Tribunale di Brescia, sentenza del 5 dicembre 2024, n. 4993 – azione di responsabilità ex art. 146 L.F., prescrizione, responsabilità risarcitoria degli amministratori e dei sindaci, onere della prova, quantificazione del danno, transazione

L’eccezione di prescrizione non è idonea a estendere i propri effetti anche ai coobbligati non eccipienti, salve ipotesi eccezionali, quali l’instaurazione tra coobbligati di cause di regresso, e salvi i casi in cui la mancata estinzione del rapporto obbligatorio nei loro confronti possa generare effetti pregiudizievoli per il soggetto eccipiente (cfr. Cass. n. 7800/2010).

Con riferimento all’azione sociale di responsabilità, il termine quinquennale di prescrizione, decorrente dal momento in cui il danno diventa oggettivamente percepibile all’esterno, manifestandosi nella sfera patrimoniale della società, resta sospeso ex art. 2941, n. 7, c.c. sino alla cessazione degli amministratori dalla carica (cfr. Cass. n. 24715/2015).

Con riferimento all’azione dei creditori sociali, il dies a quo della prescrizione decorre dal momento dell’oggettiva percepibilità dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i debiti che, in ragione dell’onerosità della prova, in assenza di precedenti fatti sintomatici di assoluta evidenza (come la pubblicazione di bilanci fortemente negativi o la chiusura della sede), viene fatto presuntivamente coincidere con la dichiarazione di fallimento (cfr. Cass. n. 24715/2015, Cass. n. 3552/2023).

Non determina, di per sé, un danno al patrimonio sociale la violazione delle regole di redazione del bilancio, avendo tale documento l’unico scopo di far conoscere ai soci, ai terzi e al mercato il quadro patrimoniale, finanziario ed economico della società in un determinato momento. Le irregolarità suddette possono, piuttosto, rappresentare lo strumento per occultare pregresse operazioni illecite ovvero per celare la causa di scioglimento prevista dall’art. 2484, comma 1, n. 4, c.c., e così consentire l’indebita prosecuzione dell’ordinaria attività gestoria. In tali ipotesi, tuttavia, il danno risarcibile è rappresentato, non già dalla misura del falso, quanto piuttosto dagli effetti patrimoniali delle condotte che grazie a quel falso sono state occultate o consentite (cfr. Trib. Milano, 28 luglio 2022).

In tema di esercizio dell’azione di responsabilità da parte del curatore per fatti di mala gestio dell’amministratore, la natura contrattuale della responsabilità di amministratori e sindaci nei confronti della società poi fallita comporta che il curatore ha soltanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni e il nesso di causalità fra queste e il danno verificatosi. Incombe, invece, sugli amministratori e sui sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti (cfr. Cass. n. 22911/2010, 2975/2020).

La quantificazione del danno da indebita prosecuzione dell’attività di impresa deve essere operata in conformità ai criteri di calcolo recepiti dal d.lgs. n. 14/2019 (cfr. art. 378) al nuovo terzo comma dell’art. 2486 c.c. (c.d. differenziale dei netti patrimoniali), che trova applicazione anche con riferimento ad azioni risarcitorie fondate su fatti anteriori alla data di entrata in vigore della norma (marzo 2019) (cfr. Cass. n. 5254/2024).

Rispetto alla responsabilità ex art. 2486 c.c. propria dell’organo gestorio, quella dei sindaci si configura come responsabilità diretta e solidale, trovando la propria causa nell’omissione del dovere di controllo e nel mancato esercizio del potere sostitutivo sancito dagli artt. 2406, 2407, secondo comma, e 2485, secondo comma, c.c.

Al fine di determinare il debito che residua a carico degli altri debitori in solido a seguito della transazione conclusa da uno di essi nei limiti della propria quota, occorre verificare se la somma pagata sia pari o superiore alla quota di debito gravante su di lui, oppure sia inferiore. Nel primo caso, il debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente a quanto effettivamente pagato dal debitore che ha raggiunto l’accordo transattivo mentre, nel secondo caso, lo stesso debito si riduce in misura corrispondente alla quota gravante su colui che ha transatto (cfr. Cass. n. 25980/2021, Cass. n. 7094/2022).

Principi espressi nell’ambito di un giudizio di responsabilità, promosso ex art. 146 L.F. da un curatore nei confronti degli amministratori e dei sindaci della società fallita, per sentirli condannare al risarcimento dei danni asseritamente conseguiti dall’apposizione a bilancio di una voce fittizia e dalla colpevole prosecuzione dell’attività produttiva, nonostante la perdita integrale del capitale sociale.

(Massime a cura di Andrea Mariani)




Tribunale di Brescia, decreto del 23 ottobre 2024, n. 138 – società per azioni, denuncia ex art. 2409 c.c., adeguatezza assetti amministrativi, organizzativi e contabili, inattualità, business judgement rule, insindacabilità.

Il procedimento ha la finalità di consentire, tramite l’intervento dell’autorità giudiziaria, il ripristino della legalità e della regolarità nella gestione, violate da condotte degli amministratori gravemente contrastanti con i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale e nel dettaglio oggetto di denuncia è il “fondato sospetto” di “gravi irregolarità nella gestione”, purché attuali e idonee a porre in pericolo il patrimonio sociale o a procurare grave turbamento all’attività della società nel cui interesse il ricorso è presentato.

L’istituto ex art. 2409 c.c. è privo di carattere sanzionatorio ed allo stesso non si addicono valutazioni a posteriori tipiche delle azioni di responsabilità, infatti proprio il presupposto della potenzialità del danno comporta che l’intervento giudiziario non possa ritenersi ammissibile allorquando l’azione lesiva abbia esaurito i propri effetti in assenza di elementi tali da far ipotizzare una verosimile reiterazione delle violazioni.

Il procedimento ex art. 2409 c.c. costituisce un presidio finalizzato a perseguire la regolarità e la correttezza della gestione sociale al fine di interrompere comportamenti di mala gestio in atto, idonei a costituire, se non disattivati, fonte di danno per la società. Così facendo il legislatore ha inteso spostare l’interesse protetto da quello generale (corretto funzionamento della società) a quello, proprio dell’ente e dei suoi soci (non vedere compiuti dall’organo gestorio comportamenti idonei ad esporre ad un pregiudizio il patrimonio e l’attività sociale).

Tale natura – latu sensu cautelare – dello strumento ex art. 2409 c.c. (apprestato per una pronta reazione a gravi irregolarità idonee ad arrecare al patrimonio sociale un concreto pregiudizio) impedisce che il rimedio sia fondatamente diretto a censurare fatti remoti e/o comunque radicalmente privi di potenzialità lesiva.

In tema di adeguatezza degli assetti, la formula adottata dal legislatore è volutamente elastica, la nozione di adeguatezza dovendo adattarsi alla specifica natura della realtà aziendale oggetto di valutazione, d’altro lato che giammai la censura di inadeguatezza può spingersi sino a sindacare scelte di merito che non si appalesino tali da impedire l’agire razionale e informato da parte dell’amministratore.

La predisposizione di ulteriori e, in tesi, più efficaci strumenti previsionali, ferma la ragionevolezza di quelli esaminati, inerendo la business judgement rule, appare strettamente connotata da discrezionalità e, quindi, estranea all’area del sindacato giudiziale. A ciò si aggiunga che, secondo autorevoli opinioni dottrinali, in tema di adeguati assetti, la sindacabilità delle scelte andrebbe circoscritta alle strutture e ai sintemi di c.d. allerta interna, aventi la funzione di monitorare la continuità aziendale e rilevare tempestivamente eventuali segnali di crisi.

Principi espressi nell’ambito di ricorso promosso ex art.2409 c.c. denunciando il difetto di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e dimensione della attività d’impresa svolta da società per azioni.

(Massime a cura di Ambra De Domenico)




Tribunale di Brescia, sentenza del 9 ottobre 2024, n. 4107 – azione di responsabilità ex art. 2476, co. 1, c.c., legittimazione ad agire, prescrizione, forma dei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda ex art. 2556 c.c.

L’art. 2476, co. 3, c.c. – che riconosce al socio di una s.r.l. la facoltà di esercitare l’azione sociale di responsabilità – configura un’ipotesi di legittimazione straordinaria sostitutiva ex art. 81 c.p.c., non esclusiva. Perciò anche la s.r.l. stessa è legittimata a far valere la responsabilità dell’amministratore, in quanto titolare del diritto leso, oltre che in forza di quanto disposto dall’art. 2476, co. 1, c.c., che disciplina espressamente la responsabilità dell’amministratore verso la società per i danni derivanti dall’inosservanza dei doveri imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’attività gestoria compiuta.

L’art. 2393, co. 1, c.c., prescrive, per le sole s.p.a., la necessità di una deliberazione dell’assemblea che autorizza il promovimento dell’azione sociale di responsabilità, mentre non è dettata una norma analoga con riferimento alle s.r.l., né per queste è richiamato l’art. 2393, co. 1, c.c. anzidetto, pertanto deve concludersi che non sia necessaria alcuna delibera autorizzativa per l’esercizio di tale azione da parte di una s.r.l.

Rientra tra i compiti del liquidatore di una s.r.l. quello di promuovere azioni giudiziali volte a reintegrare il patrimonio sociale leso.

Per le imprese soggette ad iscrizione l’art. 2556 c.c. richiede la forma scritta – rectius la  stipulazione mediante atto pubblico ovvero scrittura privata autenticata – per i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda,  non ai fini della validità dei medesimi, ma ad probationem, salva l’osservanza delle forme richieste dalla legge per il trasferimento di singoli beni che compongono l’azienda (ad esempio beni immobili) o per la natura del contratto.

Il trasferimento di un’azienda dissimulato da una pluralità di atti negoziali atomistici (cessione di singoli beni strumentali, scioglimento del contratto di locazione dell’immobile in cui era esercitata l’attività d’impresa e contestuale stipula di analogo contratto ad opera dell’asserito cessionario, cessazione dei rapporti di lavoro e contestuale instaurazione dei medesimi con quest’ultimo) non configura il presupposto dell’azione di rivendicazione, ossia uno “spossessamento” materiale dell’azienda stessa. Quest’ultima, quale universalità di beni – non necessariamente soltanto materiali – e rapporti giuridici, non è suscettibile di essere appresa materialmente ed asportata, ma può esclusivamente costituire oggetto di disposizione negoziale. In tal caso sono i singoli atti di disposizione negoziale a dover essere impugnati, posto che l’accertamento della loro invalidità o inefficacia potrebbe comportare effetti restitutori.

L’amministratore di una società che abbia compiuto atti di disposizione negoziale volti a depauperare il patrimonio della medesima mediante la dismissione dell’azienda di cui questa era titolare, senza il pagamento di alcun corrispettivo e senza alcuna delibera, è responsabile verso la società gestita del danno cagionato. Risponde in solido con l’amministratore altresì la società beneficiaria dei predetti atti di disposizione, in quanto concorrente nell’illecito commesso dal primo.

Il termine quinquennale di prescrizione dell’azione di responsabilità sociale verso gli amministratori ex art. 2949 c.c. è, come noto, sospeso fino alla cessazione della loro carica, in forza di quanto previsto dall’art. 2941 n. 7, c.c.

Princìpi espressi nel giudizio instaurato da una s.r.l. – in persona del liquidatore – al fine di accertare la responsabilità ex art. 2476 c.c. del precedente amministratore unico ed ottenere il risarcimento del danno subito in ragione dell’avvenuta dismissione dell’azienda mediante una pluralità di atti di disposizione negoziale.

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, sentenza del 8 ottobre 2024, n. 4095 – azione di responsabilità ex art. 146 l.f., responsabilità risarcitoria degli amministratori

Sono applicabili le norme, che disciplinano la responsabilità degli amministratori, agli amministratori di fatto qualora ingeriscano sulla gestione sociale in modo sistematico e completo (Cass. n. 28819/2008; Cass. n. 7864/2024).

In caso di inadempimento contrattuale di una società di capitali, la responsabilità risarcitoria degli amministratori non può essere, di per sé, imputata nei confronti dell’altro contraente ex artt. 2395 o 2476, comma 6, c.c., atteso che tale responsabilità, di natura extracontrattuale, postula fatti illeciti direttamente imputabili a comportamento colposo o doloso degli amministratori medesimi (Cass. n. 7272/2023).

Principi espressi nell’ambito di un giudizio, dinanzi al Tribunale, volto ad accertare la responsabilità ex art. 2476 c.c. dell’amministratore di fatto della società attrice in epoca anteriore al fallimento: i) per aver impedito la prosecuzione dell’attività aziendale, poiché lo stesso era in conflitto di interessi in quanto amministratore di altra società; e ii) per il mancato pagamento di fatture da parte di società estere terze al medesimo riconducibili.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)




Tribunale di Brescia, decreto del 16 settembre 2024, n. 3660 – legittimazione della società nel concordato, conferimento in natura, garanzia del credito conferito, prescrizione del credito

Nella controversia promossa per far valere una pretesa creditoria nei confronti di una società ammessa a concordato liquidatorio la legittimazione passiva spetta alla società stessa in persona del suo legale rappresentante e non al commissario giudiziale o al liquidatore giudiziale posto che detta procedura non incide sulla capacità processuale del debitore (cfr. Cass. 4033/1995 e Cass. 26982/2022).

L’art. 168 l.f. vieta ai creditori, i cui crediti sono sorti anteriormente rispetto alla data di pubblicazione della domanda di ammissione del ricorso nel registro delle imprese, di esperire le azioni cautelari ed esecutive nei confronti del debitore. Tuttavia, non preclude loro l’esercizio delle azioni di accertamento e di condanna nei confronti dell’imprenditore ammesso al concordato preventivo in quanto da queste non potrebbe derivare un pregiudizio alla par condicio creditorum, dal momento che il relativo credito può essere soddisfatto solo nell’ambito della procedura concorsuale e nei limiti della proposta omologata.

Qualora, a seguito del procedimento di revisione della stima dei conferimenti in natura previsto dall’art. 2343 c.c., comma 3, c.c., si proceda ad una riduzione del capitale, permane in capo al conferente l’obbligo di liberare il capitale sottoscritto in aumento. Pertanto, in caso di conferimento di crediti assistito da garanzia ex art 1267 c.c. questa non riguarderà il loro valore nominale ma la conferente è tenuta a garantire solamente la bonitas dei crediti non svalutati oggetto di conferimento a liberazione dell’aumento sottoscritto.

Il pagamento del credito relativo alla prestazione di una garanzia prestata dal conferente un credito nei confronti della società non è una obbligazione autonoma, bensì accessoria rispetto a quella principale di liberare il capitale sottoscritto. Per questo motivo, non è da assoggettare all’ordinario termine di prescrizionale decennale ma a quello quinquennale di cui all’art. 2949 c.c.

Al fine della richiesta di pagamento in rivalsa dei debiti ceduti (conferiti) e non pagati dalla conferitaria, per cui la cedente è responsabile ai sensi dell’art. 2560 c.c., quest’ultima deve allegare (e dimostrare) di aver ottemperato alle obbligazioni in luogo della società conferitaria.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo nel quale la società conferitaria di un’azienda ingiungeva la società conferente al pagamento della garanzia da questa prestata ex art. 1267 c.c. La conferente eccepiva all’opposizione: a) il proprio difetto di legittimazione passiva rispetto alla pretesa monitoria; b) l’inammissibilità dell’azione di condanna nei suoi confronti, in forza degli artt. 168 e 184, comma 1, l.f.; c) l’inesistenza del credito in ragione dell’avvenuta riduzione del capitale a seguito di revisione del conferimento e d) la prescrizione del credito ingiunto.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 26 agosto 2024 – marchio, registrazione in malafede, decadenza, contraffazione

La registrazione di un marchio in malafede, prevista dagli artt. 19, 2° co., c.p.i. e 59, 1° co., lett. b), reg. UE n. 1001/2017, costituisce una causa di nullità del segno che si verifica laddove il registrante, consapevole della legittima aspettativa di tutela di un terzo su un determinato segno distintivo, proceda alla sua registrazione al precipuo scopo di arrecare pregiudizio a tale soggetto, senza un effettivo utilizzo commerciale del marchio.

La decadenza del marchio per non uso non impedisce al titolare di domandarne una nuova registrazione, purché nel frattempo non sia stata depositata, da parte di terzi, domanda di registrazione del medesimo segno per i prodotti o servizi originariamente contraddistinti dal marchio decaduto, o non sia intervenuto il legittimo utilizzo effettivo dello stesso segno da parte di terzi.

La reiterazione della registrazione di un marchio decaduto per non uso non integra automaticamente un’ipotesi di registrazione in malafede, posto che tale condotta può essere considerata illegittima solamente nel caso in cui sia finalizzata esclusivamente a eludere la decadenza stessa (cfr. Cass. n. 24637/2008).

Sussiste contraffazione di un marchio registrato, ai sensi dell’art. 20, 1° co., lett. b), c.p.i., in caso di utilizzo da parte di terzi di un segno identico o simile a detto marchio per prodotti o servizi identici o affini, qualora possa sussistere un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni. La riproduzione di un marchio con marginali variazioni fonetiche (ad esempio, l’aggiunta di prefissi o la sostituzione di lettere), prive di effettiva capacità distintiva, non è sufficiente a escludere il rischio di confusione laddove permanga una sostanziale somiglianza tra i segni.

L’utilizzo non autorizzato di un marchio registrato può compromettere lo sfruttamento economico dello stesso, integrando il requisito del periculum in mora necessario per l’adozione di misure cautelari.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di reclamo promosso avverso l’ordinanza che aveva accolto le istanze cautelari formulate da una società a responsabilità limitata, volte a ottenere la descrizione e l’inibitoria: i) della produzione e commercializzazione di prodotti recanti marchi costituenti contraffazione di segni registrati, nonché ii) dell’utilizzo di segni interferenti con i marchi di titolarità dell’istante. Il Tribunale di Brescia ha, in larga parte, confermato il provvedimento impugnato.

(Massime a cura di Andrea Di Gregorio)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 30 luglio 2024, n. 893 – marchio, malafede, registrazione del marchio

La malafede nella registrazione di un marchio si concretizza esclusivamente qualora ricorrano elementi oggettivi e concordanti che dimostrino l’intento di pregiudicare gli interessi di terzi o di ottenere un diritto esclusivo per finalità estranee alla funzione distintiva del marchio stesso. La malafede non può, dunque, essere presunta dal mancato svolgimento di un’attività economica corrispondente ai prodotti e servizi indicati al momento della presentazione della domanda di registrazione, in quanto il richiedente non è tenuto a specificare né a conoscere con esattezza l’uso che intende fare del marchio richiesto; il richiedente dispone, difatti, di un termine pari a cinque anni per dare avvio a un uso effettivo del marchio, conforme alla sua funzione essenziale (Corte Giustizia Unione Europea, Sez. IV, 29/01/2020, n. 371/18).

La nuova registrazione di un marchio identico a quello oggetto di decadenza per il mancato utilizzo del segno nel quinquennio non implica automaticamente la sussistenza di malafede nella registrazione del nuovo marchio: il titolare del marchio decaduto ha, difatti, la facoltà di riprendere l’uso del segno, qualora quest’ultimo non sia stato medio tempore registrato o utilizzato da altri soggetti. Coerentemente, egli potrà validamente procedere a una nuova registrazione del marchio stesso (cfr. Cass. civ., Sez. I, n. 7970/2017).

La malafede nella registrazione di un marchio deve essere ravvisata nel comportamento di chi, eventualmente a conoscenza dell’utilizzo altrui del segno, depositi una domanda di registrazione di marchio senza l’intenzione reale di voler utilizzare quel segno, ma, sostanzialmente, per precludere ingiustificatamente ad altri di poterlo utilizzare sul mercato.

Il rischio di confusione per il pubblico dei consumatori può derivare dall’identità fonetica o da minime variazioni grafiche, come l’aggiunta di prefissi privi di autonoma capacità distintiva, che non alterano il nucleo semantico del marchio registrato.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento cautelare promosso da una società a responsabilità limitata per chiedere la descrizione e l’inibitoria della produzione e commercializzazione, nonché il ritiro dal commercio, di dispositivi farmaceutici contraffattori. I resistenti si costituivano eccependo, inter alia, la sussistenza di malafede nella registrazione del marchio da parte del ricorrente.

(Massima a cura di Andrea Di Gregorio)




Tribunale di Brescia, sentenza del 18 giugno 2024, n. 2616 — fideiussione, clausola di pagamento «a prima richiesta», accertamento del giudice in ordine alla volontà in concreto manifestata dalle parti, fideiussione prestata in conformità al “modello ABI”, nullità parziale, scadenza dell’obbligazione principale, decadenza ex art. 1957 c.c., limiti di derogabilità

 Le garanzie rilasciate mediante impiego di moduli predisposti dalla banca devono essere qualificate come fideiussioni ove il tenore letterale delle medesime sia chiaramente intitolato all’istituto della fideiussione e ad esso contenga sistematici richiami.

Il mero inserimento della clausola di pagamento “a prima richiesta” nella fideiussione omnibus non vale necessariamente a qualificare la garanzia come “contratto autonomo di garanzia”, mancando la previsione che invero caratterizza il contratto autonomo di garanzia, ossia la rinunzia espressa del garante alla facoltà di opporre eccezioni in deroga all’art. 1945 c.c. (clausola cosiddetta “senza eccezioni”). Nonostante l’inserimento di detta clausola, il negozio resta dunque una fideiussione, posto che il garante è chiamato ad adempiere alla medesima prestazione cui è tenuto il debitore principale, con ciò differenziandosi dal garante autonomo, la cui obbligazione non ha ad oggetto l’adempimento del debito principale, essendo rivolta ad indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore (Cass. n. 84/2010, n. 22233/2014, n. 16825/2016).

In presenza di fideiussioni rilasciate mediante impiego di moduli che costituiscono fedele riproduzione del “modello ABI” si presume che la garanzia predisposta dall’istituto di credito e sottoposta alla sottoscrizione da parte dei fideiussori sia stata modellata recependo in chiave monolitica lo schema di categoria, in quanto concordato nell’interesse del sistema bancario, con esclusione di possibili differenti pattuizioni ad opera delle parti. Sì che, ove non sia offerta la prova di circostanze idonee a dimostrare che le clausole in contestazione sono state in realtà frutto di un’autonoma e consensuale negoziazione tra le parti, ne va rilevata la nullità. Al riguardo, in adesione al pronunciamento delle Sezioni Unite di Cassazione n. 41994/2021, è da ritenersi che la nullità sia – di norma – soltanto parziale ai sensi degli artt. 2, comma 3, l. n. 287/1990 e dell’art. 1419 c.c., in relazione cioè alle sole clausole della fideiussione che riproducono quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata — perché restrittive, in concreto, della libera concorrenza —.

È vero che la clausola con cui il debitore si impegni a soddisfare il creditore “a semplice richiesta” (clausola n. 7 del contratto) può essere interpretata come deroga pattizia alla forma con cui l’onere di avanzare istanza entro il termine di cui all’art. 1957 c.c. deve essere osservato, vale a dire con proposizione di un’azione giudiziaria (Cass. n. 7345/1995). Tuttavia, il chiaro tenore di una clausola di rinunzia al termine di decadenza ex art. 1957 c.c. (clausola n. 6) rivela che le parti hanno voluto derogare integralmente al disposto dell’art. 1957 c.c. ed appare perciò arduo, sul piano ermeneutico, ritenere che con l’introduzione della successiva clausola n. 7, che prevede l’obbligo dei fideiussori di pagare “immediatamente alla Banca, a semplice richiesta scritta, anche in caso di opposizione del debitore” , le parti abbiano voluto apportare un’ulteriore deroga, di carattere tuttavia solo parziale, al disposto della norma. Di talché, rilevata la nullità — per le ragioni sopra esposte (id est, violazione della normativa antitrust) — della clausola di deroga al disposto dell’art. 1957 c.c., appare da escludersi che l’inserimento dell’ulteriore clausola (pur valida) di pagamento “a semplice richiesta” possa rendere sufficiente la mera iniziativa stragiudiziale del creditore al fine di evitare la decadenza contemplata dalla norma citata (sulla inidoneità del mero atto stragiudiziale già Cass. n. 283/1997).

Principi espressi nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, con il quale era stato ingiunto al debitore principale e ai fideiussori di pagare, in favore della banca, la somma di euro XXX derivante da contratto di mutuo fondiario concesso dalla banca al debitore principale. Nel giudizio di opposizione i garanti contestano la fondatezza delle pretese creditorie azionate dalla banca nei loro confronti, lamentando la nullità (totale o parziale) delle fideiussioni omnibus per violazione della normativa antitrust (l. 287/1990) o comunque per immeritevolezza ex art. 1322, comma 2, c.c., nonché l’intervenuta decadenza della banca, ex art. 1957 c.c., dal diritto di azionare il credito relativo al contratto di mutuo fondiario nei confronti dei garanti, in difetto di tempestiva iniziativa giudiziale nei confronti del debitore principale.

(Massime a cura di Luisa Pascucci)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 12 giugno 2024 – insegna, nome a dominio, contraffazione di marchio registrato, inibitoria ex art. 131 c.p.i.

Il diritto di un imprenditore di mantenere  il proprio cognome all’interno dell’insegna sotto cui esercita l’attività commerciale e nella pagina internet utilizzata per  pubblicizzare detta attività trova il limite degli artt. 20 c.p.i. e 2564 c.c., norma, quest’ultima, applicabile all’insegna in forza dell’espresso richiamo contenuto nell’art. 2568 c.c. Ne consegue che a costui è inibito l’utilizzo di un’insegna che riproduca il marchio registrato da un’impresa concorrente in epoca anteriore, quand’anche si tratti di un marchio patronimico, corrispondente al suo cognome.

È consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui i marchi denominativi e gli altri segni distintivi contenenti lo stesso cognome sono, di regola, confondibili, anche in presenza di prenomi diversi o di altri elementi di differenziazione: il principio deriva dalla regola di esperienza per cui, salvo il caso di cognomi molto diffusi e/o già ampiamente utilizzati nello specifico settore di riferimento, i consumatori tengono generalmente a mente il cognome piuttosto che il nome (Cass. n. 8119/2009; Cass. n. 14483/2002 e Cass. n. 7482/1995).

Nei segni distintivi costituiti da un patronimico, il cognome rappresenta il “cuore”, mentre il prenome e gli altri elementi distintivi del tipo di attività esercitata o di uso comune sono di regola privi di autonoma capacità distintiva, viepiù laddove la denominazione comune sia utilizzata con caratteri tipografici e modalità tali da aumentare il pericolo di confusione. Ne consegue che l’anteriorità dell’uso del segno distintivo contenente un patronimico comporta il venir meno della facoltà dell’omonimo imprenditore concorrente di usare l’identico patronimico quale segno distintivo o quale segmento del proprio segno distintivo, salva l’attuazione di una differenziazione tale da evitare la (altrimenti presunta) confondibilità tra imprese e relativi prodotti.

La funzione dell’art. 2563 c.c. non è in realtà quella distintiva dell’impresa rispetto alle altre concorrenti, ma quella indicativa del collegamento interno tra impresa e persona fisica dell’imprenditore, volta a tutelare l’interesse dei terzi creditori: poiché tale funzione non interferisce con la disciplina posta a tutela dell’interesse alla differenziazione delle imprese, si ritiene che il rispetto del c.d. principio di verità non possa mai comportare un’attenuazione della tutela del segno distintivo anteriore contro la confondibilità.

La confondibilità tra prodotti/servizi non è esclusa dalla differenza qualitativa tra gli stessi (Cass. n. 17144/2009), dalla circostanza che i prodotti del titolare del marchio siano più costosi e raffinati di quelli del contraffattore (Cass. n. 5091/2000) o dal fatto che tale marchio goda di maggiore rinomanza rispetto al segno distintivo del contraffattore, così come va altresì escluso che costituiscano validi elementi di differenziazione la diversità dei canali distributivi e il differente target di clientela (Cass. n. 17144/2009), o l’aggiunta da parte del contraffattore di un proprio segno o segmento distintivo sul prodotto recante il marchio contraffatto (Cass. n. 1249/2013; Cass. n. 14684/2007).

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di reclamo avverso un’ordinanza cautelare con la quale era stato inibito ex art. 131 c.p.i. l’illegittimo utilizzo da parte del reclamante della denominazione presente nell’insegna e nel sito internet dello stesso, in quanto pressoché identica al marchio registrato da un’impresa concorrente. Nel rigettare il reclamo il Collegio precisa la portata della tutela che deve essere assicurata ai marchi patronimici.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)




Tribunale di Brescia, decreto del 11 giugno 2024, n. 2501 – azione di responsabilità ex art. 2476 c.c., gravi irregolarità nella gestione, violazione dei doveri degli amministratori, amministratori di fatto

L’art. 2476, comma 3 c.c. riconosce espressamente la legittimazione individuale del socio a proporre l’azione sociale di responsabilità come ipotesi di legittimazione straordinaria, riconducibile alla sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c. (cfr. Cass. 2624/2024). Pertanto, qualora l’azione di responsabilità sia esercitata dalla società, i soci non vengono privati della legittimazione a restare in giudizio per sostenere – ad adiuvandum – le ragioni risarcitorie dell’ente.

Ai fini della proposizione dell’azione di responsabilità, in caso di fuoriuscita di somme dall’attivo della società, quest’ultima potrà limitarsi ad allegare l’inadempimento consistente nella distrazione di dette risorse, mentre compete all’amministratore la prova del corretto adempimento e dunque della destinazione del patrimonio all’estinzione di debiti sociali oppure allo svolgimento dell’attività sociale (cfr. Cass. 12567/2021 e Cass. 25631/2023).

Per provare che il denaro prelevato dal patrimonio sociale sia stato utilizzate per estinguere i debiti della società, è necessario allegare la prova del fatto che il pagamento in contanti sia avvenuto con il denaro oggetto dei prelevamenti specificamente contestati e quindi che vi sia corrispondenza tra le somme prelevate oggetto di censura e gli importi indicati nelle quietanze di pagamento.

Il pagamento da parte della società della manutenzione di un bene privato di proprietà dell’amministratore integra un illecito distrattivo qualora: i) non risulti che il rimborso di tali spese personali sia stato autorizzato dall’assemblea e ii) non sia specificamente dimostrato che l’utilizzo di tale bene sia strettamente funzionale allo svolgimento dell’attività gestoria dell’amministratore.

La persona che, benché priva della corrispondente investitura formale, si accerti essersi inserita nella gestione della società, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, va considerata amministratore di fatto ove tale ingerenza, lungi dall’esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza (Cass. 1546/2022). A tal proposito, ai fini di determinare se una serie di atti integri il carattere “completo e sistematico” dell’operato gestorio di fatto, è necessario constatare che questa abbia svolto una pluralità di attività in modo reiterato per conto della società (i.e., trattative negoziali, stipula di contratti di fornitura e subappalto, formulazione di ordini di acquisto, pattuizione dei compensi degli operai, gestione dei cantieri) pur senza rivestire incarichi formali né risultare collaboratori o dipendenti di della stessa.

Gli amministratori di fatto sono soggetti al regime di responsabilità proprio dell’amministratore di diritto e pertanto gli stessi sono solidalmente responsabili per il danno cagionato alla società, nell’arco temporale in cui hanno svolto di fatto funzioni gestorie, dall’amministratore di diritto.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento in cui la società attrice chiedeva al Tribunale di condannare l’amministratore al risarcimento del danno patrimoniale sofferto in virtù degli indebiti prelievi da questo effettuati. Il convenuto chiedeva al Tribunale di accertare e dichiarare che all’epoca in cui si svolgevano i fatti due soggetti hanno svolto in via di fatto funzioni gestorie società, con conseguente assunzione, in capo ad entrambi, della qualità di amministratori di fatto e, come tali, solidalmente responsabili con lui stesso.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)