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Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 30 gennaio 2023, n. 187 – vendita di strumenti finanziari, offerta fuori sede, forma del contratto, obblighi informativi

In tema di intermediazione mobiliare, nel caso di contratti di investimento stipulati fuori dalla sede dell’intermediario, ai sensi dell’art. 30 del d. lgs n. 58 del 1998, la circostanza che la sola sottoscrizione del contratto sia avvenuta presso l’abitazione dell’investitore non è sufficiente, di per sé, per qualificare l’offerta come avvenuta “fuori sede” dell’intermediario, occorrendo piuttosto che l’investimento sia stato sollecitato presso il domicilio dell’investitore da un promotore finanziario o da un dipendente della banca intermediaria tale da sospendere l’investitore ed indurlo ad aderire ad una proposta non meditata adeguatamente facendo ritenere dunque che la decisione di investimento sia stata assunta fuori sede.

Con riferimento al recesso di cui all’art. 30 del d. lgs n. 58 del 1998, la circostanza che l’operazione d’investimento si sia perfezionata al di fuori della sede dell’intermediario a rendere necessaria una speciale tutela, prevista dal diritto di recesso dell’investitore al dettaglio di cui all’articolo 30 t.u.f., in quanto l’investimento in tale ipotesi è stato sollecitato presso il domicilio dell’investitore da un promotore finanziario o da un dipendente della banca intermediaria e, pertanto, si può presumere che lo stesso non sia conseguenza di una premeditata decisione dello stesso investitore, ma il frutto della predetta sollecitazione. Pertanto, la ratio dello jus poenitendi previsto dalla citata norma, e, quindi, del differimento dell’efficacia del contratto, con la possibilità per il cliente di recedere nel frattempo dal contratto di investimento senza oneri è, dunque, quella di porre rimedio, a posteriori, a quella mancanza di adeguata riflessione preventiva che il perfezionamento fuori sede potrebbe aver causato. Tuttavia, anche se l’acquisto di titoli sia stato offerto al cliente dall’intermediario fuori dalla sede dell’istituto bancario e la volontà del cliente di effettuare l’investimento sia sorta in tale contesto, ove l’acquisto si sia perfezionato presso la sede dell’istituto di credito nei giorni successivi non si può ritenere che tale investimento sia frutto di un “effetto sorpresa” conseguente alla sollecitazione e, pertanto, non si ravvisano, pertanto, i presupposti che giustificano la tutela supplementare apprestata dall’articolo 30, commi 6 e 7, del t.u.f.

L’art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, laddove impone la forma scritta a pena di nullità, per i contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento, si riferisce ai contratti-quadro e non ai singoli ordini di investimento (o disinvestimento) che vengono poi impartiti dal cliente all’intermediario, la cui validità non è soggetta a requisiti formali, salvo diversa previsione dello stesso contratto quadro. Tali ordini, infatti, rappresentano un elemento di attuazione delle obbligazioni previste dal contratto di investimento del quale condividono la natura negoziale come negozi esecutivi, concretandosi attraverso di essi i negozi di acquisizione – per il tramite dell’intermediario – dei titoli da destinare ed essere custoditi, secondo le clausole contenute nel contratto quadro. In particolare, la previsione contenuta nel contratto quadro circa la registrazione degli ordini orali non costituisce un requisito di forma, sia pure “ad probationem”, degli ordini suddetti, ma uno strumento atto a facilitare la prova, altrimenti più difficile, dell’avvenuta richiesta di negoziazione dei valori, con il conseguente esonero da ogni responsabilità quanto all’operazione da compiere.

In assenza di un’esplicita previsione normativa, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario non può determinare l’invalidità del contratto quadro o dei singoli ordini di acquisto effettuati in base allo stesso, ma può dar luogo soltanto a conseguenze risarcitorie, costituendo fonte di responsabilità precontrattuale nel caso in cui detta violazione si verifichi nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti, ovvero fonte di responsabilità contrattuale, nonché causa di risoluzione del contratto, ove le violazioni riguardino le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto quadro.

Il divieto di compiere operazioni inadeguate o in conflitto d’interessi e il dovere di informazione in capo all’intermediario attengono alla fase esecutiva del contratto di investimento, costituendo gli stessi una specificazione del primario dovere di diligenza, correttezza e professionalità nella cura degli interessi del cliente. Pertanto, i predetti obblighi sono da qualificare come obblighi di comportamento precontrattuali e contrattuali, a seconda del caso, e, pertanto, non possono giustificare il ricorso di tutela della nullità radicale del contratto (sia esso il contratto d’intermediazione finanziaria o i singoli negozi con cui a quello vien data esecuzione). Piuttosto il deficit informativo potrà rilevare in termini di inadempimento dell’intermediario a un obbligo a cui lo stesso è tenuto in vista del compimento dell’atto dispositivo e, ove nell’economia della singola operazione tale obbligo informativo assuma rilievo determinante essendo diretto ad assicurare scelte di investimento realmente consapevoli all’investitore al punto che in assenza di un consenso informato dell’interessato il sinallagma del singolo negozio di investimento manchi di trovare piena attuazione, l’investitore al dettaglio potrà ottenere la risoluzione del contratto per inadempimento dell’intermediario.

In tema di intermediazione finanziaria, l’obbligo informativo a carico dell’intermediario sussiste, anche al di fuori di una negoziazione diretta in contropartita, nel caso di negoziazione diretta per conto del cliente, rientrando tale operazione a pieno titolo tra “i servizi e attività di investimento” di cui all’art. 1, comma 5, lett. b) t.u.f. La violazione di tale obbligo non può ritenersi esclusa neanche in presenza di una segnalazione di non adeguatezza e di non appropriatezza, gravando sull’intermediario anche un autonomo obbligo di prestare all’investitore il corredo informativo relativo allo specifico strumento finanziario, evidenziandone le caratteristiche ed i rischi specifici.

L’adempimento degli obblighi informativi non può essere desunta in via esclusiva dalla sottoscrizione dell’avvenuto avvertimento dell’inadeguatezza dell’operazione in forma scritta, in quanto è necessario che l’intermediario, a fronte della sola allegazione contraria dell’investitore sull’assolvimento degli obblighi informativi, fornisca la prova positiva, con ogni mezzo, del comportamento diligente della banca: prova che può essere integrata dal profilo soggettivo del cliente o da altri convergenti elementi probatori, ma non può essere desunta soltanto da essi.

In materia di servizi di investimento mobiliare, l’intermediario finanziario è tenuto a fornire al cliente una dettagliata informazione preventiva circa i titoli mobiliari e, segnatamente, con particolare riferimento alla natura di essi ed ai caratteri propri dell’emittente, ricorrendo un inadempimento sanzionabile ogni qualvolta detti obblighi informativi non siano integrati e restando irrilevante, a tal fine, ogni valutazione di adeguatezza dell’investimento.

Gli obblighi informativi in capo all’intermediario relativi all’obbligo di verificare l’andamento dei titoli e gli obblighi di diligenza e trasparenza in capo all’istituto bancario non si esauriscano nella fase di negoziazione, ma si estendono a quella ulteriore dell’esecuzione delle operazioni. Pertanto, l’intermediario è tenuto a fornire al cliente informazioni sull’andamento del titolo non solo prima e all’atto della negoziazione, ma anche dopo il suo acquisto nella misura in cui ciò corrisponde ad un generale principio di correttezza e buona fede nel comportamento delle parti in pendenza di esecuzione del contratto.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello promosso dalla banca nei confronti di un proprio cliente che aveva stipulato con la stessa diversi ordini di investimento finalizzato ad ottenere la riforma della sentenza di primo grado nella parte in cui ha risolto il contratto quadro che regola il servizio di consulenza in materia di investimenti e ha condannato la banca al risarcimento del danno nei confronti del clienti per l’inadempimento degli obblighi informativi in capo alla stessa derivanti dall’art. 21 t.u.f. e dall’art. 28, comma 2, Reg. Consob che impongono in capo all’intermediario l’obbligo di diligenza e trasparenza e, per l’effetto, dichiarare che non è dovuta alcuna somma a titolo di risarcimento del danno all’investitore. L’appellato, cliente investitore che aveva sottoscritto con la banca un contratto di investimento di strumenti finanziari, si costituiva proponendo a sua volta appello incidentale chiedendo di accertare, inter alia, la nullità del contratto quadro e dei successivi ordini di acquisto di titoli sia per (i) violazione della normativa in materia di offerta fuori sede di prodotti finanziari di cui agli artt. 30 e 31 t.u.f., (ii) per violazione della forma scritta ad substantiam degli ordini impartiti solo in forma verbale e (iii) per mancato assolvimento degli obblighi informativi.

La Corte d’Appello (i) ha rigettato l’appello principale proposto dalla banca e confermato la sentenza del Tribunale, integrata con la diversa motivazione conseguente all’accoglimento del motivo di appello incidentale relativo alla risoluzione per inadempimento degli obblighi informativi e (ii) ha rigettato l’appello incidentale proposto dall’investitore.

(Massime a cura di Roberta Ponzoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 23 gennaio 2023, n. 128 – contratto di conto corrente, invalidità del contratto o di singole clausole, imprescrittibilità dell’azione di accertamento di saldo di conto corrente quale conseguenza della nullità (anche parziale) del contratto, accertamento di un saldo più sfavorevole per il correntista e divieto di reformatio in peius, spese processuali e reformatio in peius

Quale conseguenza dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità, totale o parziale, del contratto deve ritenersi imprescrittibile l’azione di accertamento del saldo dare-avere di un rapporto di conto corrente finalizzata ad accertare l’illegittimità degli addebiti derivanti dall’operatività di clausole contrattuali nulle. Pertanto, ai fini della determinazione del saldo di conto corrente, l’eccezione di prescrizione formulata dalla banca non può essere ritenuta preclusiva della domanda del correntista di accertamento dell’illegittimità degli addebiti derivanti dall’applicazione di clausole contrattuali nulle relative al medesimo rapporto di conto corrente. Accertata dunque la nullità contrattuale, anche solo parziale, ove riferita a singole clausole contrattuali del contratto di conto corrente (nel caso di specie, l’effettiva ed illegittima applicazione della capitalizzazione degli interessi), non si determina, infatti, un problema di ripetibilità o meno delle rimesse (nel caso di specie, era stata anche rinunciata la domanda restitutoria degli illegittimi addebiti) in quanto è necessario epurare il saldo dagli addebiti contra legem.

Se nel giudizio di appello promosso dal correntista il saldo di conto corrente viene rideterminato in senso più sfavorevole per il correntista rispetto a quanto accertato nel giudizio di primo grado, allora, in assenza di appello incidentale sul punto da parte della banca appellata, trova applicazione il divieto di reformatio in peius di cui agli artt. 329 e 342 c.p.c., con la conseguenza che non può essere modificato e riformato quanto statuito sul punto dalla sentenza di primo grado in forza dell’acquiescenza prestata al provvedimento di primo grado dall’appellato.

Se, nonostante l’accoglimento di un motivo di appello, il giudice di secondo grado pervenga, in definitiva, alle medesime statuizioni rese nella sentenza del Tribunale, allora, per effetto del divieto di reformatio in peius, la mancata riforma della sentenza di primo grado, in assenza di altre circostanze rilevanti, rileva anche ai fini della conferma del dispositivo sulle spese processuali del giudizio di primo grado.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello promosso da un correntista e dalla sua garante avverso la sentenza di primo grado, nel quale la medesima correntista aveva convenuto l’istituto di credito con cui aveva stipulato un contratto di conto corrente, ancora efficace al momento dell’introduzione del giudizio, chiedendo: da un lato, di determinare il corretto ”dare ed avere” tra le parti in costanza del rapporto oggetto del giudizio, anche previo accertamento di molteplici contestate illegittimità (e, in particolare, l’illegittima applicazione: (i) degli interessi passivi, “ultralegali” ed usurari, (ii) dell’interesse anatocistico con capitalizzazione trimestrale in assenza di una valida convenzione anatocistica, (iii) della commissione di massimo scoperto, (iv) degli interessi per c.d. “giorni–valuta”,); e, dall’altro, di condannare la banca convenuta (i) alla restituzione delle somme indebitamente addebitate o riscosse, oltre interessi e rivalutazione (ii) al risarcimento dei danni subiti, da determinarsi in via equitativa, in conseguenza della violazione degli artt. 1337, 1337, 1366 e 1376 c.c. Nello specifico, nonostante l’attrice avesse richiesto l’accertamento della nullità, totale o parziale, del contratto di conto corrente e avesse altresì rinunciato all’azione di ripetizione dell’indebito, il Tribunale aveva ritenuto l’eccezione di prescrizione proposta dalla banca convenuta assorbente e/o preclusiva ai fini della determinazione del saldo dovuto.

La banca convenuta appellava a sua volta la sentenza di primo grado.

Con sentenza non definitiva, la Corte d’Appello accoglieva il motivo di appello formulato dalla correntista evidenziando che l’azione di accertamento della nullità, totale o parziale, del contratto di conto corrente è imprescrittibile così come quella di accertamento della determinazione del saldo di conto corrente quale conseguenza dell’operatività di clausole contrattuali nulle.

A seguito della rinnovazione dell’istruttoria emergeva, tuttavia, in concreto, un saldo di conto corrente più sfavorevole per la correntista rispetto a quanto accertato nella sentenza di primo grado, sicché la Corte d’Appello riteneva di doversi applicare il principio secondo cui non si può riformare la sentenza di primo grado con una statuizione peggiore rispetto a quella emessa in precedenza.

La Corte d’Appello ha accertato che il saldo del conto corrente ammonta ad un importo inferiore al saldo accertato con la sentenza e ha rigettato l’appello promosso dal correntista e ha compensato le spese legali.

(Massime a cura di Giovanbattista Grazioli)




Tribunale di Brescia, sentenza del 23 gennaio 2023, n. 126 – contratto di locazione finanziaria, fallimento dell’utilizzatore in pendenza del contratto e scioglimento dello stesso, obblighi restitutori

In caso di fallimento dell’utilizzatore di un contratto di locazione finanziaria, se il curatore fallimentare richiede lo scioglimento del contratto ai sensi del combinato disposto degli artt. 72 l. fall. comma primoe 72-quater comma primo, il concedente ha diritto alla restituzione del bene oggetto del contratto.

Non si può rimettere all’arbitrio del concedente la scelta se vendere o meno il bene restituito, rendendo così, nella seconda ipotesi, inapplicabile il dettato dell’art. 72-quater l. fall., frustrando di conseguenza il diritto del conduttore fallito e quindi della procedura.

Inoltre, il concedente è comunque obbligato a riconoscere al fallimento il valore indicato dall’art.  72-quater, comma terzo, l. fall., anche se la vendita o altre modalità di collocazione del bene non si sono verificate a causa della negligenza del concedente.

La finalità della procedura di realizzazione del valore di cui all’art. 72-quater, comma terzo, l. fall. è di operare una comparazione di valori tra il credito residuo del concedente ed il valore residuo del bene stesso, in quanto con tale differenza si intende sia soddisfare il credito residuo del concedente sia destinare al fallimento l’ulteriore somma che eventualmente dovesse rimanere. Pertanto, è del tutto irrilevante che tale disposizione non preveda un termine per la vendita, non potendo il concedente procrastinare arbitrariamente la vendita o collocazione del bene, specie in casi in cui il valore residuo del bene ecceda di gran lunga il credito residuo del concedente, poiché, altrimenti, impedirebbe al fallimento, con un comportamento contrario a buona fede, di esercitare il diritto garantito dalla disposizione a riscuotere la differenza.

Principi espressi nel corso di un giudizio in appello avviato da una società di leasing (concedente) per un’asserita errata interpretazione da parte del giudice di prime cure dell’art. 72 – quater, comma terzo, l. fall.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 20 gennaio 2023, n. 125 – clausola compromissoria, controversie societarie, dimissioni volontarie, compenso degli amministratori

Gli amministratori sono legati alla società da un rapporto di immedesimazione organica, non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato, né a quello di collaborazione coordinata e continuativa. Esso, piuttosto, deve essere ascritto all’area del lavoro professionale autonomo ovvero qualificato come rapporto societario tout court (Cass. n. 2759/2016). Partendo da tale assunto, l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità (cfr. anche Cass. n. 13956/2016, SS.UU. n. 1545/2017, Cass. n. 285/2019) ha chiarito la natura lato sensu societaria delle controversie che contrappongono la società al suo amministratore (o viceversa).

Di conseguenza, le controversie tra amministratori e società, anche se specificamente attinenti al profilo “interno” dell’attività gestoria ed ai diritti che ne derivano agli amministratori (quale quello alla spettanza del compenso), sono compromettibili in arbitri, ove nello statuto della società sia presente una clausola compromissoria in tal senso (Cass. n. 2759/2016).

Tale conclusione è corroborata anche dal criterio ermeneutico estensivo di cui all’art. 808-quater c.p.c., il quale sancisce che “nel dubbio, la convenzione d’arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce”.

I princìpi sono stati espressi nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, con il quale era stato ingiunto a una società, di cui la parte opponente era amministratore, di pagare a quest’ultimo una somma a titolo di residuo compenso, oltre a interessi e spese, per l’attività prestata sino alla data delle sue dimissioni. La società opponente ha eccepito l’incompetenza dell’autorità giudiziaria ordinaria – dalla quale sarebbe dipesa la nullità del decreto ingiuntivo da essa pronunciato – facendo rilevare la presenza nel proprio statuto di una clausola compromissoria. Detta clausola avrebbe imposto, oltre all’esperimento di un previo tentativo di conciliazione, la devoluzione in arbitri – inter alia – di qualsiasi controversia promossa da amministratori, liquidatori e sindaci, ovvero promossa nei loro confronti, avente ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale. Avendo l’amministratore opponente aderito all’eccezione di “competenza arbitrale”, il Tribunale di Brescia ha revocato il decreto ingiuntivo e, sempre per effetto della suddetta competenza arbitrale, ha dichiarato il suo difetto a conoscere ogni ulteriore domanda proposta nel merito.

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 17 gennaio 2023 – s.n.c., sequestro conservativo a garanzia del diritto di credito per gli utili non versati