altre voci (cfr. Cass. n. 33009/2019).

La documentazione ex art. 210 c.p.c. può essere esibita solo previa richiesta stragiudiziale prevista dall’art. 119, co. 4, TUB; siffatta documentazione, tuttavia, non può essere acquisita in sede di consulenza tecnica d’ufficio contabile, ove essa abbia ad oggetto fatti e situazioni che, essendo
posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse (cfr. Cass n. 24641/2021).

Solo attraverso il confronto con il regolamento contrattuale è possibile verificare se vi siano stati addebiti in difformità del medesimo, i quali non sono desumibili sic et simpliciter dall’analisi degli estratti conti e a maggior ragione da quelli scalari.

I principi sono stati espressi nel giudizio d’appello proposto dal correntista avverso la sentenza di prime cure per sentir accertare, in mancanza del contratto di apertura di conto corrente e, pertanto, in assenza della contezza delle condizioni economiche in esso stabilite: i) l’effettivo ammontare degli interessi, delle commissioni di massimo scoperto, degli interessi inerenti al fido bancario, delle spese e degli interessi dovuti sulle commissioni; ii) l’illegittimità degli addebiti della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi in pendenza del rapporto.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)