Tribunale di Brescia, sentenza del 18 giugno 2024, n. 2616 — fideiussione, clausola di pagamento «a prima richiesta», accertamento del giudice in ordine alla volontà in concreto manifestata dalle parti, fideiussione prestata in conformità al “modello ABI”, nullità parziale, scadenza dell’obbligazione principale, decadenza ex art. 1957 c.c., limiti di derogabilità

 Le garanzie rilasciate mediante impiego di moduli predisposti dalla banca devono essere qualificate come fideiussioni ove il tenore letterale delle medesime sia chiaramente intitolato all’istituto della fideiussione e ad esso contenga sistematici richiami.

Il mero inserimento della clausola di pagamento “a prima richiesta” nella fideiussione omnibus non vale necessariamente a qualificare la garanzia come “contratto autonomo di garanzia”, mancando la previsione che invero caratterizza il contratto autonomo di garanzia, ossia la rinunzia espressa del garante alla facoltà di opporre eccezioni in deroga all’art. 1945 c.c. (clausola cosiddetta “senza eccezioni”). Nonostante l’inserimento di detta clausola, il negozio resta dunque una fideiussione, posto che il garante è chiamato ad adempiere alla medesima prestazione cui è tenuto il debitore principale, con ciò differenziandosi dal garante autonomo, la cui obbligazione non ha ad oggetto l’adempimento del debito principale, essendo rivolta ad indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore (Cass. n. 84/2010, n. 22233/2014, n. 16825/2016).

In presenza di fideiussioni rilasciate mediante impiego di moduli che costituiscono fedele riproduzione del “modello ABI” si presume che la garanzia predisposta dall’istituto di credito e sottoposta alla sottoscrizione da parte dei fideiussori sia stata modellata recependo in chiave monolitica lo schema di categoria, in quanto concordato nell’interesse del sistema bancario, con esclusione di possibili differenti pattuizioni ad opera delle parti. Sì che, ove non sia offerta la prova di circostanze idonee a dimostrare che le clausole in contestazione sono state in realtà frutto di un’autonoma e consensuale negoziazione tra le parti, ne va rilevata la nullità. Al riguardo, in adesione al pronunciamento delle Sezioni Unite di Cassazione n. 41994/2021, è da ritenersi che la nullità sia – di norma – soltanto parziale ai sensi degli artt. 2, comma 3, l. n. 287/1990 e dell’art. 1419 c.c., in relazione cioè alle sole clausole della fideiussione che riproducono quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata — perché restrittive, in concreto, della libera concorrenza —.

È vero che la clausola con cui il debitore si impegni a soddisfare il creditore “a semplice richiesta” (clausola n. 7 del contratto) può essere interpretata come deroga pattizia alla forma con cui l’onere di avanzare istanza entro il termine di cui all’art. 1957 c.c. deve essere osservato, vale a dire con proposizione di un’azione giudiziaria (Cass. n. 7345/1995). Tuttavia, il chiaro tenore di una clausola di rinunzia al termine di decadenza ex art. 1957 c.c. (clausola n. 6) rivela che le parti hanno voluto derogare integralmente al disposto dell’art. 1957 c.c. ed appare perciò arduo, sul piano ermeneutico, ritenere che con l’introduzione della successiva clausola n. 7, che prevede l’obbligo dei fideiussori di pagare “immediatamente alla Banca, a semplice richiesta scritta, anche in caso di opposizione del debitore” , le parti abbiano voluto apportare un’ulteriore deroga, di carattere tuttavia solo parziale, al disposto della norma. Di talché, rilevata la nullità — per le ragioni sopra esposte (id est, violazione della normativa antitrust) — della clausola di deroga al disposto dell’art. 1957 c.c., appare da escludersi che l’inserimento dell’ulteriore clausola (pur valida) di pagamento “a semplice richiesta” possa rendere sufficiente la mera iniziativa stragiudiziale del creditore al fine di evitare la decadenza contemplata dalla norma citata (sulla inidoneità del mero atto stragiudiziale già Cass. n. 283/1997).

Principi espressi nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, con il quale era stato ingiunto al debitore principale e ai fideiussori di pagare, in favore della banca, la somma di euro XXX derivante da contratto di mutuo fondiario concesso dalla banca al debitore principale. Nel giudizio di opposizione i garanti contestano la fondatezza delle pretese creditorie azionate dalla banca nei loro confronti, lamentando la nullità (totale o parziale) delle fideiussioni omnibus per violazione della normativa antitrust (l. 287/1990) o comunque per immeritevolezza ex art. 1322, comma 2, c.c., nonché l’intervenuta decadenza della banca, ex art. 1957 c.c., dal diritto di azionare il credito relativo al contratto di mutuo fondiario nei confronti dei garanti, in difetto di tempestiva iniziativa giudiziale nei confronti del debitore principale.

(Massime a cura di Luisa Pascucci)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 12 giugno 2024 – insegna, nome a dominio, contraffazione di marchio registrato, inibitoria ex art. 131 c.p.i.

Il diritto di un imprenditore di mantenere  il proprio cognome all’interno dell’insegna sotto cui esercita l’attività commerciale e nella pagina internet utilizzata per  pubblicizzare detta attività trova il limite degli artt. 20 c.p.i. e 2564 c.c., norma, quest’ultima, applicabile all’insegna in forza dell’espresso richiamo contenuto nell’art. 2568 c.c. Ne consegue che a costui è inibito l’utilizzo di un’insegna che riproduca il marchio registrato da un’impresa concorrente in epoca anteriore, quand’anche si tratti di un marchio patronimico, corrispondente al suo cognome.

È consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui i marchi denominativi e gli altri segni distintivi contenenti lo stesso cognome sono, di regola, confondibili, anche in presenza di prenomi diversi o di altri elementi di differenziazione: il principio deriva dalla regola di esperienza per cui, salvo il caso di cognomi molto diffusi e/o già ampiamente utilizzati nello specifico settore di riferimento, i consumatori tengono generalmente a mente il cognome piuttosto che il nome (Cass. n. 8119/2009; Cass. n. 14483/2002 e Cass. n. 7482/1995).

Nei segni distintivi costituiti da un patronimico, il cognome rappresenta il “cuore”, mentre il prenome e gli altri elementi distintivi del tipo di attività esercitata o di uso comune sono di regola privi di autonoma capacità distintiva, viepiù laddove la denominazione comune sia utilizzata con caratteri tipografici e modalità tali da aumentare il pericolo di confusione. Ne consegue che l’anteriorità dell’uso del segno distintivo contenente un patronimico comporta il venir meno della facoltà dell’omonimo imprenditore concorrente di usare l’identico patronimico quale segno distintivo o quale segmento del proprio segno distintivo, salva l’attuazione di una differenziazione tale da evitare la (altrimenti presunta) confondibilità tra imprese e relativi prodotti.

La funzione dell’art. 2563 c.c. non è in realtà quella distintiva dell’impresa rispetto alle altre concorrenti, ma quella indicativa del collegamento interno tra impresa e persona fisica dell’imprenditore, volta a tutelare l’interesse dei terzi creditori: poiché tale funzione non interferisce con la disciplina posta a tutela dell’interesse alla differenziazione delle imprese, si ritiene che il rispetto del c.d. principio di verità non possa mai comportare un’attenuazione della tutela del segno distintivo anteriore contro la confondibilità.

La confondibilità tra prodotti/servizi non è esclusa dalla differenza qualitativa tra gli stessi (Cass. n. 17144/2009), dalla circostanza che i prodotti del titolare del marchio siano più costosi e raffinati di quelli del contraffattore (Cass. n. 5091/2000) o dal fatto che tale marchio goda di maggiore rinomanza rispetto al segno distintivo del contraffattore, così come va altresì escluso che costituiscano validi elementi di differenziazione la diversità dei canali distributivi e il differente target di clientela (Cass. n. 17144/2009), o l’aggiunta da parte del contraffattore di un proprio segno o segmento distintivo sul prodotto recante il marchio contraffatto (Cass. n. 1249/2013; Cass. n. 14684/2007).

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di reclamo avverso un’ordinanza cautelare con la quale era stato inibito ex art. 131 c.p.i. l’illegittimo utilizzo da parte del reclamante della denominazione presente nell’insegna e nel sito internet dello stesso, in quanto pressoché identica al marchio registrato da un’impresa concorrente. Nel rigettare il reclamo il Collegio precisa la portata della tutela che deve essere assicurata ai marchi patronimici.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)




Tribunale di Brescia, decreto del 11 giugno 2024, n. 2501 – azione di responsabilità ex art. 2476 c.c., gravi irregolarità nella gestione, violazione dei doveri degli amministratori, amministratori di fatto

L’art. 2476, comma 3 c.c. riconosce espressamente la legittimazione individuale del socio a proporre l’azione sociale di responsabilità come ipotesi di legittimazione straordinaria, riconducibile alla sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c. (cfr. Cass. 2624/2024). Pertanto, qualora l’azione di responsabilità sia esercitata dalla società, i soci non vengono privati della legittimazione a restare in giudizio per sostenere – ad adiuvandum – le ragioni risarcitorie dell’ente.

Ai fini della proposizione dell’azione di responsabilità, in caso di fuoriuscita di somme dall’attivo della società, quest’ultima potrà limitarsi ad allegare l’inadempimento consistente nella distrazione di dette risorse, mentre compete all’amministratore la prova del corretto adempimento e dunque della destinazione del patrimonio all’estinzione di debiti sociali oppure allo svolgimento dell’attività sociale (cfr. Cass. 12567/2021 e Cass. 25631/2023).

Per provare che il denaro prelevato dal patrimonio sociale sia stato utilizzate per estinguere i debiti della società, è necessario allegare la prova del fatto che il pagamento in contanti sia avvenuto con il denaro oggetto dei prelevamenti specificamente contestati e quindi che vi sia corrispondenza tra le somme prelevate oggetto di censura e gli importi indicati nelle quietanze di pagamento.

Il pagamento da parte della società della manutenzione di un bene privato di proprietà dell’amministratore integra un illecito distrattivo qualora: i) non risulti che il rimborso di tali spese personali sia stato autorizzato dall’assemblea e ii) non sia specificamente dimostrato che l’utilizzo di tale bene sia strettamente funzionale allo svolgimento dell’attività gestoria dell’amministratore.

La persona che, benché priva della corrispondente investitura formale, si accerti essersi inserita nella gestione della società, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, va considerata amministratore di fatto ove tale ingerenza, lungi dall’esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza (Cass. 1546/2022). A tal proposito, ai fini di determinare se una serie di atti integri il carattere “completo e sistematico” dell’operato gestorio di fatto, è necessario constatare che questa abbia svolto una pluralità di attività in modo reiterato per conto della società (i.e., trattative negoziali, stipula di contratti di fornitura e subappalto, formulazione di ordini di acquisto, pattuizione dei compensi degli operai, gestione dei cantieri) pur senza rivestire incarichi formali né risultare collaboratori o dipendenti di della stessa.

Gli amministratori di fatto sono soggetti al regime di responsabilità proprio dell’amministratore di diritto e pertanto gli stessi sono solidalmente responsabili per il danno cagionato alla società, nell’arco temporale in cui hanno svolto di fatto funzioni gestorie, dall’amministratore di diritto.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento in cui la società attrice chiedeva al Tribunale di condannare l’amministratore al risarcimento del danno patrimoniale sofferto in virtù degli indebiti prelievi da questo effettuati. Il convenuto chiedeva al Tribunale di accertare e dichiarare che all’epoca in cui si svolgevano i fatti due soggetti hanno svolto in via di fatto funzioni gestorie società, con conseguente assunzione, in capo ad entrambi, della qualità di amministratori di fatto e, come tali, solidalmente responsabili con lui stesso.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)