Tribunale di Brescia, ordinanza del 30 luglio 2024, n. 893 – marchio, malafede, registrazione del marchio

La malafede nella registrazione di un marchio si concretizza esclusivamente qualora ricorrano elementi oggettivi e concordanti che dimostrino l’intento di pregiudicare gli interessi di terzi o di ottenere un diritto esclusivo per finalità estranee alla funzione distintiva del marchio stesso. La malafede non può, dunque, essere presunta dal mancato svolgimento di un’attività economica corrispondente ai prodotti e servizi indicati al momento della presentazione della domanda di registrazione, in quanto il richiedente non è tenuto a specificare né a conoscere con esattezza l’uso che intende fare del marchio richiesto; il richiedente dispone, difatti, di un termine pari a cinque anni per dare avvio a un uso effettivo del marchio, conforme alla sua funzione essenziale (Corte Giustizia Unione Europea, Sez. IV, 29/01/2020, n. 371/18).

La nuova registrazione di un marchio identico a quello oggetto di decadenza per il mancato utilizzo del segno nel quinquennio non implica automaticamente la sussistenza di malafede nella registrazione del nuovo marchio: il titolare del marchio decaduto ha, difatti, la facoltà di riprendere l’uso del segno, qualora quest’ultimo non sia stato medio tempore registrato o utilizzato da altri soggetti. Coerentemente, egli potrà validamente procedere a una nuova registrazione del marchio stesso (cfr. Cass. civ., Sez. I, n. 7970/2017).

La malafede nella registrazione di un marchio deve essere ravvisata nel comportamento di chi, eventualmente a conoscenza dell’utilizzo altrui del segno, depositi una domanda di registrazione di marchio senza l’intenzione reale di voler utilizzare quel segno, ma, sostanzialmente, per precludere ingiustificatamente ad altri di poterlo utilizzare sul mercato.

Il rischio di confusione per il pubblico dei consumatori può derivare dall’identità fonetica o da minime variazioni grafiche, come l’aggiunta di prefissi privi di autonoma capacità distintiva, che non alterano il nucleo semantico del marchio registrato.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento cautelare promosso da una società a responsabilità limitata per chiedere la descrizione e l’inibitoria della produzione e commercializzazione, nonché il ritiro dal commercio, di dispositivi farmaceutici contraffattori. I resistenti si costituivano eccependo, inter alia, la sussistenza di malafede nella registrazione del marchio da parte del ricorrente.

(Massima a cura di Andrea Di Gregorio)




Tribunale di Brescia, sentenza del 24 luglio 2025, n. 3285 – segni distintivi, tutela del marchio registrato, contraffazione

In tema di segni distintivi, il diritto dell’imprenditore di inserire il proprio cognome nell’insegna adottata per contraddistinguere i locali ove esercita l’attività commerciale trova il proprio limite negli artt. 20 c.p.i. e 2564 c.c., quest’ultimo richiamato – limitatamente al 1° co. – dall’art. 2568 c.c., non potendo egli adottare segni distintivi idonei a creare confusione con segni anteriormente registrati o utilizzati da terzi. I marchi denominativi contenenti il medesimo cognome sono, di regola, confondibili, anche in presenza di prenomi o ulteriori elementi accessori di differenziazione, atteso che il cognome costituisce il nucleo distintivo del segno, mentre gli altri elementi risultano in genere privi di autonoma capacità distintiva. L’anteriorità dell’uso di un segno contenente un patronimico preclude, pertanto, all’omonimo imprenditore concorrente di avvalersi del medesimo patronimico quale segno distintivo o quale parte di esso, salvo introdurre differenziazioni idonee ad escludere la confondibilità, altrimenti presunta in via generale.

La funzione dell’art. 2563 c.c., volta a garantire la corrispondenza tra impresa e persona fisica dell’imprenditore nell’interesse dei terzi creditori, non incide sulla disciplina di tutela del marchio anteriore, sicché il c.d. principio di verità non può attenuare la protezione contro la confondibilità. A tal fine rilevano non solo l’identità del cognome, ma anche le modalità grafiche rappresentative del segno suscettibili di generare pericolo di confusione, senza che assumano rilievo la distanza geografica fra le sedi delle rispettive attività, differenze di qualità o prezzo dei prodotti, il diverso target di clientela, l’aggiunta da parte del contraffattore di ulteriori segni distintivi o la mancata prova da parte del titolare del marchio contraffatto dell’acquisizione di una clientela consolidata nella città in cui ha sede l’impresa del contraffattore.

Qualora il titolare del marchio contraffatto lamenti di aver patito un danno a titolo di lucro cessante per effetto della contraffazione subìta, ha l’onere di allegare e di provare tale pregiudizio, posto che la liquidazione equitativa di cui all’art. 1226 c.c. non può essere utilizzata per supplire a carenze di allegazione e di prova, così come il criterio di cui all’art. 125, 2° co., c.p.i. (cfr. Cass. n. 24635/2021).

Principi espressi nell’ambito di un giudizio promosso per la tutela di un marchio patronimico registrato, del quale parte attrice aveva lamentato la contraffazione e l’usurpazione a seguito dell’utilizzo da parte del contraffattore di un’insegna confondibile con il proprio segno, contenente lo stesso cognome e utilizzata nell’ambito della medesima attività commerciale. Dopo che in sede cautelare il giudice aveva accolto la domanda di inibitoria ex art. 131 c.p.i., ravvisando la contraffazione del marchio ai sensi dell’art. 20 c.p.i. e il periculum in mora connesso al pregiudizio economico e reputazionale derivante dalla sovrapposizione dei segni, nel giudizio di merito parte attrice chiedeva, previo accertamento della contraffazione lamentata, la pronuncia definitiva di inibitoria,  la rimozione di ogni riferimento al segno contestato e il risarcimento dei danni asseritamente patiti, mentre  il convenuto, successivamente costituitosi, negava la contraffazione e invocava la legittimità dell’uso del proprio cognome a fini imprenditoriali.

(Massime a cura di Nicola Gialdini)