Tribunale ordinario di Brescia, ordinanza del 30 gennaio 2024, n. 138 – Brevetti, Azione inibitoria ex art. 131 c.p.i, Procedimento cautelare

Anche nel diritto industriale, ai fini della valutazione delle condizioni necessarie per esperire l’inibitoria cautelare ex art. 131 c.p.i., è necessario valutare la sussistenza dell’urgenza connessa al periculum in mora che con tale provvedimento si intende scongiurare. Pertanto, tale requisito non può ritenersi “insito” e “presunto” in re ipsa nella violazione, essendo – invece – necessario un preciso accertamento riferito al caso concreto che presupponga, da parte del ricorrente, l’allegazione e la prova dello specifico pericolo e pregiudizio che con il provvedimento cautelare si vuole evitare.

L’inerzia nel presentare la domanda cautelare protrattasi per un prolungato lasso di tempo, in caso di consapevolezza del ricorrente tanto della violazione in atto quanto dell’autore dell’illecito, è idonea ad escludere l’urgenza del periculum in mora necessaria ai fini della proposizione dell’istanza stessa.

Princìpi espressi nell’ambito di reclamo ove il Tribunale ha respinto – per assorbente carenza del periculum in mora – la domanda con cui il reclamante chiedeva l’inibitoria cautelare ex art. 131 c.p.i. in merito alla violazione del proprio diritto brevettuale.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 16 gennaio 2024, n. 60 – procedimento cautelare, azione di contraffazione, marchi, marchi di forma,  marchi non registrati e marchi registrati,  fumus boni iuris e periculum in mora della contraffazione, atti di concorrenza sleale

Differentemente dai marchi registrati, per i quali vale la presunzione di validità (presunzione comunque superabile mediante prova dell’invalidità), per i marchi di fatto è onere della parte che ne invoca la tutela allegare specificamente e dimostrare la validità del segno, dimostrandone il carattere distintivo e i tratti di novità e di originalità.

Con riguardo ai marchi di forma non registrati, l’individuazione del carattere distintivo, della novità e della originalità deve essere specifica, non potendosi ritenere assolto il relativo onere probatorio nel caso in cui la parte intenda fondare la propria pretesa sul mero esame visivo delle immagini raffiguranti il prodotto allegate nella documentazione offerta in giudizio.

Deve escludersi la sussistenza di una capacità distintiva “intrinseca” nelle forme comuni, non originali in sé né nuove.

Come recentemente affermato dalla giurisprudenza, «Può essere registrato e tutelato come marchio di forma quel prodotto la cui pubblicizzazione e commercializzazione ne abbiano favorito la diffusione tra il pubblico al punto da comportare la generalizzata riconducibilità di quella determinata forma dell’oggetto ad una specifica impresa, consentendo l’acquisto, tramite il c.d. “secondary meaning”, di capacità distintiva del marchio che ne era originariamente privo» (cfr. Cass. n. 30455/2022).

Sussiste “secondary meaning” quando «[…] il marchio, in origine sprovvisto di capacità distintiva per genericità, mera descrittività o mancanza di originalità, acquisti tale capacità in conseguenza del consolidarsi del suo uso sul mercato» (cfr. Cass. n. 53/2022). L’acquisto del carattere distintivo tramite il “secondary meaning” può essere desunto da elementi indiziari, quali indagini demoscopiche, sempre che «almeno una frazione significativa del pubblico destinatario identifichi grazie al marchio i prodotti o servizi di cui trattasi come provenienti da un’impresa determinata» (cfr. Trib. I gr. CE, 2 luglio 2009, T-414/07; analogamente Corte Giust. CE, 4 maggio 1999, C-108/97).

Configurano elementi indiziari anche le campagne pubblicitarie svolte e gli investimenti pubblicitari effettuati, relativamente ai quali è onere della parte fornire allegazioni specificamente riferibili ai prodotti contraddistinti dai marchi dei quali si invoca tutela.

Relativamente ai marchi registrati, ai fini della decadenza dai diritti sul segno per volgarizzazione (art. 26 c.p.i), la presenza sul mercato di prodotti aventi forme del tutto analoghe a quelle dei prodotti contraddistinti dai marchi di cui si invoca tutela è un dato di per sé neutro.

Nell’ambito di un giudizio cautelare instaurato nell’ambito di un’azione di merito tesa ad accertare la contraffazione di marchi registrati, ricorre il “fumus” della contraffazione ai sensi dell’art. 20, c.1, lett. b) c.p.i. non solo in caso di esatta riproduzione della forma, ma anche quando la stessa presenti un elemento inidoneo a conferire al prodotto un’impressione radicalmente differente rispetto a quella conferita dal segno oggetto di privativa, qualora tale elemento sia tradizionalmente irrilevante per il consumatore di riferimento.  

Nell’ambito di un giudizio cautelare instaurato nell’ambito di un’azione di merito tesa ad accertare la contraffazione di marchi registrati sussiste il “periculum in mora” quando l’interferenza censurata sia suscettibile di arrecare un pregiudizio al titolare del marchio in termini di svilimento dello stesso, in particolare laddove si consideri che i prodotti oggetto della contraffazione sono venduti a prezzi inferiori. Tale pregiudizio, suscettibile di assumere portata maggiore nelle more del giudizio di cognizione piena, non è adeguatamente ristorabile per equivalente.

La sussistenza del “periculum in mora” non è esclusa dall’inerzia protratta dal titolare del marchio nell’esercizio giudiziale delle sue ragioni, né dalla prolungata coesistenza sul mercato dei prodotti delle rispettive imprese, essendo dirimente in proposito l’imminenza del pericolo insita nell’attualità della produzione e commercio in violazione delle privative registrate. Tali circostanze rilevano, invece, nella modulazione temporale delle misure cautelari concesse, dovendosi accordare al resistente, compatibilmente con le esigenze cautelari, tempi ragionevoli per adeguare al provvedimento la sua organizzazione produttiva e commerciale in modo tempestivo, e possono eventualmente rilevare altresì in termini di riduzione del danno cagionato.

In tema di illeciti concorrenziali, il divieto di imitazione servile ai sensi dell’art. 2598, n.1 c.c. tutela l’interesse a che l’imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente, giacchè l’imitazione servile dei prodotti altrui che non integri violazione di diritti di privativa industriale può configurare atto di concorrenza sleale soltanto quando riguardi elementi estrinseci e formali dei prodotti stessi, che abbiano idoneità individualizzante.

In tema di imitazione servile non è idonea a ingenerare confusione la presenza, sulle confezioni dei prodotti, di marchi denominativi e figurativi radicalmente differenti che non condividano con i marchi oggetto di privativa né il nucleo concettuale, né alcun aspetto fonetico, stilistico o grafico significativo.

Ricorre appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598, n. 2 c.c., quando un’impresa, in forme pubblicitarie, attribuisca ai propri prodotti qualità non possedute, ma appartenenti ai prodotti dell’impresa concorrente.

È da ricondursi all’art. 2598 n. 3, stante l’utilizzo di mezzi non conformi alla lealtà commerciale suscettibile di danneggiare l’azienda altrui, il cd. “agganciamento parassitario”, fattispecie che può realizzarsi mediante l’utilizzo di un packaging che, sotto il profilo estetico, è del tutto simile a quello utilizzato per prodotti omologhi (ad esempio per combinazione di forma e di ingredienti) maggiormente noti, e quindi idoneo ad evocare il ricordo dell’immagine della confezione e del prodotto a marchio altrui, pubblicizzati a livello nazionale.

In tema di agganciamento parassitario, il vantaggio ingiusto ottenuto dal concorrente consiste nel realizzare un significativo risparmio in termini di investimenti necessari per accreditare autonomamente e commercializzare i propri prodotti sul mercato; a tale vantaggio corrisponde per l’impresa concorrente un indebito svantaggio, individuabile nella frustrazione dei suoi investimenti (produttivi, di marketing, pubblicitari), nella potenziale erosione di una quota di mercato in ragione dei prezzi più convenienti praticati dalla concorrente (condizione resa possibile anche grazie al risparmio conseguito, riconducibile ad un atteggiamento commerciale di tipo parassitario), nonché, potenzialmente, in uno svilimento dei suoi marchi.

Principi espressi nell’ambito di un giudizio cautelare funzionale ad un giudizio di merito volto ad accertare la contraffazione di marchi registrati e non registrati, instaurato da una società a responsabilità limitata, attiva nel settore della produzione e commercializzazione di prodotti alimentari, volto ad ottenere l’inibitoria di asseriti illeciti contraffattori e di concorrenza sleale (per imitazione servile, appropriazione di pregi e agganciamento parassitario).

(Massime a cura di Vanessa Battiato)




Tribunale di Brescia, sentenza del 12 gennaio 2024, n. 117 – società a responsabilità limitata, azione sociale di responsabilità, responsabilità dell’amministratore unico

L’art. 2476, c. 3, c.c. legittima espressamente ciascun socio di s.r.l. a promuovere l’azione di responsabilità contro gli amministratori senza che sia necessario alcun atto autorizzativo da parte della società, e quindi anche in assenza di previa delibera assembleare. Infatti, nell’ambito della disciplina della s.r.l., non è riprodotta una disposizione analoga a quella di cui all’art. 2393, c. 1, c.c. e non pare possibile l’applicazione analogica delle norme in tema di s.p.a. alle s.r.l., a fronte delle differenze anche strutturali tra i due tipi di società e della scelta legislativa di differenziare le due discipline. Essendo ciascun socio della s.r.l. legittimato all’azione di responsabilità sociale, senza alcuna limitazione in merito alla percentuale di quote possedute, sarebbe incoerente con tale previsione imporre alla società, diretta danneggiata, di promuovere l’azione sociale solamente previa delibera assunta con le maggioranze previste dal codice o dallo statuto.

Nell’ambito dell’azione di responsabilità introdotta dai soci nei confronti dell’amministratore, la società, pur formalmente convenuta (in quanto litisconsorte necessario), assume la veste sostanziale di attrice, quantomeno in considerazione del fatto che essa è la beneficiaria della domanda di condanna formulata dai soci.

Come affermato dalla giurisprudenza precedente, «l’azione di responsabilità sociale promossa contro amministratori e sindaci di società di capitali ha natura contrattuale, dovendo di conseguenza l’attore provare la sussistenza delle violazioni contestate e il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, mentre sul convenuto incombe l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla sua condotta, fornendo la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi imposti» (cfr. Cass. n. 2975/2020). Tale onere probatorio non si atteggia in modo diverso nel caso in cui l’azione sociale sia promossa dai soci, trattandosi di una mera sostituzione processuale. Ne deriva che, in un giudizio nel quale sia contestato l’utilizzo del denaro della società da parte dell’amministratore unico, è onere della parte attrice allegare l’effettuazione di operazioni non connesse all’oggetto sociale o comunque all’attività della società, con ciò allegando l’inadempimento dei doveri incombenti sullo stesso a tutela del patrimonio aziendale, il danno e il nesso di causa tra l’inadempimento e il danno. È invece onere del convenuto provare che tali prelievi erano in qualche modo giustificati o che sono stati eseguiti da terzi.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio instaurato a seguito dell’esercizio, da parte di due soci di una società a responsabilità limitata semplificata, dell’azione sociale di responsabilità contro il precedente amministratore unico, nel corso del quale gli attori avevano chiesto la condanna di quest’ultimo al risarcimento di asseriti danni subiti dalla società derivanti dall’utilizzo di denaro da parte dell’amministratore a favore di se stesso e di terzi (nel caso di specie, anche a seguito dell’assunzione di prove testimoniali, il Tribunale ha tuttavia riconosciuto che le somme prelevate erano dovute all’amministratore ed esigibili a titolo di compenso per l’attività svolta in virtù di accordi non formalizzati tra i soci).

(Massime a cura di Vanessa Battiato)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza dell’8 gennaio 2024, n. 63 – arbitrato, lodo irrituale, motivi di impugnazione, errore essenziale di fatto, legittimazione passiva dell’arbitro

Il lodo arbitrale irrituale reso ai sensi dell’art. 808-ter c.p.c., producendo i suoi effetti sostanziali esclusivamente nei confronti delle parti, può essere impugnato soltanto da chi abbia assunto tale veste nel procedimento in cui esso è stato pronunciato. Sicché, l’arbitro non è legittimato a promuovere autonomamente l’impugnazione del lodo né è, in astratto, munito di legittimazione passiva in sede di impugnazione del medesimo, essendo in posizione di terzietà rispetto alle parti e non potendo far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui fuori dei casi espressamente previsti dalla legge (Cass., 2357/2017).

Se è certamente vero che gli effetti del lodo irrituale si producono esclusivamente nei confronti delle parti sostanziali dell’arbitrato e che l’arbitro non è legittimato a promuovere autonomamente l’impugnazione, ai fini della valutazione sulla legittimazione passiva dell’arbitro in sede di impugnazione del lodo irrituale, devono essere presi in considerazione i motivi specifici di impugnazione in relazione alla natura del lodo irrituale, deve considerarsi che questi risolve la controversia attraverso uno strumento strettamente negoziale. Attesa dunque la natura negoziale dell’arbitrato irrituale, il relativo lodo deve ritenersi impugnabile, oltre che per i motivi previsti dall’art. 808-ter c.p.c., anche come atto negoziale, ossia anche per i vizi che sono causa di nullità o di annullabilità del contratto. Pertanto, ancorché gli effetti del lodo irrituale riguardino le sole parti sostanziali dell’arbitrato, laddove sia dedotto un vizio della volontà dell’arbitro, quest’ultimo sarà dotato di legittimazione passiva a contraddire sul punto.

Nell’arbitrato irrituale, il lodo può essere impugnato per errore essenziale esclusivamente quando la formazione della volontà degli arbitri sia stata deviata da un’alterata percezione o da una falsa rappresentazione della realtà e degli elementi di fatto sottoposti al loro esame (c.d. errore di fatto), e non anche quando la deviazione attenga alla valutazione di una realtà i cui elementi siano stati esattamente percepiti (c.d. errore di giudizio); con la conseguenza che il lodo irrituale non è impugnabile per “errores in iudicando” (come è invece consentito, dall’ultimo comma dell’art. 829 cod. proc. civ., quanto al lodo rituale) (Cass., 7654/2003). Pertanto, ai fini dell’impugnativa della determinazione negoziale, l’errore che rileva è soltanto quello di fatto essenziale che abbia inficiato la volontà degli arbitri per effetto di una falsa rappresentazione dei fatti dedotti. Non sarà, invece, sufficiente, l’errore consistente nell’omessa considerazione di un documento probatorio.

L’inadeguatezza della motivazione del lodo irrituale non rientra tra i motivi di impugnazione di cui all’art. 808-ter c.p.c. né. Tantomeno, tra i vizi suscettibili di rendere annullabile la determinazione arbitrale. La stesura di una motivazione inadeguata, tuttavia, può costituire una violazione del dovere di diligenza incombente sull’arbitro e potrà dunque essere fatta valere a titolo di responsabilità per inadempimento negoziale. Tale responsabilità, anche se accertata, non è tuttavia capace di incidere sulla validità della deliberazione da questi assunta, se non dipende da una sua errata percezione della realtà.

I princìpi esposti sono stati espressi nell’ambito di una controversia riguardante l’impugnazione di un lodo irrituale pronunciato all’esito di un giudizio di responsabilità degli amministratori di una società a responsabilità limitata in liquidazione ex art. 2476, co. 7, c.c., insorta tra una società in liquidazione (contumace) e i suoi amministratori, da un lato, e i suoi soci e i relativi fideiussori dall’altro, nonché nei confronti dell’arbitro unico. I soci e i loro fideiussori, soccombenti in sede arbitrale in merito all’asserita responsabilità degli amministratori della società in liquidazione, promuovevano molteplici doglianze denunziando: (i) l’omessa pronuncia dell’arbitro rispetto a una domanda di risarcimento del danno diretto; (ii) l’errore essenziale di fatto dell’arbitro unico consistente nell’aver ignorato la documentazione prodotta relativa al valore di stima di un compendio immobiliare; (iii) l’inadeguatezza di parte della motivazione della decisione resa dall’arbitro unico; (iv) l’errore essenziale di fatto dell’arbitro unico consistente nell’aver liquidato, a titolo di risarcimento, una somma inferiore rispetto a quella asseritamente dovuta; (v) l’errore essenziale di fatto dell’arbitro unico nell’aver escluso il risarcimento del danno patito dai fideiussori per la mancata liberazione dalla garanzia prestata; e (vi) l’errore (non essenziale di fatto) dell’arbitro unico nella liquidazione delle spese, in relazione al principio di soccombenza. La Corte d’appello ha ritenuto tutte le doglianze prive di fondamento ha integralmente rigettato l’opposizione proposta.

(Massime a cura di Leonardo Esposito)




Tribunale di Brescia, sentenza dell’8 gennaio 2024, n. 62 – Responsabilità dell’amministratore di s.r.l., Business judgment rule

Non può essere considerato responsabile nei confronti della s.r.l. gestita l’amministratore unico che abbia deciso di aderire ad un sistema fiscale meno favorevole in ragione dell’elevata incertezza relativa al rispetto dei requisiti richiesti per usufruire di un regime impositivo più vantaggioso, incertezza che avrebbe esposto la società al rischio significativo di contenzioso in sede tributaria e, in caso di soccombenza, all’obbligo di versamento di maggiori imposte, sanzioni e interessi.

L’amministratore di una società non risponde necessariamente degli (eventuali) risultati economici negativi dell’attività di impresa, ma solo quando tali risultati risultino conseguenza di scelte operate in violazione dell’obbligo di “agire informato” o caratterizzate da manifesta irragionevolezza (così Cass. n. 3409/2013).

La regola della business judgement rule assume una conformazione peculiare nel caso di esercizio di un’attività di impresa agricola poiché tale attività, per sua natura, sopporta, accanto alla naturale alea propria di ogni attività di impresa, l’ulteriore rischio “biologico” derivante dalla inevitabile soggezione alle incertezze dell’ambiente naturale.

Non può ritenersi in contrasto con l’obbligo di agire informato l’operato dell’amministratore che abbia fatto ricorso all’ausilio di professionisti per la necessaria assistenza tecnica in materia altamente specialistica e connotata da particolare incertezza applicativa, come quella fiscale.

Principi espressi nel contesto di un’azione di responsabilità promossa ex art. 2476, 3° co., c.c. da alcuni  soci di una s.r.l. che svolge attività agricola nei confronti dell’amministratore unico. Parte attrice sosteneva che la scelta dell’amministratore di adottare per un triennio il regime di tassazione ordinario dei redditi di impresa avrebbe comportato un danno alla società in termini di maggiori oneri fiscali sostenuti. Il tribunale ha rigettato integralmente la domanda, condannando gli attori alla rifusione delle spese di giudizio.

(massime a cura di Giovanni Gitti)