Tribunale di Brescia, sentenza del 10 maggio 2024, n. 1889 – disegno o modello comunitario, disegno internazionale, oggetto della registrazione, contraffazione.

Il Regolamento (CE) n. 6/2002 del 12 dicembre 2001 sui disegni e modelli comunitari attribuisce al titolare di un disegno o modello comunitario sia diritti (fra i quali, a titolo esemplificativo, quelli di privativa) che il beneficio di una protezione uniforme sull’intero territorio dell’Unione europea. Analogamente, la registrazione internazionale produce gli stessi effetti di una registrazione effettuata direttamente nei paesi designati. La predetta protezione uniforme non è, inoltre, limitata ai disegni o modelli identici a quello registrato, ma si estende, altresì, a quelli che presentano differenze, sempreché esse non siano tali da creare un’impressione generale differente sulla base della complessiva interazione dei singoli elementi che li compongono.

In tema di proprietà industriale, la verifica circa la sussistenza di una contraffazione di un modello comunitario – da condursi valutando se il nuovo modello non susciti nel c.d. utilizzatore informato la stessa impressione generale del precedente, sulla base delle caratteristiche estetiche e tenendo conto del settore merceologico più o meno affollato da prodotti simili – integra un giudizio di fatto riservato al giudice di merito. Non vi è, pertanto, la possibilità di sollecitare, in sede di legittimità, un giudizio alternativo più favorevole che sia afferente ai medesimi elementi già oggetto del prudente apprezzamento del giudice (cfr. Cass. n. 23975/2020).

L’art. 31, co. 1, c.p.i., rubricato “Oggetto della registrazione”, prevede che il disegno o modello comunitario tuteli l’aspetto esteriore del prodotto dal punto di vista delle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della struttura superficiale, dei materiali ovvero del suo ornamento. Identiche considerazioni valgono per il disegno internazionale. Con particolare riferimento alle differenze di colore occorre, tuttavia, rilevare che le stesse non assumono rilevanza in concreto, ai fini del giudizio di interferenza, laddove: a) l’ambito di protezione dei disegni registrati fatti valere non risulti circoscritto all’impiego di determinati colori; b) l’utilizzo di colori differenti non conferisca al prodotto commercializzato un aspetto significativamente differente rispetto a quello oggetto di protezione.

Le differenze di peso e di dimensioni di un macchinario – che risulta, nel resto, copia identica di un altro il cui disegno è registrato – sono, in astratto, elementi inidonei ad escludere la contraffazione, trattandosi di caratteristiche che esulano dall’ambito di protezione dei disegni comunitari e che sono, pertanto, irrilevanti ai fini del giudizio di interferenza.

Le violazioni dei diritti industriali rilevano su base esclusivamente oggettiva, talché l’eventuale ignoranza di ledere il diritto altrui non dispiega alcuna efficacia “scriminante”.

Princìpi espressi nel giudizio di merito volto ad ottenere, inter alia, i provvedimenti definitivi di conferma delle misure già ottenute, in via cautelare ante causam, dell’inibitoria della commercializzazione di macchinari contraffattori delle privative vantate dall’attrice (disegni comunitari registrati, marchi figurativi registrati, marchi di forma di fatto, diritto d’autore), del sequestro industriale, del ritiro dal commercio, della pubblicazione del provvedimento.   

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, sentenza del 2 maggio 2024, n. 1755 – società a responsabilità limitata, gestione dell’organo amministrativo sostanzialmente liquidatoria, par condicio creditorum, responsabilità dell’organo amministrativo verso i creditori sociali

La responsabilità degli amministratori di s.r.l. verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, già prima della novella dell’art. 2476, c. 6, c.c. operata dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, era principio affermato dalla giurisprudenza (sul punto, cfr. Cass. n. 23452/2019), applicando analogicamente l’art. 2394 c.c.

Qualora la gestione ordinaria di una società a responsabilità limitata sia di fatto cessata tramutandosi in una gestione sostanzialmente liquidatoria e l’attivo patrimoniale sia insufficiente a soddisfare il ceto creditorio, dovrà essere rispettato dall’organo amministrativo il principio della par condicio creditorum nel pagamento dei debiti della società, salvi gli eventuali diritti di preferenza dei creditori aventi una causa di prelazione, a pena di responsabilità ex art. 2394 c.c. o ex art. 2476, c. 6, c.c., nel testo attualmente vigente. L’organo amministrativo risponde pertanto nei confronti dei creditori non soddisfatti per l’inadempimento dei doveri di conservazione del patrimonio sociale nella peculiare conformazione – comportante il rispetto della regola della par condicio creditorum pur in una fase antecedente al formale avvio del procedimento di liquidazione – che questi assumono nello scenario evocato.

In presenza dei presupposti summenzionati (gestione sostanzialmente liquidatoria e attivo patrimoniale insufficiente a soddisfare l’intero ceto creditorio), il mancato rispetto da parte dell’organo amministrativo del principio della par condicio creditorum nel pagamento dei debiti della società, secondo il loro ordine di preferenza, espone altresì gli amministratori a responsabilità ex art. 2395 c.c. o ex art. 2476, c. 7, c.c., nella versione attualmente vigente, nei confronti del creditore pretermesso nel pagamento dei debiti sociali in violazione della par condicio creditorum e, pertanto, direttamente danneggiato dalla condotta degli amministratori.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio di primo grado, promosso da un creditore di una società a responsabilità limitata nei confronti dell’amministratore unico, deducendo la responsabilità dell’amministratore per avere omesso, in violazione del principio della par condicio creditorum, il pagamento del suo credito (in parte garantito da privilegio) – diversamente da altri crediti anche di rango inferiore vantati pure da imprese riconducibili al convenuto – in una situazione di cessazione della gestione ordinaria della società e avvio di fatto della liquidazione.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, decreto n. 57 del 26 aprile 2024 – società a responsabilità limitata, convocazione giudiziaria dell’assemblea sociale, applicabilità dell’articolo 2367 c.c. alle s.r.l., esclusione, forme alternative di convocazione dell’assemblea

Appare inestensibile la disciplina prevista dall’art. 2367 c.c. in tema di s.p.a., stante il mancato richiamo nella disciplina novellata delle s.r.l. Ciò in quanto tale disciplina, nel testo risultante dalla riforma di cui al d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ha differenziato fortemente la disciplina delle s.r.l. da quella delle s.p.a., eliminando la tecnica del rinvio in favore di un principio di autonomia e potenziale onnicomprensività della normativa sulla s.r.l. Deve pertanto escludersi l’estensione analogica del meccanismo procedurale di convocazione previsto dall’art. 2367 c.c., già in linea di principio dissonante con la rigidità dei diversi tipi societari (Cass. n. 10821/2016).

Nel silenzio della legge e nell’eventuale silenzio dello statuto, il meccanismo alternativo per la convocazione dell’assemblea della s.r.l., in caso di omessa convocazione da parte degli amministratori, può essere correttamente individuato nel potere di convocazione dell’assemblea da parte del socio di maggioranza, titolare di almeno un terzo del capitale, in caso di inerzia dell’organo di gestione (Cass. n. 10821/2016).

Principi espressi in relazione a un caso di ricorso ex art. 2367 c.c. promosso per la convocazione dell’assemblea di una s.r.l., asseritamente omessa in modo abusivo dall’amministratore, da parte di un creditore pignoratizio possessore della totalità delle quote della predetta società nei confronti della società medesima e dei suoi soci.

(Massime a cura di Leonardo Esposito)




Tribunale di Brescia, sentenza dell’8 aprile 2024, n. 1473 – invalidità deliberazione di esclusione del socio, legittimità della deliberazione, obbligo di motivazione

L’invalidità della deliberazione di esclusione del socio dalla compagine sociale può derivare anche da vizi inerenti alla completezza della motivazione dell’esclusione; infatti, tale delibera rientra in quel novero di decisioni degli organi sociali che sono soggette all’obbligo di motivazione, funzionale ad assicurare il diritto di difesa del socio in sede di opposizione nonché a consentire il controllo dell’organo giudicante sulla legittimità della deliberazione (cfr. Cass. n. 15647/2020).

La legittimità della delibera di esclusione del socio è ravvisabile, oltre che dall’effettiva ricorrenza della causa di esclusione sottesa al provvedimento di estromissione impugnato e dalla sua riconducibilità fra quelle previste dalla legge ovvero dallo statuto, anche dalla congruità della motivazione adottata a sostegno dell’esclusione, restando preclusa soltanto l’indagine sull’opportunità del provvedimento.

L’obbligo di motivazione nella delibera di esclusione può ritenersi assolto allorquando comprenda l’enunciazione degli addebiti sollevati nei confronti del socio, che integrino violazioni di gravità tale da giustificare, per legge o statutariamente, la sua esclusione dalla compagine sociale. Ciò, in quanto, non può ritenersi superata dalla dedotta previa conoscenza da parte del socio degli addebiti sollevati nei suoi confronti.

Principi espressi nel giudizio di opposizione promosso da una società semplice avverso la delibera di esclusione del socio dalla compagine sociale, adottata dal Consiglio di amministrazione di una società agricola cooperativa a responsabilità limitata.

In particolare, l’opponente lamentava: i) l’irregolarità della notifica; ii) la genericità del contenuto della delibera per omessa indicazione dei motivi di esclusione; e iii) l’assenza di giustificati motivi addebitabili al socio ai fini della sua esclusione.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 3 aprile 2024, n. 1389 – impugnazione della delibera di approvazione del bilancio di esercizio, legittimazione attiva e passiva, abuso di maggioranza

Il socio-amministratore di una società di capitali è legittimato all’impugnazione della delibera assembleare di approvazione del bilancio anche nell’ipotesi in cui, nella sua qualità di membro dell’organo amministrativo, abbia precedentemente contribuito all’approvazione del relativo progetto di bilancio, posto che l’art. 2379 c.c., sancendo la legittimazione ad agire per la declaratoria della nullità di “chiunque vi abbia interesse”, non prevede, in relazione a tale evenienza, alcuna restrizione al diritto di impugnazione e  che la parte, esercitando funzioni e ruoli distinti (quello di socio e quello di amministratore), ben può esprimere due diverse valutazioni, senza violare il divieto di venire “contra factum proprium” (cfr. Cass. n. 29325/2020; Cass. n. 15592/2000; Cass. n. 16388/2007).

Nei giudizi di impugnazione di deliberazioni assunte dall’assemblea di società di capitali, legittimata passiva è unicamente la società, dalla quale promana la manifestazione di volontà che è oggetto dell’impugnazione. I singoli soci – che laddove assenti, dissenzienti o astenuti sono titolari del diritto all’impugnativa unitamente agli amministratori e al collegio sindacale – non sono legittimati a resistere all’azione, potendo al più intervenire in giudizio in posizione che la giurisprudenza qualifica come adesivo-dipendente rispetto alle ragioni della società, posizione dalla quale non deriva il diritto all’autonoma impugnazione della sentenza. I soci, d’altra parte, per espressa previsione di legge (cfr. art. 2377, co. 7, c.c. applicabile alle s.r.l. in forza del richiamo contenuto all’art. 2479-ter, ult.co., c.c.), anche ove non impugnanti o parti in causa, subiscono gli effetti dell’annullamento della deliberazione, seppur in via riflessa e non diretta (cfr. in motivazione Cass. n. 4652/2006).

In caso di impugnazione della delibera di approvazione del bilancio per anomalie connesse al risultato finale di esercizio, rapportato ai risultati degli anni precedenti, è necessaria una contestazione specifica delle voci del bilancio e non è sufficiente una doglianza di difetto di chiarezza delle cause del saldo positivo o negativo, posto che il risultato finale di esercizio è l’esito della differenza tra ricavi e costi di una azienda (potendo essere positivo – utile – se i ricavi sono maggiori del totale dei costi e negativo – perdita – se i costi superano i ricavi) ed è, pertanto, la conseguenza delle varie componenti, attive e passive, registrate nel documento informativo.

In caso di impugnazione di una delibera assembleare per abuso della maggioranza, è necessaria la prova dell’interesse personale antitetico a quello sociale perseguito dalla maggioranza con la deliberazione impugnata, nonché della lesione, almeno potenziale, dei diritti di partecipazione o patrimoniali dei soci di minoranza operata a mezzo della decisione.

Principi espressi nel giudizio di impugnazione della deliberazione assembleare di approvazione del bilancio di esercizio di una società a responsabilità limitata, nel corso del quale gli attori avevano contestato la voce del bilancio “finanziamento soci”, l’andamento degli ultimi bilanci della società e avevano lamentato un presunto “abuso di maggioranza” (contestazioni rigettate nel merito dal Tribunale).

(Massime a cura di Vanessa Battiato)




Tribunale di Brescia, sentenza del 11 marzo 2024, n. 957 – successione, recesso eredi

La parte che abbia un titolo legale che le conferisca il diritto di successione ereditaria, come la vedova o i figli del “de cuius”, che sono eredi legittimi e legittimari, non è tenuta a dimostrare di avere accettato l’eredità, qualora proponga in giudizio domande che di per sé manifestino la volontà di accettare, gravando, in questi casi, su chi contesti la qualità di erede l’onere di eccepire la mancata accettazione dell’eredità ed eventualmente i fatti idonei ad escludere l’accettazione tacita, che appare implicita nel comportamento dell’erede (cfr. Cass. n. 21288/2011; Cass. n. 22223/2014; Cass. n. 6745/2018).

Quanto al diritto di recesso, l’art. 2473, primo comma, c.c. predetermina le ipotesi legali di recesso dalla s.r.l. contratta a tempo determinato, rimandando ai patti sociali per eventuali ulteriori ipotesi e per le modalità di esercizio.

Nel caso in cui non sia ancora stato deliberato l’aumento di capitale o la proroga del termine di durata della società, espressamente previsti dallo statuto quali ipotesi legittimanti il recesso del socio dissenziente o assente nelle relative decisioni, ogni ipotetica manifestazione di volontà, formalizzata o meno dagli eredi del socio secondo i canoni statutari, pervenuta prima della assemblea straordinaria in cui si sarebbe deliberata una delle predette decisioni legittimanti il recesso del socio dissenziente o assente, non avrebbe comunque potuto integrare valido esercizio del diritto di recesso. Gli eredi, infatti, solo all’esito della predetta deliberazione, formalizzato il proprio dissenso, avrebbero potuto esercitare validamente il diritto di recesso dalla società.

L’art. 2484, terzo comma, c.c. stabilisce che la pubblicità del fatto dissolutivo abbia efficacia costitutiva: ne consegue che la società non poteva considerarsi in stato di liquidazione prima e in mancanza dell’iscrizione presso l’ufficio del registro delle imprese della dichiarazione con cui gli amministratori avessero accertato la causa di scioglimento (i.e. decorso del termine), né la prosecuzione di fatto dell’impresa poteva integrare “revoca implicita” dello stato di liquidazione.

Va escluso che la volontà del socio di maggioranza di proseguire l’attività sociale sottoforma di s.r.l. unipersonale, integri la prova della “conoscenza” o addirittura dell’“accettazione” da parte dell’amministratore unico del recesso delle attrici e dunque valga quale attestazione della validità dello stesso.

Non può ritenersi violato l’art. 1337 c.c. dal socio superstite, quando dall’ordine del giorno contenuto nell’avviso di convocazione dell’assemblea straordinaria e dalle dichiarazioni rese a verbale dallo stesso si dava per acquisito il valido esercizio del diritto di recesso da parte degli eredi del de cuius, inducendo questi a non formalizzare con raccomandata il loro recesso dalla società a seguito della deliberata proroga del termine della stessa, circostanza legittimante il recesso del socio dissenziente o assente.

Principi espressi nell’ambito di un giudizio, dinanzi al Tribunale, volto ad accertare, in via principale, la validità del recesso esercitato dagli eredi del socio di minoranza di una s.r.l. e a far condannare quest’ultima a liquidare la loro quota di minoranza. In subordine, al fine di far condannare il socio di maggioranza e amministratore unico al risarcimento del danno arrecato ai soci di minoranza per violazione dei doveri di buona fede avendo indotto gli attori a ritenere validamente esercitato il recesso dalla società.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)




Tribunale di Brescia, sentenza del 6 marzo 2024, n. 893 – trasporto aereo, trasporto di persone, responsabilità del vettore per danni derivati al passeggero da ritardo del volo, compensazione pecuniaria

Il vettore aereo operativo può ridurre del 50% la compensazione pecuniaria qualora il ritardo del volo non superi le quattro ore. La facoltà discrezionale accordata al vettore non può, tuttavia, tradursi in mero arbitrio, risultando perciò sindacabile in sede giurisdizionale, in caso di dissenso fra le parti, sotto i profili di ragionevolezza e buona fede.

Principi espressi nel giudizio di appello promosso da una incorporation contro la sentenza del Giudice di Pace per non aver riconosciuto la facoltà per il vettore aereo di ridurre l’importo della compensazione pecuniaria, dovuta al passeggero di un volo ritardato, al 50% ai sensi dell’art. 7, co. 2, del Regolamento (CE) n. 261/2004.

Il Tribunale, trattandosi di un ritardo assai prossimo alla soglia delle quattro ore e, dunque, inidoneo a giustificare il riconoscimento da parte della compagnia aerea della compensazione pecuniaria dimezzata, dichiarava la debenza della compensazione nell’intera misura ex art. 7, par. 1, Reg. (CE) n. 261/2004.

(Massime a cura di Luisa Pascucci)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 6 febbraio 2024 – società a responsabilità limitata, controllo dei soci non amministratori ex art. 2476, 2° co., c.c.

Il diritto del socio di s.r.l. previsto dall’art. 2476, 2° co., c.c., che contempla tanto il diritto di ricevere informazioni attraverso la richiesta di notizie sullo svolgimento degli affari, quanto il diritto alla consultazione dei libri sociali e relativa documentazione, consiste in un diritto potestativo di ampia portata, il cui esercizio non richiede alcuna specifica motivazione, né ammette alcun limite, salvo quelli tradizionali del: a) rispetto del canone generale di buona fede, b) contemperamento tra diritti parimenti meritevoli di tutela, sempre che sussistano i presupposti per un bilanciamento. In altre parole, il diritto di informazione non può essere oggetto di protezione laddove il suo esercizio sia animato da scopi meramente emulativi, laddove esso integri un’ipotesi di abuso del diritto o, infine, laddove esso contrasti con un preminente diritto altrui.

Ai fini del riconoscimento del diritto di cui all’art. 2476, 2° co., c.c. è irrilevante che in precedenza il socio non abbia manifestato interesse per la partecipazione sociale, posto che  tale diritto non è attribuito su base “premiale” in relazione all’esercizio “virtuoso” dei diritti sociali, né la sua esclusione può avere un fondamento di tipo “punitivo”.

Il semplice timore di impiego per finalità concorrenziali delle informazioni acquisite nell’esercizio del diritto di cui all’art. 2476, 2° co., c.c., non sorretto da adeguate allegazioni sul compimento effettivo di attività concorrenziale, non consente alla società di impedirne l’esercizio. Alla medesima conclusione deve giungersi nel caso sussista il timore di un utilizzo illecito di informazioni riservate ex art. 98 c.p.i., in assenza di adeguate allegazioni in merito alla tipologia ed al contenuto delle medesime, a maggior ragione qualora il socio istante abbia manifestato la disponibilità a sottoscrivere accordi di non divulgazione.

Il rifiuto della società a consentire l’accesso del socio alla documentazione sociale preclude di fatto la facoltà di quest’ultimo di svolgere un’adeguata due diligence, comprimendo indebitamente il suo diritto di alienare la quota detenuta.

Per quanto riguarda la dedotta mancanza di periculum in mora rilevante in sede cautelare, il diritto del socio ex art. 2476, 2° co., c.c. ha natura strumentale rispetto all’esercizio degli ulteriori diritti sociali, talché deve ritenersi che il tempestivo esercizio di questi ultimi non può che richiedere il tempestivo accesso alle informazioni e alla documentazione sociale. Nelle more del giudizio di cognizione il diritto sociale, cui l’accesso alla documentazione sociale risulta preordinato, verrebbe inevitabilmente compromesso, con pregiudizio non riparabile o non agevolmente riparabile per equivalente.

Principi espressi nell’ambito  di un procedimento  di reclamo avverso un’ordinanza cautelare richiesta dal socio di  una società a responsabilità limitata per l’accertamento del suo diritto, quale socio non amministratore, di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di sua fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all’amministrazione, come disposto dall’art. 2476, 2° co., c.c. Nell’ordinanza di rigetto del reclamo il Collegio precisa la portata  ed i limiti di tale diritto.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)




Tribunale ordinario di Brescia, ordinanza del 30 gennaio 2024, n. 138 – Brevetti, Azione inibitoria ex art. 131 c.p.i, Procedimento cautelare

Anche nel diritto industriale, ai fini della valutazione delle condizioni necessarie per esperire l’inibitoria cautelare ex art. 131 c.p.i., è necessario valutare la sussistenza dell’urgenza connessa al periculum in mora che con tale provvedimento si intende scongiurare. Pertanto, tale requisito non può ritenersi “insito” e “presunto” in re ipsa nella violazione, essendo – invece – necessario un preciso accertamento riferito al caso concreto che presupponga, da parte del ricorrente, l’allegazione e la prova dello specifico pericolo e pregiudizio che con il provvedimento cautelare si vuole evitare.

L’inerzia nel presentare la domanda cautelare protrattasi per un prolungato lasso di tempo, in caso di consapevolezza del ricorrente tanto della violazione in atto quanto dell’autore dell’illecito, è idonea ad escludere l’urgenza del periculum in mora necessaria ai fini della proposizione dell’istanza stessa.

Princìpi espressi nell’ambito di reclamo ove il Tribunale ha respinto – per assorbente carenza del periculum in mora – la domanda con cui il reclamante chiedeva l’inibitoria cautelare ex art. 131 c.p.i. in merito alla violazione del proprio diritto brevettuale.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 16 gennaio 2024, n. 60 – procedimento cautelare, azione di contraffazione, marchi, marchi di forma,  marchi non registrati e marchi registrati,  fumus boni iuris e periculum in mora della contraffazione, atti di concorrenza sleale

Differentemente dai marchi registrati, per i quali vale la presunzione di validità (presunzione comunque superabile mediante prova dell’invalidità), per i marchi di fatto è onere della parte che ne invoca la tutela allegare specificamente e dimostrare la validità del segno, dimostrandone il carattere distintivo e i tratti di novità e di originalità.

Con riguardo ai marchi di forma non registrati, l’individuazione del carattere distintivo, della novità e della originalità deve essere specifica, non potendosi ritenere assolto il relativo onere probatorio nel caso in cui la parte intenda fondare la propria pretesa sul mero esame visivo delle immagini raffiguranti il prodotto allegate nella documentazione offerta in giudizio.

Deve escludersi la sussistenza di una capacità distintiva “intrinseca” nelle forme comuni, non originali in sé né nuove.

Come recentemente affermato dalla giurisprudenza, «Può essere registrato e tutelato come marchio di forma quel prodotto la cui pubblicizzazione e commercializzazione ne abbiano favorito la diffusione tra il pubblico al punto da comportare la generalizzata riconducibilità di quella determinata forma dell’oggetto ad una specifica impresa, consentendo l’acquisto, tramite il c.d. “secondary meaning”, di capacità distintiva del marchio che ne era originariamente privo» (cfr. Cass. n. 30455/2022).

Sussiste “secondary meaning” quando «[…] il marchio, in origine sprovvisto di capacità distintiva per genericità, mera descrittività o mancanza di originalità, acquisti tale capacità in conseguenza del consolidarsi del suo uso sul mercato» (cfr. Cass. n. 53/2022). L’acquisto del carattere distintivo tramite il “secondary meaning” può essere desunto da elementi indiziari, quali indagini demoscopiche, sempre che «almeno una frazione significativa del pubblico destinatario identifichi grazie al marchio i prodotti o servizi di cui trattasi come provenienti da un’impresa determinata» (cfr. Trib. I gr. CE, 2 luglio 2009, T-414/07; analogamente Corte Giust. CE, 4 maggio 1999, C-108/97).

Configurano elementi indiziari anche le campagne pubblicitarie svolte e gli investimenti pubblicitari effettuati, relativamente ai quali è onere della parte fornire allegazioni specificamente riferibili ai prodotti contraddistinti dai marchi dei quali si invoca tutela.

Relativamente ai marchi registrati, ai fini della decadenza dai diritti sul segno per volgarizzazione (art. 26 c.p.i), la presenza sul mercato di prodotti aventi forme del tutto analoghe a quelle dei prodotti contraddistinti dai marchi di cui si invoca tutela è un dato di per sé neutro.

Nell’ambito di un giudizio cautelare instaurato nell’ambito di un’azione di merito tesa ad accertare la contraffazione di marchi registrati, ricorre il “fumus” della contraffazione ai sensi dell’art. 20, c.1, lett. b) c.p.i. non solo in caso di esatta riproduzione della forma, ma anche quando la stessa presenti un elemento inidoneo a conferire al prodotto un’impressione radicalmente differente rispetto a quella conferita dal segno oggetto di privativa, qualora tale elemento sia tradizionalmente irrilevante per il consumatore di riferimento.  

Nell’ambito di un giudizio cautelare instaurato nell’ambito di un’azione di merito tesa ad accertare la contraffazione di marchi registrati sussiste il “periculum in mora” quando l’interferenza censurata sia suscettibile di arrecare un pregiudizio al titolare del marchio in termini di svilimento dello stesso, in particolare laddove si consideri che i prodotti oggetto della contraffazione sono venduti a prezzi inferiori. Tale pregiudizio, suscettibile di assumere portata maggiore nelle more del giudizio di cognizione piena, non è adeguatamente ristorabile per equivalente.

La sussistenza del “periculum in mora” non è esclusa dall’inerzia protratta dal titolare del marchio nell’esercizio giudiziale delle sue ragioni, né dalla prolungata coesistenza sul mercato dei prodotti delle rispettive imprese, essendo dirimente in proposito l’imminenza del pericolo insita nell’attualità della produzione e commercio in violazione delle privative registrate. Tali circostanze rilevano, invece, nella modulazione temporale delle misure cautelari concesse, dovendosi accordare al resistente, compatibilmente con le esigenze cautelari, tempi ragionevoli per adeguare al provvedimento la sua organizzazione produttiva e commerciale in modo tempestivo, e possono eventualmente rilevare altresì in termini di riduzione del danno cagionato.

In tema di illeciti concorrenziali, il divieto di imitazione servile ai sensi dell’art. 2598, n.1 c.c. tutela l’interesse a che l’imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente, giacchè l’imitazione servile dei prodotti altrui che non integri violazione di diritti di privativa industriale può configurare atto di concorrenza sleale soltanto quando riguardi elementi estrinseci e formali dei prodotti stessi, che abbiano idoneità individualizzante.

In tema di imitazione servile non è idonea a ingenerare confusione la presenza, sulle confezioni dei prodotti, di marchi denominativi e figurativi radicalmente differenti che non condividano con i marchi oggetto di privativa né il nucleo concettuale, né alcun aspetto fonetico, stilistico o grafico significativo.

Ricorre appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598, n. 2 c.c., quando un’impresa, in forme pubblicitarie, attribuisca ai propri prodotti qualità non possedute, ma appartenenti ai prodotti dell’impresa concorrente.

È da ricondursi all’art. 2598 n. 3, stante l’utilizzo di mezzi non conformi alla lealtà commerciale suscettibile di danneggiare l’azienda altrui, il cd. “agganciamento parassitario”, fattispecie che può realizzarsi mediante l’utilizzo di un packaging che, sotto il profilo estetico, è del tutto simile a quello utilizzato per prodotti omologhi (ad esempio per combinazione di forma e di ingredienti) maggiormente noti, e quindi idoneo ad evocare il ricordo dell’immagine della confezione e del prodotto a marchio altrui, pubblicizzati a livello nazionale.

In tema di agganciamento parassitario, il vantaggio ingiusto ottenuto dal concorrente consiste nel realizzare un significativo risparmio in termini di investimenti necessari per accreditare autonomamente e commercializzare i propri prodotti sul mercato; a tale vantaggio corrisponde per l’impresa concorrente un indebito svantaggio, individuabile nella frustrazione dei suoi investimenti (produttivi, di marketing, pubblicitari), nella potenziale erosione di una quota di mercato in ragione dei prezzi più convenienti praticati dalla concorrente (condizione resa possibile anche grazie al risparmio conseguito, riconducibile ad un atteggiamento commerciale di tipo parassitario), nonché, potenzialmente, in uno svilimento dei suoi marchi.

Principi espressi nell’ambito di un giudizio cautelare funzionale ad un giudizio di merito volto ad accertare la contraffazione di marchi registrati e non registrati, instaurato da una società a responsabilità limitata, attiva nel settore della produzione e commercializzazione di prodotti alimentari, volto ad ottenere l’inibitoria di asseriti illeciti contraffattori e di concorrenza sleale (per imitazione servile, appropriazione di pregi e agganciamento parassitario).

(Massime a cura di Vanessa Battiato)