Tribunale di Brescia, sentenza del 12 gennaio 2024, n. 117 – società a responsabilità limitata, azione sociale di responsabilità, responsabilità dell’amministratore unico

L’art. 2476, c. 3, c.c. legittima espressamente ciascun socio di s.r.l. a promuovere l’azione di responsabilità contro gli amministratori senza che sia necessario alcun atto autorizzativo da parte della società, e quindi anche in assenza di previa delibera assembleare. Infatti, nell’ambito della disciplina della s.r.l., non è riprodotta una disposizione analoga a quella di cui all’art. 2393, c. 1, c.c. e non pare possibile l’applicazione analogica delle norme in tema di s.p.a. alle s.r.l., a fronte delle differenze anche strutturali tra i due tipi di società e della scelta legislativa di differenziare le due discipline. Essendo ciascun socio della s.r.l. legittimato all’azione di responsabilità sociale, senza alcuna limitazione in merito alla percentuale di quote possedute, sarebbe incoerente con tale previsione imporre alla società, diretta danneggiata, di promuovere l’azione sociale solamente previa delibera assunta con le maggioranze previste dal codice o dallo statuto.

Nell’ambito dell’azione di responsabilità introdotta dai soci nei confronti dell’amministratore, la società, pur formalmente convenuta (in quanto litisconsorte necessario), assume la veste sostanziale di attrice, quantomeno in considerazione del fatto che essa è la beneficiaria della domanda di condanna formulata dai soci.

Come affermato dalla giurisprudenza precedente, «l’azione di responsabilità sociale promossa contro amministratori e sindaci di società di capitali ha natura contrattuale, dovendo di conseguenza l’attore provare la sussistenza delle violazioni contestate e il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, mentre sul convenuto incombe l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla sua condotta, fornendo la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi imposti» (cfr. Cass. n. 2975/2020). Tale onere probatorio non si atteggia in modo diverso nel caso in cui l’azione sociale sia promossa dai soci, trattandosi di una mera sostituzione processuale. Ne deriva che, in un giudizio nel quale sia contestato l’utilizzo del denaro della società da parte dell’amministratore unico, è onere della parte attrice allegare l’effettuazione di operazioni non connesse all’oggetto sociale o comunque all’attività della società, con ciò allegando l’inadempimento dei doveri incombenti sullo stesso a tutela del patrimonio aziendale, il danno e il nesso di causa tra l’inadempimento e il danno. È invece onere del convenuto provare che tali prelievi erano in qualche modo giustificati o che sono stati eseguiti da terzi.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio instaurato a seguito dell’esercizio, da parte di due soci di una società a responsabilità limitata semplificata, dell’azione sociale di responsabilità contro il precedente amministratore unico, nel corso del quale gli attori avevano chiesto la condanna di quest’ultimo al risarcimento di asseriti danni subiti dalla società derivanti dall’utilizzo di denaro da parte dell’amministratore a favore di se stesso e di terzi (nel caso di specie, anche a seguito dell’assunzione di prove testimoniali, il Tribunale ha tuttavia riconosciuto che le somme prelevate erano dovute all’amministratore ed esigibili a titolo di compenso per l’attività svolta in virtù di accordi non formalizzati tra i soci).

(Massime a cura di Vanessa Battiato)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza dell’8 gennaio 2024, n. 63 – arbitrato, lodo irrituale, motivi di impugnazione, errore essenziale di fatto, legittimazione passiva dell’arbitro

Il lodo arbitrale irrituale reso ai sensi dell’art. 808-ter c.p.c., producendo i suoi effetti sostanziali esclusivamente nei confronti delle parti, può essere impugnato soltanto da chi abbia assunto tale veste nel procedimento in cui esso è stato pronunciato. Sicché, l’arbitro non è legittimato a promuovere autonomamente l’impugnazione del lodo né è, in astratto, munito di legittimazione passiva in sede di impugnazione del medesimo, essendo in posizione di terzietà rispetto alle parti e non potendo far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui fuori dei casi espressamente previsti dalla legge (Cass., 2357/2017).

Se è certamente vero che gli effetti del lodo irrituale si producono esclusivamente nei confronti delle parti sostanziali dell’arbitrato e che l’arbitro non è legittimato a promuovere autonomamente l’impugnazione, ai fini della valutazione sulla legittimazione passiva dell’arbitro in sede di impugnazione del lodo irrituale, devono essere presi in considerazione i motivi specifici di impugnazione in relazione alla natura del lodo irrituale, deve considerarsi che questi risolve la controversia attraverso uno strumento strettamente negoziale. Attesa dunque la natura negoziale dell’arbitrato irrituale, il relativo lodo deve ritenersi impugnabile, oltre che per i motivi previsti dall’art. 808-ter c.p.c., anche come atto negoziale, ossia anche per i vizi che sono causa di nullità o di annullabilità del contratto. Pertanto, ancorché gli effetti del lodo irrituale riguardino le sole parti sostanziali dell’arbitrato, laddove sia dedotto un vizio della volontà dell’arbitro, quest’ultimo sarà dotato di legittimazione passiva a contraddire sul punto.

Nell’arbitrato irrituale, il lodo può essere impugnato per errore essenziale esclusivamente quando la formazione della volontà degli arbitri sia stata deviata da un’alterata percezione o da una falsa rappresentazione della realtà e degli elementi di fatto sottoposti al loro esame (c.d. errore di fatto), e non anche quando la deviazione attenga alla valutazione di una realtà i cui elementi siano stati esattamente percepiti (c.d. errore di giudizio); con la conseguenza che il lodo irrituale non è impugnabile per “errores in iudicando” (come è invece consentito, dall’ultimo comma dell’art. 829 cod. proc. civ., quanto al lodo rituale) (Cass., 7654/2003). Pertanto, ai fini dell’impugnativa della determinazione negoziale, l’errore che rileva è soltanto quello di fatto essenziale che abbia inficiato la volontà degli arbitri per effetto di una falsa rappresentazione dei fatti dedotti. Non sarà, invece, sufficiente, l’errore consistente nell’omessa considerazione di un documento probatorio.

L’inadeguatezza della motivazione del lodo irrituale non rientra tra i motivi di impugnazione di cui all’art. 808-ter c.p.c. né. Tantomeno, tra i vizi suscettibili di rendere annullabile la determinazione arbitrale. La stesura di una motivazione inadeguata, tuttavia, può costituire una violazione del dovere di diligenza incombente sull’arbitro e potrà dunque essere fatta valere a titolo di responsabilità per inadempimento negoziale. Tale responsabilità, anche se accertata, non è tuttavia capace di incidere sulla validità della deliberazione da questi assunta, se non dipende da una sua errata percezione della realtà.

I princìpi esposti sono stati espressi nell’ambito di una controversia riguardante l’impugnazione di un lodo irrituale pronunciato all’esito di un giudizio di responsabilità degli amministratori di una società a responsabilità limitata in liquidazione ex art. 2476, co. 7, c.c., insorta tra una società in liquidazione (contumace) e i suoi amministratori, da un lato, e i suoi soci e i relativi fideiussori dall’altro, nonché nei confronti dell’arbitro unico. I soci e i loro fideiussori, soccombenti in sede arbitrale in merito all’asserita responsabilità degli amministratori della società in liquidazione, promuovevano molteplici doglianze denunziando: (i) l’omessa pronuncia dell’arbitro rispetto a una domanda di risarcimento del danno diretto; (ii) l’errore essenziale di fatto dell’arbitro unico consistente nell’aver ignorato la documentazione prodotta relativa al valore di stima di un compendio immobiliare; (iii) l’inadeguatezza di parte della motivazione della decisione resa dall’arbitro unico; (iv) l’errore essenziale di fatto dell’arbitro unico consistente nell’aver liquidato, a titolo di risarcimento, una somma inferiore rispetto a quella asseritamente dovuta; (v) l’errore essenziale di fatto dell’arbitro unico nell’aver escluso il risarcimento del danno patito dai fideiussori per la mancata liberazione dalla garanzia prestata; e (vi) l’errore (non essenziale di fatto) dell’arbitro unico nella liquidazione delle spese, in relazione al principio di soccombenza. La Corte d’appello ha ritenuto tutte le doglianze prive di fondamento ha integralmente rigettato l’opposizione proposta.

(Massime a cura di Leonardo Esposito)




Tribunale di Brescia, sentenza dell’8 gennaio 2024, n. 62 – Responsabilità dell’amministratore di s.r.l., Business judgment rule

Non può essere considerato responsabile nei confronti della s.r.l. gestita l’amministratore unico che abbia deciso di aderire ad un sistema fiscale meno favorevole in ragione dell’elevata incertezza relativa al rispetto dei requisiti richiesti per usufruire di un regime impositivo più vantaggioso, incertezza che avrebbe esposto la società al rischio significativo di contenzioso in sede tributaria e, in caso di soccombenza, all’obbligo di versamento di maggiori imposte, sanzioni e interessi.

L’amministratore di una società non risponde necessariamente degli (eventuali) risultati economici negativi dell’attività di impresa, ma solo quando tali risultati risultino conseguenza di scelte operate in violazione dell’obbligo di “agire informato” o caratterizzate da manifesta irragionevolezza (così Cass. n. 3409/2013).

La regola della business judgement rule assume una conformazione peculiare nel caso di esercizio di un’attività di impresa agricola poiché tale attività, per sua natura, sopporta, accanto alla naturale alea propria di ogni attività di impresa, l’ulteriore rischio “biologico” derivante dalla inevitabile soggezione alle incertezze dell’ambiente naturale.

Non può ritenersi in contrasto con l’obbligo di agire informato l’operato dell’amministratore che abbia fatto ricorso all’ausilio di professionisti per la necessaria assistenza tecnica in materia altamente specialistica e connotata da particolare incertezza applicativa, come quella fiscale.

Principi espressi nel contesto di un’azione di responsabilità promossa ex art. 2476, 3° co., c.c. da alcuni  soci di una s.r.l. che svolge attività agricola nei confronti dell’amministratore unico. Parte attrice sosteneva che la scelta dell’amministratore di adottare per un triennio il regime di tassazione ordinario dei redditi di impresa avrebbe comportato un danno alla società in termini di maggiori oneri fiscali sostenuti. Il tribunale ha rigettato integralmente la domanda, condannando gli attori alla rifusione delle spese di giudizio.

(massime a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 28 dicembre 2023, n. 3416 – registrazione della denominazione, marchio, concorrenza sleale

In materia di società di capitali, l’imprenditore che per primo adotti una determinata denominazione sociale acquista il diritto all’uso esclusivo della stessa, con conseguente obbligo di differenziazione per chi, successivamente, utilizzi una denominazione uguale o simile idonea a generare un rischio di confusione.

Quando due società assumono la medesima denominazione sociale, il conflitto tra le stesse deve essere risolto sulla base del criterio temporale dell’anteriorità nella registrazione della denominazione sociale nel registro delle imprese. A tal proposito, non assume rilievo né il mero pregresso utilizzo della stessa denominazione da parte di altra società, che ha cessato da tempo di operare e che faceva capo a familiari del socio di una della società registrata per seconda, né il fatto che la denominazione di quest’ultima coincida con il cognome di uno di tali soci (cfr. Cass. n. 13921/2021).

La domanda risarcitoria per gli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c. deve comprendere gli elementi puntuali per quantificare il danno asseritamente subito. Il fatto che la società concorrente abbia assunto la stessa denominazione e operi nel medesimo mercato non è sufficiente a tali fini.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio di merito promosso da una società a responsabilità limitata al fine di sentire accertare e dichiarare che l’utilizzo, da parte della convenuta, della medesima denominazione sociale costituiva una violazione di quanto previsto dall’art. 2569 c.c.

In particolare, l’attrice chiedeva – oltre al ritiro ed al sequestro dal commercio di tutti i prodotti della convenuta recanti il segno in oggetto – il cambio della denominazione sociale, l’inibitoria dell’utilizzo del segno oggetto di marchio registrato nonché il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, patiti in conseguenza della condotta di contraffazione.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 28 dicembre 2023, n. 3415 – diritto al nome, marchio, concorrenza sleale

Il diritto al nome, disciplinato dall’art. 6 c.c., costituisce una specificazione del c.d. diritto all’identità personale e implica la possibilità di azionare la tutela prevista dall’art. 7 c.c. consistente nella facoltà di richiedere giudizialmente la cessazione dell’utilizzo non autorizzato del proprio nominativo. In difetto di apposita autorizzazione dell’avente diritto, infatti, l’utilizzo del suo nome è illecito e dà luogo a tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. oltre che alla possibilità, per l’autorità giudiziaria, di ordinare la pubblicazione della sentenza.

La presenza non autorizzata di un nominativo associato a prodotti recanti un determinato marchio su un sito internet ovvero su cataloghi pubblicitari di una società è meritevole di tutela inibitoria ex art. 7 c.c. ove sia proposta apposita domanda.

La tutela risarcitoria ex artt. 7 e 2043 c.c. può essere accordata – anche in via equitativa qualora ricorra l’impossibilità o l’estrema difficoltà di provare l’ammontare del danno – soltanto laddove venga debitamente allegato il tipo di danno sofferto e la dimostrazione della sua esistenza. A tali fini la mera presenza non autorizzata su un sito internet e su cataloghi commerciali del nome di un ex collaboratore di una società, congiuntamente all’affermazione che l’indicazione di tale nominativo abbia comportato per controparte vantaggi economici, non sono elementi idonei di per sé ad integrare un’allegazione circa il tipo e l’entità del danno sofferto risultando così non liquidabile, nemmeno in via equitativa.

L’ordine di pubblicazione della sentenza, per estratto, in una o più testate giornalistiche, radiofoniche o televisive e in siti internet ex art. 120 c.p.c. costituisce oggetto di un potere discrezionale del giudice volto ad impartire una sanzione autonoma che, grazie alla conoscenza da parte della collettività della reintegrazione del diritto offeso, assolve ad una funzione riparatoria strumentale ad evitare ulteriori effetti dannosi dell’illecito (cfr. Cass. n. 21651/2023). Tale potere discrezionale non può essere esercitato in una controversia vertente in materia di utilizzo non autorizzato di un nome, qualora l’illecito sia cessato a seguito della notificazione dell’atto di citazione, giacché, in tale ipotesi, non è ravvisabile la necessità di scongiurare, in via preventiva, ulteriori propagazioni di effetti dannosi.

La domanda di risarcimento del danno ex artt. 7 e 2043 c.c. e la domanda riconvenzionale di tipo risarcitorio fondata su asserite lesioni di diritti di proprietà industriale e presunte condotte di concorrenza sleale non si pongono, tra loro in rapporto di connessione oggettiva ex art. 36 c.p.c. che concede al convenuto la facoltà di proporre domanda riconvenzionale sempreché essa dipenda dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione.

Princìpi espressi in ipotesi di rigetto di una domanda proposta da un ex collaboratore di una società volta ad ottenere il risarcimento del danno asseritamente subito in conseguenza del fatto che la convenuta, cessato il rapporto di collaborazione, aveva indebitamente indicato, per anni, il suo nominativo sul proprio sito internet e su cataloghi commerciali di macchine progettate dall’attore e recanti un marchio originariamente di proprietà di una società della sua famiglia.

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, sentenza del 28 novembre 2023, n. 3054 – azione di responsabilità promossa dalla curatela ex art. 146, co. 2, L. fall, prescrizione, onere probatorio, mala gestio

Il termine di prescrizione dell’azione di responsabilità dei creditori sociali esercitata dalla curatela fallimentare decorre dal momento della oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i debiti sociali. Al riguardo è onere degli amministratori (e dei sindaci) fornire la prova della data di inizio della decorrenza della prescrizione attraverso la deduzione di fatti sintomatici dell’incapienza patrimoniale che si siano (eventualmente) verificati precedentemente alla dichiarazione di fallimento (che costituisce, secondo l’id quod plerumque accidit,il momento storico in cui l’incapienza patrimoniale risulta, senza dubbio, conoscibile ai creditori ed è, pertanto, oggetto di una presunzione juris tantum).

Ai fini della esperibilità dell’azione di responsabilità dei creditori sociali, la conoscenza dello stato di “depatrimonializzazione” di una società decorre dal momento della pubblicazione nel Registro delle Imprese del bilancio dal quale risulti una completa erosione del capitale sociale.

La mancata consegna al curatore da parte del liquidatore della contabilità relativa ad alcuni esercizi non è di per sé sintomatica della mancanza, distruzione o irregolarità originaria della stessa.

Princìpi espressi nel giudizio promosso da una curatela fallimentare al fine di ottenere l’accertamento della responsabilità contrattuale ed extra-contrattuale di amministratori e sindaci per atti di mala gestio e/o di omesso controllo, nonché la relativa condanna in via tra loro solidale al risarcimento dei danni derivati alla società ed ai creditori sociali.

(Massima a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, sentenza del 27 novembre 2023, n. 3018 – nullità delle deliberazioni assembleari, mala gestio, responsabilità degli amministratori, azione di responsabilità

L’azione di accertamento della nullità delle deliberazioni assembleari di una società “postula un interesse che, oltre a dover essere concreto ed attuale, si riferisca specificamente all’azione di nullità, non potendo identificarsi con l’interesse ad una diversa azione” (Cass. n. 16159/2017). Il principio di diritto enunciato vale, a maggior ragione, con riferimento all’azione volta a ottenere l’annullamento della delibera, tenuto conto della minore intensità del vizio.

“Il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione, le modalità nonché le circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica”. Detto giudizio riguarda, invece, solo “la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, e quindi, l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità” (Cass. n. 3409/2013).

L’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di una società di capitali – per consentire alla controparte un’adeguata difesa, nel rispetto del principio processuale del contraddittorio – deve sin dall’inizio sostanziarsi nell’indicazione dei comportamenti asseritamente contrari ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto sociale (Cass. n. 23180/2006).

Princìpi espressi nell’ambito del giudizio promosso da alcuni soci di una società a responsabilità limitata per sentir dichiarare la nullità (o in subordine l’annullamento) della delibera assembleare con la quale l’assemblea della medesima società aveva respinto a maggioranza la richiesta di promuovere l’azione sociale di responsabilità nei confronti di alcuni amministratori cessati e dell’attuale amministratore unico, nonché per ottenere la condanna di questi ultimi, previo accertamento della loro responsabilità per atti di mala gestio, al risarcimento dei danni cagionati alla società.


(Massime a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, decreto del 27 novembre 2023, n. 131 – denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c., gravi irregolarità nella gestione, violazione dei doveri degli amministratori, holding familiare, carenza di assetti organizzativi

Ai fini della proposizione dell’azione ex art. 2409 c.c., le irregolarità nella gestione lamentate devono essere attuali e idonee a porre in pericolo il patrimonio sociale o a procurare grave turbamento all’attività sociale. Proprio il presupposto della potenzialità del danno comporta che l’intervento giudiziario non possa ritenersi ammissibile allorquando l’azione lesiva, già verificatasi a distanza di tempo, abbia esaurito i propri effetti in assenza di elementi idonei ad ipotizzare una verosimile reiterazione delle violazioni. L’istituto è, del resto, privo di carattere sanzionatorio e allo stesso non si addicono valutazioni a posteriori tipiche delle azioni di responsabilità.

Introducendo il concetto di potenzialità del danno, il legislatore ha inteso spostare l’interesse protetto da quello generale (id est ilcorretto funzionamento della società) a quello proprio dell’ente e dei suoi soci (non vedere compiuti dall’organo gestorio comportamenti idonei ad esporre ad un pregiudizio il patrimonio e l’attività sociale). Assumono, dunque, rilievo, ai sensi dell’art. 2409 c.c., soltanto quelle violazioni dei doveri degli amministratori tali da compromettere il corretto esercizio dell’attività di impresa e da determinare pericolo di danno per la società o per le controllate; restano escluse dal perimetro di tutela dell’articolo ipotetiche violazioni dei doveri che, seppur addebitabili all’organo amministrativo, sono strumentali al corretto esercizio dei diritti dei soci e dei terzi ovvero ai corretti rapporti tra la compagine sociale (a titolo esemplificativo: vizi o carenze di bilancio).

L’organizzazione societaria che preveda la creazione di una holding nella cui compagine siano rispettate le proporzioni tra i membri o rami familiari e di società operative dalla stessa
prevalentemente o interamente partecipate, amministrate (anche) da professionisti non soci, oltre a
rappresentare modello assai diffuso, non comporta di per sé alcuna patologia organizzativa
suscettibile di censura, non violando i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società appartenenti al gruppo.

Il socio di una società controllante non ha facoltà di denunciare, tramite il procedimento ex art. 2409 c.c., fatti inerenti alla gestione di una società controllata posto che la norma richiamata attribuisce rilievo alle società controllate soltanto allorquando esse risultino danneggiate dalle irregolarità gestorie commesse dagli amministratori della controllante. 

Quanto alla carenza di assetti organizzativi, il procedimento ex art. 2409 c.c. non può̀ essere utilizzato
per sindacare le scelte organizzativo-gestorie e di politica economica, fermo il noto limite della
valutazione di ragionevolezza da compiersi tenuto conto dell’adozione di cautele, verifiche e
informazioni normalmente richieste, oltre che della cura mostrata nell’apprezzare preventivamente i
margini di rischio (cfr. Cass. n. 12108/2020).

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di volontaria giurisdizione promosso con denunzia ex art. 2409 c.c. dalla titolare del diritto di usufrutto su una partecipazione superiore ad un decimo del capitale sociale di una s.p.a. la quale, con proprio ricorso, esponeva di avere fondato motivo di ritenere l’esistenza di gravi irregolarità commesse dall’organo gestorio.

Inter alia, la ricorrente deduceva: i) l’inadeguatezza degli assetti organizzativi; ii) indebite estrazioni di denaro in favore di amministratori, soci e loro familiari; iii) irregolarità gestorie anche addebitabili ad organi amministrativi di società controllate.  

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale ordinario di Brescia, sentenza del 24 novembre 2023, n. 129 – art. 2409 c.c., natura e requisiti del procedimento

Il procedimento ex art. 2409 si caratterizza per una natura latu sensu cautelare e di urgenza, ed è finalizzato a garantire una pronta reazione a gravi irregolarità degli organi sociali, purché dotate di carattere attuale e conseguente non scemata potenzialità lesiva.

Ai fini della denuncia di cui all’art. 2409 c.c. sono irrilevanti tutte le irregolarità lesive di diritti individuali dei soci, inidonee, per loro natura, a recare pregiudizio alla società.

Principi espressi nel contesto di un ricorso ex art. 2409 c.c. e 2545 quinquiesdecies c.c. rigettato dal tribunale.

(Massima a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 15 novembre 2023, n. 2920 – appalto, clausola risolutiva espressa, risoluzione per inadempimento

In materia di contratto di appalto di fornitura non sussiste un divieto generale di affidamento congiunto della progettazione ed esecuzione dei lavori, ma una regola generale che la stazione appaltante, nella sua discrezionalità, può ben derogare senza che tale decisione sia sindacabile dalla controparte contrattuale che, nel momento in cui ha deciso di partecipare alla gara e di concludere il contratto, era a conoscenza della portata delle obbligazioni assunte.

In caso di inadempimento dell’appaltatore la facoltà della stazione appaltante di sciogliersi dal contratto, ai sensi dell’art. 108 del Codice degli Appalti, concorre autonomamente con quella di apporre una clausola risolutiva espressa, espressione di una posizione non autoritativa ma paritetica della P.A. e governata dalla disciplina civilistica (Cfr. Cass. n. 21740/2016).

Principi espressi nell’ambito di un giudizio promosso da una società volto ad accertare la risoluzione di un contratto d’appalto con effetto retroattivo e a far condannare l’appaltatore alla restituzione di quanto trattenuto a seguito dell’intervenuta risoluzione del contratto e al pagamento delle penali.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)