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Tribunale di Brescia, sentenza del 23 marzo 2023 n. 663 – contratto di locazione finanziaria, leasing traslativo, risoluzione per inadempimento, clausola penale

Nei casi di risoluzione per inadempimento dei contratti di locazione finanziaria di tipo traslativo, il comma 138 dell’art. 1 della legge n. 124/2017 riconosce all’utilizzatore il diritto a vedersi corrispondere il ricavato della vendita del bene oggetto di leasing da parte del concedente, dedotte le somme dovute per canoni scaduti e non pagati, del capitale a scadere, del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale e degli ulteriori crediti maturati sino alla vendita.

Il meccanismo previsto dal comma 138 dell’art 1 della legge n. 124/2017  può operare a condizione che l’utilizzatore restituisca il bene e ponga cioè il concedente nelle condizioni di ricollocare il bene sul mercato, poiché evidenti ragioni di logica e di interpretazione secondo buona fede e correttezza del contratto impediscono un’applicazione della normativa che consenta all’utilizzatore di beneficiare dei propri inadempimenti per paralizzare il diritto di credito della concedente e impedire a quest’ultima l’incasso dei canoni scaduti (oltre che di quelli a scadere e delle restanti somme che le spettano).

Devono ritenersi legittime quelle statuizioni pattizie con cui le parti, in applicazione del principio sinallagmatico cui è improntato l’elemento causale del negozio giuridico, risolvono il possibile squilibrio delle prestazioni mediante la previsione che la concedente, una volta ricollocato il bene sul mercato, debba decurtare l’importo così ottenuto dalle somme ancora dovute dall’utilizzatore.

Il giudice che ritenga che le parti abbiano pattuito una clausola penale, prevedendo, per il caso della risoluzione anticipata, il diritto del concedente di trattenere tutte le rate pagate a titolo di corrispettivo del godimento nonostante il mantenimento della proprietà, ha il potere di ridurre detta penale, in modo da contemperare, secondo equità, il vantaggio che essa assicura al contraente adempiente ed il margine di guadagno che il medesimo si riprometteva di trarre dalla regolare esecuzione del contratto, procedendo alla stima del bene secondo il valore di mercato al momento della restituzione (salvo che non sia stato già venduto o altrimenti allocato, considerando, nel qual caso, i valori conseguiti) e poi detrarre tale valore dalle somme dovute dall’utilizzatore al concedente, con diritto del primo all’eventuale residuo (cfr. Cass. n. 10249/2022).

La riduzione della penale contrattuale attinente a un contratto di locazione finanziaria di tipo traslativo non può essere in concreto concessa se al momento dell’introduzione della controversia il bene immobile non è ancora stato rilasciato in favore del concedente e se non vi siano elementi idonei a ritenere che, in ragione del presumibile valore di realizzo del bene immobile da restituirsi, la società di leasing possa ottenere una somma maggiore rispetto a quella che avrebbe conseguito con il corretto adempimento del contratto ovvero se ciò non appare in concreto verosimile.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di opposizione avverso un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo per il pagamento di somme ancora dovute dall’utilizzatrice alla concedente, nell’ambito di un contratto di locazione finanziaria di tipo traslativo.

(Massime a cura di Giada Trioni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 21 marzo 2023, n. 642 – contratto di leasing, usurarietà del tasso di interesse, scostamento tra tasso di leasing e tasso praticato, interessi moratori

In tema di contratti di leasing, l’interesse ad agire per la declaratoria di usurarietà degli interessi moratori sussiste anche nel corso dello svolgimento del rapporto contrattuale e non solo ove i presupposti della mora si siano già verificati, ciò perché l’interesse ad agire in un’azione di mero accertamento non implica necessariamente l’attualità della lesione di un diritto, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva. In particolare, nel corso dello svolgimento del rapporto contrattuale si dovrà avere riguardo al tasso-soglia applicabile al momento dell’accordo, mentre, ove i presupposti della mora, la valutazione di usurarietà riguarderà l’interesse concretamente praticato dopo l’inadempimento.

Pertanto, ove il contratto di leasing immobiliare sia in essere alla data di introduzione del giudizio, l’interesse giuridicamente apprezzabile della società utilizzatrice ad agire per ottenere la – eventuale – declaratoria di nullità (per usurarietà) della pattuizione relativa agli interessi moratori, consiste nell’evitarne l’applicazione nell’ipotesi di un proprio – futuro ed eventuale – inadempimento.

L’eventuale (lieve) difformità tra il tasso di leasing contrattualmente indicato e il tasso di leasing effettivamente applicato potendo dipendere da diverse variabili (ive incluse, il pagamento in via eventualmente anticipata anziché posticipata degli interessi, la rateazione dell’obbligo di restituzione) non significa che vi sia stata applicazione di un tasso di interesse difforme dal tasso annuo nominale, né tantomeno viene in rilievo un fenomeno di anatocismo. Pertanto, dalla dedotta difformità non potrebbe mai derivare la nullità parziale del contratto ai sensi dell’articolo 117 t.u.b. con conseguente applicazione del tasso legale sostitutivo (sia esso quello previsto dall’articolo 117, comma settimo, t.u.b. per il caso di inosservanza dei commi quarto e sesto ovvero quello previsto dall’art. 1284 c.c.), né la necessaria prevalenza del primo tasso (indicato) sul secondo (concretamente applicato), risultando perciò escluso il diritto dell’utilizzatore di ripetere gli importi (in ipotesi) versati in eccedenza. Potrebbe se del caso ravvisarsi (in caso di significativa difformità) responsabilità civile per inadempimento dell’obbligazione di trasparenza, ove l’utilizzatore alleghi e provi, che qualora il tasso di leasing fosse stato correttamente rappresentato non avrebbe stipulato il contratto o lo avrebbe stipulato altrove a più favorevoli condizioni.

La pattuizione di interessi moratori in misura usuraria ha natura autonoma e, pertanto, l’eventuale nullità della stessa non si estenda a quella relativa agli interessi corrispettivi, qualora leciti.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una società, utilizzatrice, nei confronti di società di leasing finalizzato a far accertare l’usuriarietà della pattuizione relativa agli interessi e/o la nullità della relativa pattuizione per indeterminatezza del tasso contrattuale.

Nella vicenda oggetto del giudizio, in particolare, la società aveva stipulato un contratto di leasing avente ad oggetto l’acquisto di un immobile in relazione al quale, secondo la ricostruzione dell’attore, le previsioni contrattuali relative agli interessi risultavano viziate per: (i) applicazione di un “Tasso Leasing applicato” (TAE) superiore al “Tasso Leasing contrattuale” (TAN); (ii) usurarietà del tasso stabilito per gli interessi moratori; e (iii) indeterminatezza del tasso contrattuale.

A tal fine, la società richiedeva, inter alia, l’accertamento: (i) in via principale, della nullità del contratto di leasing, con condanna della società convenuta alla restituzione, in favore della società, di tutte le somme pagate che non siano imputabili al solo capitale finanziato; (ii) in via subordinata, della nullità della pattuizione relativa agli interessi corrispettivi, ex art. 117, comma sesto, t.u.b., quale conseguenza dell’indicazione di un TAN inferiore TAE, con conseguente rideterminazione del piano di ammortamento mediante applicazione del tasso sostitutivo ex art. 117, comma settimo, lett. a), t.u.b.; e (iii) in ulteriore subordine, della nullità per usurarietà della pattuizione relativa agli interessi moratori, con conseguente gratuità del contratto ex art. 1815 c.c. e condanna della società concedente alla restituzione di tutto quanto indebitamente percepito a titolo di interessi.

Il Tribunale ha rigettato le domande proposte dalla parte attrice nei confronti della società di leasing e, per pertanto, ha condannato la società al pagamento delle spese di lite.

(Massime a cura di Giorgio Peli)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 21 marzo 2023, n. 488 – apertura di credito in conto corrente, interessi anatocistici, commissioni di massimo scoperto, commissioni ex art. 117 bis TUB, nullità di clausole contrattuali, ripetizione di indebito

In tema di ripetizione di indebito opera il normale principio dell’onere della prova a carico dell’attore il quale, quindi, è tenuto a dimostrare sia l’avvenuto pagamento, sia la mancanza di una causa che lo giustifichi (cfr. Cass. n. 30713/2018; Cass. n. 24948/2017). Il principio trova applicazione anche ove si faccia questione dell’obbligazione restitutoria dipendente dalla (asserita) nullità di singole clausole contrattuali, relativamente cioè ad un pagamento dovuto solo in parte, di cui si chieda la restituzione limitatamente alla somma pagata in eccedenza (Cass. n. 7501/2012). In applicazione dei suddetti principi, assunta l’esistenza di un contratto scritto di apertura di credito in conto corrente, l’attore in ripetizione che alleghi la mancata valida pattuizione, in esso, dell’interesse debitore è onerato di dar prova dell’assenza della causa debendi attraverso la produzione in giudizio del documento contrattuale, mediante il quale dimostrare la mancanza, nel contratto, della pattuizione degli interessi o la nullità di essa. 

È da ritenersi valida, sotto il profilo causale, la previsione pattizia della commissione di massimo scoperto, posto che la legge 28 gennaio 2009 n. 2, nel dettare una disciplina in materia, ne ha riconosciuto l’astratta legittimità per il periodo anteriore (Cass., sez. un., n. 16303/2018; Cass. n. 870/2006). Tale corrispettivo, che è pagato dal cliente per compensare l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell’utilizzo dello scoperto del conto e che di norma viene applicato allorché il saldo del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni, viene calcolato in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento. Tuttavia, a fronte della mancata indicazione, nel contratto, di ulteriori elementi, ed in primo luogo dell’importo su cui la dedotta percentuale andrebbe applicata, si deve ritenere che la previsione pattizia non soddisfi i requisiti di cui all’art 1346 c.c. e che quindi ne vada dichiarata la nullità (cfr. Cass. n. 19825/2022).

Principi espressi, in grado di appello, nell’ambito di un giudizio promosso per l’accertamento dell’illegittimo addebito al correntista di importi a titolo di interessi anatocistici, commissioni di massimo scoperto, commissioni ex art. 117 bis TUB, spese e interessi passivi maturati su tali voci per valori superiori a quelli effettivamente dovuti e per la conseguente condanna dell’intermediario alla restituzione dell’indebito e al risarcimento del danno.

(Massime a cura di Luisa Pascucci)




Tribunale di Brescia, sentenza del 15 marzo 2023 n. 589 – diritto industriale e della concorrenza, violazione del brevetto d’invenzione, competenza territoriale, cessione d’azienda, prova degli accordi di cessione e di licenza, tolleranza, quantificazione del danno

In tema di competenza territoriale in materia di violazione dei diritti di proprietà industriale, il sesto comma dell’art. 120 c.p.i. attribuisce la competenza territoriale all’autorità giudiziaria dotata di sezione specializzata nella cui circoscrizione i fatti sono stati commessi (c.d. forum commissi delicti). A tal fine, la nozione di “fatto lesivo” comprende ogni ipotesi di violazione dei diritti patrimoniali attribuiti al titolare del diritto di proprietà industriale, ivi compresi gli atti di fabbricazione, uso e vendita del bene prodotto in contraffazione, o che comunque si sostanziano nell’attuazione dell’oggetto della privativa o che sono diretti a trarne profitto. Il luogo di consumazione dell’illecito si specifica, poi, in relazione alle singole fattispecie concrete, sicché nel caso di fabbricazione, vendita o utilizzazione di prodotti contraffatti, deve ritenersi competente il giudice del luogo in cui tali prodotti siano stati rispettivamente fabbricati, venduti o utilizzati.

In caso di cessione d’azienda, ai sensi dell’art. 2559 c.c., il cessionario acquista i crediti relativi all’esercizio dell’azienda, tra cui vanno ricompresi, in mancanza di diversa pattuizione, quelli derivanti da fatti illeciti commessi in danno dell’impresa cedente (cfr., tra le altre, Cass. n. 13692/2012).

Sebbene i contratti di cessione e di licenza di diritti brevettuali non richiedano la forma scritta ad substantiam o ad probationem – con la conseguenza che, secondo gli ordinari principi in materia di onere della prova, chi invoca il trasferimento e/o la legittimità dello sfruttamento dei diritti sull’invenzione altrui è tenuto a dimostrare, anche per presunzioni, il titolo costitutivo del diritto invocato -, nel caso in cui, come nel caso di specie, gli accordi di cessione e di licenza del titolo brevettuale siano stati stipulati per iscritto, trova applicazione la regola probatoria di cui all’art. 2722 c.c., con conseguente impossibilità di provare tramite testimoni o presunzioni l’esistenza di patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i quali si alleghi che la stipulazione è stata contemporanea.

Peraltro, in caso di eventuali accordi successivi a un originario contratto di concessione di diritti di sfruttamento del brevetto, troverebbe comunque applicazione la regola probatoria di cui all’art. 2723 c.c., in base alla quale la prova per testimoni o presuntiva può essere consentita soltanto se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e a ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali.

In caso di licenza di brevetto, sebbene la tolleranza del licenziante allo sfruttamento da parte del licenziatario, di privative diverse da quelle oggetto di licenza, non sia, di per sé, idonea a integrare una modifica dei patti stipulati tra le parti per iscritto (nel senso che non consente di estendere la licenza contrattuale anche ad un altro brevetto), potendo tale condiscendenza essere ispirata da ragioni ulteriori e diverse rispetto alla volontà di modificazione del patto), nondimeno, la manifestata acquiescenza del titolare del brevetto all’utilizzo, noto, di esso da parte dell’utilizzatore esclude la sussistenza dell’illecito, dovendosi ritenere l’attività oggettivamente dannosa posta in essere con il consenso del titolare avente diritto incompatibile con la volontà di farlo valere. Ne consegue che, il temporaneo assenso allo sfruttamento del brevetto, pur dovendosi ritenere inidoneo alla costituzione del vincolo contrattuale, fa venir meno l’antigiuridicità della condotta posta in essere nel periodo di tempo in cui perdurava l’assenso.

In caso di illecito sfruttamento dell’altrui brevetto, il danno patito del titolare della privativa deve essere quantificato ai sensi dell’art. 125 c.p.i., in forza del quale il lucro cessante è determinato in una somma non inferiore ai canoni che l’utilizzatore del brevetto avrebbe dovuto pagare in favore del titolare qualora avesse ottenuto regolare licenza di utilizzo e, nella misura in cui eccedano l’importo dei canoni, nella retroversione degli utili realizzati dall’autore della violazione.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una società che lamentava l’abusivo sfruttamento del brevetto di cui era titolare da parte della società convenuta e chiedeva, previo accertamento di tale contraffazione e/o comunque della violazione delle regole di correttezza professionale ex art. 2598 n. 3 c.c., la conferma dell’inibitoria già disposta in sede cautelare, la pronuncia degli ordini di distruzione dei prodotti in contraffazione, dell’inibizione della reiterazione dell’illecito, dell’ordine di ritiro dal commercio dei prodotti contraffatti e la fissazione di una penale per ogni violazione, oltre che il risarcimento dei danni subiti in misura pari alle mancate royalties da licenza d’uso e comunque agli utili illecitamente ricavati dalla convenuta, di cui chiedeva la retroversione. La società attrice chiedeva, inoltre, la pubblicazione della sentenza.

La convenuta si costituiva in giudizio eccependo, in via pregiudiziale, l’incompetenza territoriale del Tribunale.

Nel merito, la convenuta sosteneva che lo sfruttamento del brevetto oggetto del contenzioso fosse oggetto di accordi commerciali tra le parti, avendo la convenuta stipulato con una società fallita – da cui la società attrice aveva acquistato il brevetto – un accordo in virtù del quale venivano regolamentati i rapporti di cessione, concessione e sfruttamento delle privative riferite ad un altro brevetto e sosteneva che anche il brevetto per cui l’attrice chiedeva la tutela dovesse ritenersi ricompreso nel predetto accordo. In ogni caso, la convenuta sosteneva che il brevetto oggetto di causa avrebbe dovuto considerarsi quale estensione del brevetto concesso in licenza alla convenuta stessa dalla società, poi fallita, da cui l’attrice aveva acquistato il brevetto.

Il Tribunale: (i) ha parzialmente accolto le domande dell’attrice e, nello specifico, ha accertato la violazione da parte della società convenuta del brevetto di titolarità dell’attrice, condannando la convenuta al risarcimento dei danni in un importo comprensivo di interessi compensativi e rivalutazione, oltre interessi legali successivi al deposito della sentenza; (ii) ha inibito alla convenuta la fabbricazione, il commercio e l’uso dei prodotti costituenti violazione del brevetto e fissato una penale per ogni violazione o inosservanza successivamente contestata; (iii) ha ordinato il ritiro definitivo dal commercio dei prodotti in contraffazione nei confronti di chi ne sia proprietario o ne abbia comunque la disponibilità e la distruzione a cura e spese della convenuta di tutte le cose costituenti la violazione. Tenuto conto del significativo lasso di tempo trascorso dal momento delle violazioni, il Tribunale ha rigettato la domanda di pubblicazione della sentenza, essendo venuto meno il concreto interesse dell’attrice o della collettività alla diffusione capillare dell’accertamento in essa contenuto.

(Massime a cura di Alice Rocco)




Tribunale di Brescia, sentenza del 2 marzo 2023, n. 354 –contratto di locazione finanziaria, inadempimento, azioni di risoluzione o riduzione del prezzo, responsabilità del concedente

In un processo in cui le parti contestano reciproci inadempimenti, non è rilevante la dichiarazione – ai sensi dell’art. 1456, comma 2, c.c. – con cui una parte intende avvalersi della clausola risolutiva espressa pattuita, se il comportamento antecedente della stessa costituisce già di per sé inadempimento rilevante idoneo a giustificare l’accoglimento della domanda di risoluzione giudiziale – ai sensi dell’art. 1453 c.c. – presentata dalla controparte.

Come è pacificamente riconosciuto, il contratto di leasing finanziario si caratterizza per l’esistenza di un collegamento negoziale in forza del quale, ferma restando l’individualità propria di ciascun tipo negoziale, l’utilizzatore è legittimato a far valere la pretesa all’adempimento del contratto di fornitura, oltre che al risarcimento del danno eventualmente sofferto. In mancanza di un’espressa previsione normativa, però, l’utilizzatore non può esercitare anche l’azione di risoluzione o di riduzione del prezzo del contratto di vendita tra il fornitore ed il concedente, rispetto al quale esso è estraneo. Tali facoltà sono ammesse solo in presenza di specifica clausola contrattuale, con la quale il concedente trasferisce la propria posizione sostanziale in capo all’utilizzatore (cfr. SS.UU. n. 19785/2015).

Il dovere del concedente di agire per la risoluzione o al riduzione del prezzo non è un obbligo generale del concedente in leasing, che ricorra ni qualsiasi contratto di locazione finanziaria, ma che si configura solo in quei casi in cui, mancando clausole di trasferimento della posizione del concedente e non essendo configurabile una generica legittimazione attiva dell’utilizzatore nei confronti del fornitore (se non per le azioni di adempimento o di risarcimento), l’utilizzatore si trovi privo di tutela.

Solo nell’ipotesi in cui l’utilizzatore sia impossibilitato ad agire autonomamente nei confronti del fornitore (per chiedere la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo), il concedente potrà essere chiamato a rispondere, a titolo di responsabilità contrattuale, per un’eventuale negligenza nell’adempiere al suo dovere di cooperazione e per la violazione del principio di buona fede. Sicché, il contratto di leasing può essere risolto solo in caso di assoluta impossibilità per l’utilizzatore di recuperare alcunché dal fornitore.

Qualora un contratto preveda più prestazioni, la valutazione dell’inadempimento per la risoluzione giudiziale, ai sensi dell’art. 1453 c.c., deve essere effettuata dal giudice con riferimento a ciascuna di esse. (Ad esempio, nell’ipotesi di compravendita di più macchinari, anche se inseriti in un ciclo produttivo, il giudice dovrà tenere conto delle funzionalità, dei vizi e dei difetti di ciascun bene).

I principi sono stati espressi nel corso di un giudizio di appello ove il tribunale ha respinto la domanda di risoluzione di un contratto di locazione finanziaria, rispetto al quale le parti contestavano reciproci inadempimenti.

(Massime a cura di Giada Trioni)