Tribunale di Brescia, sentenza del 29 maggio 2023, n. 1316 – appalti pubblici, modifica del contratto, jus variandi

La ratio dell’istituto dello jus variandi in materia di appalti pubblici è quella di consentire la soddisfazione del preminente interesse pubblico di adattamento del contratto concluso con la pubblica amministrazione alle “necessità” sopravvenute nel corso dell’esecuzione dell’opera o del servizio, senza che ciò obblighi a nuova procedura di affidamento.

Tale esigenza è contemperata dal divieto per la P.A. di imporre al contraente una variazione eccessiva (in aumento o diminuzione) degli obblighi contrattuali rispetto all’originaria previsione e dalla necessità che tale variazione sia ancorata a oggettive esigenze e aventi carattere imprevedibile e sopravvenute successivamente, nel corso dell’esecuzione del contratto.

Il diritto di modifica, che opera entro la misura massima del quinto (c.d. quinto d’obbligo) delle prestazioni contrattuali (massimale), attiene dunque alla fase esecutiva del rapporto e non a quella precedente, di formazione del vicolo contrattuale.

Ne consegue che la trasmissione dell’ordine di fornitura, avente ad oggetto il massimale contrattuale (nell’osservanza della cornice regolamentare di riferimento), rappresenta esclusivamente il momento di perfezionamento del contratto ma non integra ed esaurisce il diritto di modifica delle prestazioni contrattuali afferente alla successiva fase esecutiva del rapporto.

La prerogativa dello jus variandi non può dunque essere legittimamente esercitata per rimediare a  originari errori, come sono ad esempio gli errori di una stazione appaltante in sede di valutazione del fabbisogno o per eludere gli obblighi discendenti dal rispetto delle procedure ad evidenza pubblica attraverso un artificioso frazionamento del contenuto delle prestazioni (nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto la stazione appaltante, contrattualmente inadempiente nei confronti della società appaltatrice, avendo esercitato lo jus variandi previsto dall’art. 106, comma 12, Codice degli Appalti, in assenza dei relativi presupposti e avendo pacificamente impedito, con la propria condotta, l’integrale esecuzione del contratto, rifiutando di ricevere l’ultima parte di vaccini acquistati e omettendo di pagarne il prezzo).

Principi espressi nell’ambito della controversia tra un soggetto appaltatore e appaltante, con riguardo all’esercizio dello jus variandi in materia di appalti pubblici. In particolare, l’appaltante è stato ritenuto contrattualmente inadempiente, avendo esercitato lo jus variandi in assenza dei relativi presupposti e avendo pacificamente impedito, con la propria condotta, l’integrale esecuzione del contratto, rifiutando di ricevere l’ultima parte di vaccini acquistati e omettendo di pagarne il prezzo.

(Massime a cura di Carola Passi)




Tribunale di Brescia, sentenza del 29 maggio 2023, n. 1322 – azione di responsabilità ex art. 146 l. fall. nei confronti degli amministratori, conflitto di interessi nella conclusione di un contratto, responsabilità per abuso di direzione e coordinamento

Il contratto concluso in conflitto di interessi integra gli estremi della responsabilità di cui all’art. 2476 c.c. qualora l’amministratore abbia fatto prevalere un interesse extrasociale incompatibile con quello della società e per essa pregiudizievole, alla stregua di una valutazione condotta secondo un giudizio ex ante che tenga conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta analoga a quella adottata, nonché della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione (cfr. Cass. n. 7279/2023). In particolare, in relazione all’acquisto, da parte di una società consortile, di crediti sostanzialmente inesigibili vantati dalle consorziate nei confronti di una società insolvente, agisce in conflitto d’interessi l’amministratore che: (i) sia nel contempo gestore anche delle altre società (cedenti e debitrice ceduta) coinvolte nell’operazione, (ii) acquisti tali crediti per soddisfare l’interesse delle cedenti a sottrarsi alle conseguenze dell’insolvenza della debitrice, traslando tale pregiudizio sulla società consortile cessionaria e consentendo nel contempo alle cedenti medesime di estinguere i propri debiti verso quest’ultima grazie alla datio in solutum in tal modo compiuta.

La responsabilità ex art. 2497 c.c. per abuso di direzione e coordinamento riguarda il fenomeno dei gruppi societari, caratterizzati dalla previsione di meccanismi quantomeno negoziali che consentano alla controllante di indirizzare le scelte gestionali della controllata. Inoltre, tale fenomeno presuppone l’esistenza di un’attività di governance della società proveniente da un soggetto estraneo ad essa, ossia diverso dai suoi organi interni. Infine, sul piano oggettivo, richiede l’effettività, la stabilità e la sistematicità di un’influenza sull’altrui gestione, in un contesto di coordinamento gestionale quantomeno duraturo, in cui l’aggregazione delle varie società controllate risponda ad un disegno organizzativo di articolazione imprenditoriale. 

I princìpi esposti sono stati espressi in relazione ad una società consortile, i cui amministratori svolgevano le medesime funzioni gestorie nelle due società consorziate, nonché in una terza società debitrice di queste ultime. Gli amministratori sono stati ritenuti responsabili, ai sensi degli artt. 146 l. fall. e 2476 c.c., per aver posto in essere un’operazione di cessione di crediti in conflitto d’interessi. Nello specifico, gli amministratori avevano acquistato per conto della società consortile – come datio in solutum a soddisfazione di propri crediti – alcuni crediti che le consorziate vantavano nei confronti della terza società. La prova del conflitto di interessi è stata ritenuta raggiunta tenuto conto dell’identità soggettiva degli amministratori della società cessionaria, delle società cedenti nonché della società debitrice ceduta. Pertanto, la cessione dei crediti è stata giudicata illecita in quanto funzionale al soddisfacimento dell’interesse delle consorziate cedenti a sottrarsi alle conseguenze dell’insolvenza della debitrice ceduta, avendo arrecato, al contempo, un pregiudizio ingiustificato alla cessionaria attraverso la datio in solutum

(Massime a cura di Leonardo Esposito)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 22 maggio 2023, n. 863 – concordato preventivo, anticipazione ricevute bancarie, compensazione, artt. 56 e 169 l. fall.

In tema di anticipazione su ricevute bancarie regolata in conto corrente, qualora le relative operazioni siano compiute in un momento precedente all’ammissione del correntista a concordato preventivo e  questo, successivamente all’ammissione alla procedura, agisca per la restituzione dell’importo delle ricevute incassate dalla banca, è necessario accertare se la convenzione relativa all’anticipazione contenga una clausola attributiva del diritto della banca di “incamerare” le somme riscosse (c.d. patto di compensazione o patto di annotazione ed elisione nel conto di partite di segno opposto), perché soltanto in presenza di una simile convenzione la banca ha diritto a compensare il suo debito per il versamento al cliente delle somme incassate con il proprio credito, verso lo stesso cliente, conseguente ad operazioni creditizie regolate sul medesimo conto corrente, a nulla rilevando che detto credito sia anteriore alla ammissione alla procedura concorsuale ed il correlativo debito, invece, posteriore, poiché in siffatta ipotesi non può ritenersi operante il principio della cristallizzazione dei crediti (cfr. Cass. n. 17999/2011 e Cass. n. 11523/2020). Infatti in tal caso il fatto genetico di entrambi i crediti può essere ravvisato nell’operazione complessivamente posta in essere dalle parti in epoca anteriore alla presentazione della domanda di concordato preventivo da parte del correntista, attraverso la stipulazione del contratto di anticipazione bancaria e del collegato mandato all’incasso con patto di compensazione.

Principio espresso, in grado d’appello,  nell’ambito di una controversia concernente la compensazione fra il credito vantato dalla banca per il rimborso dell’anticipazione concessa alla società correntista successivamente ammessa al concordato preventivo e il debito della prima nei confronti della seconda per la restituzione degli importi riscossi, in epoca successiva alla presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, in esecuzione del mandato all’incasso conferitole dalla cliente.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Tribunale di Brescia, sentenza del 16 maggio 2023, n. 1174 – s.r.l., dimissioni dell’amministratore, revoca dell’amministratore, assenza di giusta causa, risarcimento del danno

L’atto di dimissione dall’incarico di amministratore di società di capitali, poiché suscettibile di iscrizione nel registro delle imprese, deve assumere carattere rituale; la volontà di rinunciare all’incarico, dunque, deve essere espressa in atto scritto debitamente trasmesso alla società, ovvero risultare da una dichiarazione contenuta in un verbale dell’assemblea dei soci o del consiglio di amministrazione. La rinuncia non può essere desunta per fatti concludenti, ovvero ancora da dichiarazioni verbali da provarsi per testimoni.  

Nella società a responsabilità limitata, se l’amministratore è nominato a tempo indeterminato, in caso di revoca deliberata dall’assemblea in assenza di giusta causa, ai fini della sussistenza di un diritto al risarcimento del danno non si applica l’art. 2383, comma terzo, c.c. (non richiamato direttamente, del resto, dall’art. 2475 c.c.), ma l’art. 1725, comma secondo, c.c., sicché la società deve risarcire il danno all’amministratore revocato solo in mancanza di un congruo preavviso. 

Diversamente opinando, la società non potrebbe revocare l’amministratore nominato a tempo indeterminato in assenza di giusta causa senza l’insorgere di un contestuale obbligo di risarcimento del danno, in spregio al carattere fiduciario che contraddistingue tale incarico (cfr. Cass. n. 9482/1999). In mancanza di un’espressa norma in materia di società a responsabilità limitata che disciplini la fattispecie, bisogna dunque ricorrere – in virtù del condiviso carattere fiduciario dei due incarichi – all’applicazione analogica della disciplina in tema di risarcimento del danno conseguente alla revoca del mandato a tempo indeterminato (cfr. Cass. n. 9482/1999 e Cass. n. 3312/2000). 

Princìpi espressi nel contesto di un’azione di accertamento dell’illegittimità della delibera di revoca di un amministratore di società a responsabilità limitata nominato a tempo indeterminato e di condanna al risarcimento del danno per mancanza di giusta causa ai sensi dell’art. 2383, comma terzo, c.c. Il Tribunale ha accolto solo parzialmente la domanda di condanna, individuando però, quale fondamento dell’obbligo di risarcimento, non l’asserita assenza di una giusta causa di revoca ai sensi dell’art. 2383, comma terzo, c.c., bensì l’improvvisa interruzione del rapporto conseguente alla mancanza di un congruo termine di preavviso ex art. 1725, comma secondo, c.c. 

(Massime a cura di Giovanni Gitti) 




Tribunale di Brescia, sentenza del 13 maggio 2024, n. 1917 – credito di firma, esposizione contestata, erronea/illegittima segnalazione in Centrale Rischi, risarcimento del danno, nesso di causalità

In forza delle indicazioni contenute nella circolare n. 139 dell’11.2.1991 della Banca d’Italia, la scadenza della fideiussione integra evento estintivo del rapporto di garanzia legittimante l’azzeramento dell’accordato operativo, sicché la Banca è obbligata a censire l’azzeramento dell’“accordato” e “dell’accordato operativo”, modificando in tal modo la segnalazione iniziale. In presenza di accertamento giudiziale dotato di indiscutibile coerenza e chiarezza, e di impugnazioni della soccombente fondate su argomenti privi di supporto probatorio ed espressione di un contegno processuale contraddittorio e ondivago, la condotta della banca di voler attendere il passaggio in giudicato della declaratoria di inefficacia della garanzia prima di procedere alla rettifica del censimento in coerenza con il suddetto accertamento giudiziale non può ritenersi conforme ai doveri dell’intermediario in materia di segnalazioni in Centrale Rischi e al generale canone della buona fede: scaduto il termine di tale garanzia senza che nelle more sia stato efficacemente esercitato il diritto di pagamento da parte della beneficiaria, il mantenimento dell’importo dell’utilizzato non trova giustificazione alcuna. Non può dunque trovare accoglimento la tesi per cui, a fronte dell’azzeramento dell’accordato, la Banca possa mantenere l’originario “utilizzato” sino al passaggio in giudicato, anche nei confronti della beneficiaria, della sentenza che ha dichiarato scaduta e inefficace la garanzia, sostenendo che sino a tale evento non si sia verificata alcuna delle condizioni previste dal par. 8, sez. I, cap. II della circolare 139 della Banca d’Italia per il relativo azzeramento.

In presenza di contenzioso promosso dal cliente, il censimento del credito di firma come “non contestato” appare gravemente contrario ai canoni di accuratezza, completezza e pertinenza delle informazioni sanciti dalla normativa di settore, a nulla rilevando che nelle plurime diffide inviate alla Banca la cliente abbia omesso uno specifico riferimento alla erronea rilevazione anche dello stato del rapporto. Con il tredicesimo aggiornamento entrato in vigore il 4 marzo 2010, la circolare n. 139 dell’11.2.1991 della Banca d’Italia ha previsto espressamente che l’intermediario è tenuto a dar conto dell’esistenza di una contestazione concernente la segnalazione, ogni qual volta il cliente abbia sollevato eccezioni promuovendo un giudizio davanti ad un’autorità terza, a prescindere dalla valutazione circa la fondatezza delle eccezioni fatte valere. In tal modo, gli intermediari che accedono al sistema centralizzato, oltre ad avere evidenza della segnalazione del credito come sofferenza o come credito scaduto o sconfinante, apprendono della pendenza di una contestazione relativa alla posizione segnalata e, conseguentemente, della possibilità che il presupposto su cui detta segnalazione si fonda sia, in realtà, insussistente. La giurisprudenza oramai consolidata riconosce indubbia rilevanza alla evidenza di eventuale “contestazione” nelle segnalazioni effettuate dagli istituti di credito, chiarendo come detto stato del rapporto consenta di arguire che il mancato rientro (o gli altri eventi idonei a rappresentare un rischio) è dovuto non necessariamente ad una negativa valutazione dell’affidabilità del cliente, potendo piuttosto dipendere dalla eventualità che la pretesa non sia fondata.

Il nesso causale in tema di responsabilità civile, contrattuale o extracontrattuale  è regolato dai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per i quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della “condicio sine qua non”), nonché dal criterio della c.d. causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiono – ad una valutazione “ex ante” – del tutto inverosimili.

La valutazione del nesso causale in sede civile presenta, rispetto all’accertamento penale, notevoli discrepanze in relazione al regime probatorio applicabile: a differenza di quanto richiesto in sede penale (ove vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”), nel processo civile vige la regola della “preponderanza dell’evidenza” (altrimenti definita del “più probabile che non”), in coerenza con il principio eurounitario della effettività della tutela giurisdizionale.

L’accertamento del nesso causale in sede civile richiede la concorrente valutazione, da un lato, della (astratta) idoneità della condotta a cagionare il danno lamentato, dall’altro, della (effettiva) correlazione con l’evento in concreto verificatosi, apprezzata sulla scorta delle circostanze esistenti nella loro irripetibile singolarità per come emergenti dall’istruzione probatoria condotta nel processo, sicché non potrà ritenersi sussistente il nesso di causalità tra la condotta illegittima e il pregiudizio prospettato come sua possibile e normale conseguenza, qualora essa, pur se astrattamente idonea a provocare il danno lamentato, non ne costituisca l’effettiva ragione, per essere questo riconducibile in concreto – secondo la valutazione del giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della inadeguatezza o illogicità della motivazione – ad un fatto diverso, idoneo a interrompere il nesso di causalità.

Tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima, o in via indiretta e remota, salvo il temperamento contemplato al capoverso dell’art. 41 c.p., secondo cui la causa prossima sufficiente da sola a produrre l’evento esclude il nesso eziologico fra questo e le altre cause antecedenti, facendole scadere al rango di mere occasioni; pertanto, al fine di escludere che un determinato fatto abbia concorso a cagionare un danno, non basta affermare che il danno stesso avrebbe potuto verificarsi anche in assenza di quel fatto, ma occorre dimostrare, avendo riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, che il danno si sarebbe egualmente verificato senza quell’antecedente.

Qualora la produzione dell’evento di danno risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale (o comunque di un fattore estrinseco al comportamento umano imputabile), l’autore del fatto risponde, in base ai criteri della causalità naturale, di tutti i danni che ne sono derivati, non potendo, in tal caso, operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, poiché una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile (cfr. Cass. n. 5737/2023; Cass. n. 30521/2019).

Mentre sul piano della causalità materiale non rileva che i danni siano stati causati anche da eventi esterni alla condotta umana (a meno che gli stessi non siano stati sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente da tale comportamento), la concomitanza di plurimi fattori causali può incidere sulla stima del danno, ossia sul piano della causalità giuridica, legittimando una proporzionale riduzione volta a identificare il solo danno eziologicamente riferibile alla condotta presa in esame (ex multis, Cass. n. 13037/2023).

Il diritto al risarcimento in relazione ad un eventuale aggravamento che si verifichi nel corso del giudizio non configura una nuova posta risarcitoria, facendo parte della domanda originaria di risarcimento (cfr. Cass. n. 23220/2005; Cass. n. 8292/2008; Cass. n. 1281/2003).

La natura di debito di valore dell’obbligazione risarcitoria (anche derivante da responsabilità contrattuale: cfr. Cass. n. 37798/2022) impone che sull’importo liquidato vadano conteggiati gli interessi compensativi del danno derivante dal mancato tempestivo godimento dell’equivalente pecuniario del bene perduto: secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (n. 1712/1995), tali interessi decorrono dalla produzione dell’evento di danno sino al tempo della liquidazione e si calcolano sulla somma via via rivalutata nell’arco di tempo suddetto e non sulla somma già rivalutata (cfr. Cass. n. 4791/2007).

Principi espressi nell’ambito di un giudizio promosso per l’accertamento della responsabilità risarcitoria di Istituto di Credito per mancata cancellazione di posizione fideiussoria segnalata in Centrale Rischi sebbene non escussa e scaduta nonché per l’erroneo censimento quale posizione “non contestata”, sebbene la società attrice avesse censurato la pretesa della banca convenendola in giudizio.  Il Tribunale, accertata l’erronea/illegittima segnalazione in Centrale Rischi, a seguito di un rigoroso esame dell’andamento degli affidamenti della società attrice e dei possibili riflessi sui risultati dell’attività d’impresa, ha verificato e quantificato, sulla scorta dei formulati principi in materia di nesso di causalità, il pregiudizio patrimoniale effettivamente riconducibile agli inadempimenti dell’intermediario.

(Massime a cura di Ambra De Domenico)




Tribunale di Brescia, sentenza del 10 maggio 2023, n. 1239 – società cooperativa sociale onlus, clausola statutaria di esclusione o decadenza del socio, preventiva contestazione degli addebiti

La trasmissione della lettera di contestazione (che ha dato avvio al procedimento di esclusione) nonché della delibera di esclusione del socio ad un indirizzo PEC di altra società di cui il socio escluso è amministratore e legale rappresentante, nonostante tale domicilio sia diverso da quello indicato nel libro soci, non configura un “vizio insanabile” del procedimento di contestazione e (successiva) esclusione del socio, laddove sia pacifico che il socio escluso abbia ricevuto a tale indirizzo la delibera di esclusione (avverso la quale ha proposto tempestiva opposizione), dovendosi presumere, in ragione di tale circostanza e dell’incarico ricoperto dal socio nella società presso la quale è stato effettuato l’invio, l’esistenza di uno stretto collegamento tra la persona del socio escluso e il luogo di notificazione di entrambe le comunicazioni. L’invio della lettera di contestazione a tale diverso indirizzo costituisce quindi una mera irregolarità che non invalida il procedimento di esclusione, in quanto il socio escluso poteva contestare la fondatezza degli addebiti formulati in sede di opposizione all’esclusione.

In una società cooperativa sociale onlus, qualora il regolamento interno abbia qualificato il socio volontario come colui che “presta” a favore della cooperativa “la propria attività gratuitamente, esclusivamente per fini di solidarietà”, non sembra assumere concreta pregnanza che tale attività coincida con il servizio offerto all’esterno dalla cooperativa (la cui cessazione, ai sensi di statuto, legittimerebbe l’esclusione), con altra attività “solidaristica” o con un’attività di carattere amministrativo o professionale resa gratuitamente dal socio a favore della cooperativa stessa e funzionale a consentire alla cooperativa di poter operare in vista del raggiungimento dei suoi scopi sociali (la cui cessazione, ai sensi di statuto, legittimerebbe la declaratoria di decadenza dalla qualità di socio). Ne emerge una certa fungibilità degli istituti dell’esclusione e della decadenza così come delineati nello statuto della cooperativa, analoga essendo la causa di cessazione del rapporto sociale, medesimo l’organo preposto all’accertamento del suo verificarsi e all’assunzione della relativa delibera, medesime, infine, le conseguenze. Tenuto conto che, nel caso concreto, la procedura di esclusione salvaguarda in maniera completa i diritti del socio, non emerge alcun sostanziale interesse del socio che si oppone all’esclusione a pretendere una qualificazione della propria situazione in termini di decadenza piuttosto che di esclusione, con conseguente irrilevanza di quanto sul punto eccepito dal socio opponente.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio di opposizione alla delibera di esclusione promosso da un socio di una cooperativa sociale onlus deducendo, in primo luogo, di non aver ricevuto la lettera di contestazione che aveva dato avvio al procedimento di esclusione, in quanto inviata non al domicilio indicato nel libro soci ma all’indirizzo PEC di altra società di cui lo stesso socio escluso era amministratore e legale rappresentante; e, in secondo luogo, che la cessazione dell’attività di amministratore (circostanza pacifica e non contestata) non rientrava in alcuna delle ipotesi di esclusione previste dallo statuto ma al più in una ipotesi di decadenza dalla qualità di socio non invocata nella delibera di esclusione.

(Massime a cura di Filippo Casini)




Tribunale di Brescia, sentenza dell’8 maggio 2023, n. 1099 – invalidità deliberazione assembleare di approvazione del bilancio, funzione informativa del bilancio, diritto all’informazione del socio, carenza di informazioni

In materia di invalidità delle deliberazioni assembleari di s.p.a., il socio che impugna una deliberazione di approvazione del bilancio ha l’onere di: i) indicare con esattezza le singole poste asseritamente iscritte in bilancio in violazione delle norme codicistiche e dei principi contabili; ii) enunciare chiaramente in che cosa consistano i vizi denunciati. 

In relazione alla funzione informativa del bilancio e al correlato diritto all’informazione, stabiliti dall’art. 2423, comma 3, c.c., gli amministratori sono obbligati a  soddisfare l’interesse  del socio a una conoscenza concreta dei reali elementi contabili recati dal bilancio ed a rispondere alla sua domanda di informazione che sia pertinente e non trovi ostacolo in oggettive esigenze di riservatezza, in modo da consentire l’espressione di un voto consapevole in assemblea, basato su un’adeguata conoscenza dei dati rappresentati contabilmente. 

La carenza d’informazione sul bilancio rileva quale vizio di invalidità della relativa deliberazione assembleare di approvazione laddove il socio si sia astenuto o abbia manifestato un voto difforme da quello che avrebbe esercitato qualora fosse stato correttamente messo a conoscenza delle informazioni omesse. In tal caso, sul socio che lamenti una carenza informativa grava l’onere di specificare la tipologia di informazione omessa, la cui conoscenza è essenziale ai fini dell’esercizio consapevole del diritto di voto.

I principi sono stati espressi nei giudizi di impugnazione (poi riuniti) promossi dai soci di minoranza di una società per azioni avverso le deliberazioni assembleari di approvazione di due bilanci di detta società, sulla base dell’asserita erroneità delle rappresentazioni contabili offerte dagli amministratori, dalla cui rettifica sarebbe emersa una perdita.

(Massime a cura di Simona Becchetti)