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Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 22 dicembre 2022, n. 1555 – contratto di leasing, interessi usurari

Come statuito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. SS.UU, n. 19597/2020), seppure l’interesse moratorio vada computato nel calcolo dell’usura, la sua eventuale nullità riguarda solo tal sorta d’interesse, sicché è da escludere che, in caso di accertata usurarietà, la sanzione ex art. 1815, c. 2, c.c. si estenda anche agli interessi corrispettivi, determinandosi così la gratuità del contratto.

Qualora nel contratto venga previsto un tasso alternativo in caso di cessazione del parametro di riferimento per il calcolo del tasso corrispettivo, non si avrà comunque alcun vizio di indeterminatezza dell’obbligazione relativa agli interessi del contratto di leasing quando il tasso alternativo sia “acquisibile” dal debitore (come accade ad esempio qualora si faccia riferimento a un tasso medio d’interesse con cui un gran numero di istituti bancari europei effettuano le operazioni interbancarie di scambio di denaro nell’area Euro, il quale viene costantemente reso noto su tutti i quotidiani economici, i siti web e le riviste di settore

L’applicazione per il calcolo degli interessi di un parametro c.d. “Euribor manipolato” (in ragione di un’intesa anticoncorrenziale da parte di istituti di credito), non ha alcuna rilevanza sulla validità del riferimento al parametro e men che meno sulla determinabilità dell’oggetto del contratto stipulato da imprese estranee all’accordo, non potendo l’accertata intesa restrittiva della concorrenza produrre effetti sui contratti stipulati da imprese del tutto estranee a essa; tutt’al più, potrebbe residuare una pretesa risarcitoria, per il maggior costo subito, da esercitare nei confronti delle imprese che abbiano preso parte all’accordo.

Nel contratto di leasing, quando siano esplicitati tutti gli elementi per poter calcolare le rate, essendo così soddisfatti i requisiti richiesti dall’art. 117 T.U.B., non vi è alcuna necessità di allegare un “piano di ammortamento”, il quale non costituisce un elemento essenziale del contratto.

Princìpi esposti nel contesto di un’impugnazione in appello, volta ad accertare anzitutto la gratuità di un contratto di leasing in ragione dell’asserita nullità degli interessi di mora previsti nel contratto ai sensi dell’art. 1815, c. 2, c.c. (la quale in thesi si sarebbe estesa anche a quelli corrispettivi), nonché l’indeterminatezza dell’oggetto del contratto e la violazione dell’art. 117 T.U.B. per indeterminatezza del tasso pattuito e poiché non sarebbe stata specificata la composizione delle rate, anche considerata la nullità della clausola determinativa degli interessi in ragione dell’applicazione di un parametro Euribor manipolato. La Corte d’Appello ha rigettato nel merito la domanda svolta in via principale – diversamente dalla decisione del giudice di prime cure che aveva dichiarato l’inammissibilità della domanda in primo grado per carenza di interesse ad agire –, asserendo, in linea con la recente giurisprudenza delle Sezioni Unite, che, seppure l’interesse moratorio vada computato nel calcolo dell’usura, la sua eventuale nullità riguarda solo tal sorta d’interesse. La Corte ha altresì rigettato nel merito le ulteriori censure, ritenendo sufficiente ai fini della determinabilità degli interessi il riferimento al tasso “Euribor tre mesi lettera”, anche se non ne era stato indicato il valore specifico alla stipula, e altresì sufficienti ai fini dell’art. 117 T.U.B. gli elementi previsti nel contratto per il calcolo delle rate, del tasso e i relativi parametri.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 22 dicembre 2022, n. 1553 – sommatoria del tasso degli interessi, interessi di mora e interessi corrispettivi, contratto autonomo di garanzia, fideiussione

Per determinare il tasso contrattuale da confrontare con la soglia antiusura, è necessario considerare separatamente e distintamente gli interessi di mora e gli interessi corrispettivi (cfr. Cass. SS.UU. n. 19597/2020). In altre parole, non si può applicare il principio di sommatoria del tasso degli interessi, che non fa distinzione tra i costi associati al regolare adempimento del contratto e quelli legati al suo inadempimento.

Il contratto autonomo di garanzia è un contratto con una causa valida e si distingue dalla fideiussione. Tale contratto, espressione dell’autonomia negoziale ex art. 1322 c.c., ha la funzione di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante sul debitore principale, contrariamente al contratto del fideiussore, il quale garantisce l’adempimento della medesima obbligazione principale altrui (cfr. Cass. n. 1186/2020). 

Principi espressi nell’ambito del giudizio di appello promosso da una società a responsabilità limitata avverso la sentenza del giudice di prime cure che respingeva un’opposizione a decreto ingiuntivo non sussistendo l’usurarietà della penale da risoluzione nonché del tasso moratorio.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 20 dicembre 2022, n. 3069 – responsabilità del liquidatore di s.r.l., contratti di consulenza, inadempimento contrattuale, lesione del credito di natura contrattuale

Nel totale difetto di iniziative dirette al recupero coattivo del credito vantato nei confronti di una s.r.l. in liquidazione, non può ritenersi provata la circostanza della sua effettiva e definitiva lesione che costituisce l’indefettibile presupposto della responsabilità del liquidatore della società debitrice.  E ciò perché l’obbligazione per responsabilità del liquidatore può essere invocata solo ove risulti dimostrato il definitivo inadempimento dell’obbligazione gravante su quest’ultima.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una società al fine di accertare la responsabilità del liquidatore di una s.r.l. in liquidazione per omesso pagamento del proprio credito e, conseguentemente, per sentire condannare il convenuto al risarcimento dei danni patiti per la violazione degli obblighi gravanti sul medesimo.

In particolare, a fondamento della propria domanda l’attrice deduceva   di aver concluso con la s.r.l. in liquidazione, in persona del liquidatore, due distinti contratti di consulenza, regolarmente adempiuti, e che la debitrice non aveva provveduto al pagamento del compenso concordato.

Il Tribunale ha rigettato la domanda, avendo rilevato che la società attrice risultava ancora creditrice della s.r.l. in liquidazione e che non aveva provveduto ad alcun tentativo di recupero del proprio credito.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 19 dicembre 2022, n. 1528 – contratto di leasing, clausola penale, restituzione dei canoni

Il giudicato sostanziale conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo copre non soltanto l’esistenza del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il credito ed il rapporto stessi si fondano, ma anche l’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al ricorso per ingiunzione e non dedotti con l’opposizione. Tuttavia, il giudicato non si estende ai fatti successivi allo stesso ed a quelli che comportino un mutamento del “petitum” ovvero della “causa petendi” in seno alla domanda rispetto al ricorso esaminato dal decreto esecutivo.

In un contratto di leasing, la clausola penale che prevede, oltre all’immediata restituzione del bene, anche la definitiva acquisizione da parte della società di leasing di quanto l’utilizzatore aveva corrisposto durante la vigenza del contratto, è pienamente legittima e compatibile con l’art. 1526 c.c. in quanto, al comma primo tale norma prevede per il venditore l’obbligo di restituzione delle rate riscosse e il diritto al pagamento di equo compenso per l’uso della cosa (in aggiunta logicamente alla restituzione del bene di proprietà), mentre al secondo comma statuisce che i contraenti possano convenire che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo d’indennità; inoltre sempre il comma primo fa salvo il diritto del venditore al risarcimento del danno, e la quantificazione del danno ben può essere preventivamente determinata dalle parti con clausola penale.

In un contratto di leasing, la clausola penale è coerente con l’esigenza di riequilibrare la posizione delle parti, in quanto consente alla società concedente di recuperare integralmente il finanziamento erogato, comprensivo dell’utile sperato sino al momento in cui il contratto ha avuto regolare esecuzione, ponendola nella stessa situazione in cui si sarebbe trovata se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto e restando, d’altro canto, esclusa la possibilità di un ingiustificato arricchimento della medesima concedente, atteso l’obbligo di quest’ultima di imputare a credito dell’utilizzatore il valore del bene oggetto del contratto di leasing, dallo stesso restituito.

I principi sono stati espressi nell’ambito di un giudizio d’appello promosso da una società che aveva sottoscritto un contratto di leasing con una banca, la quale aveva prima agito in via monitoria, ingiungendo all’utilizzatrice il pagamento di una somma a titolo di canoni di leasing non pagati e, successivamente, si aveva risolto di diritto il contratto di leasing per inadempimento dell’utilizzatore stesso. Nel giudizio di primo grado, la società utilizzatrice conveniva in giudizio la concedente affinché fosse (i) accertata e dichiarata la nullità della clausola relativa alla determinazione degli interessi convenzionali e moratori usurai e, conseguentemente, fossero dichiarati non dovuti interessi ai sensi dell’art. 1815 c.c.; (ii) accertato che tra le parti era stato stipulato un contratto di leasing traslativo e che la risoluzione comportava, ai sensi dell’art. 1526 c.c. la restituzione dei canoni già pagati e riscossi e, per l’effetto, la società di leasing fosse condannata a restituire le somme riscosse a titolo di canone. Il Tribunale di Brescia, richiamando recente giurisprudenza di legittimità, accoglieva l’eccezione di giudicato della società di leasing convenuta, affermando che la sentenza che aveva respinto l’opposizione al decreto ingiuntivo con cui era stato intimato alla società utilizzatrice il pagamento di una somma a titolo di canoni di leasing non pagati, faceva stato tra le parti non solo sull’esistenza e validità del rapporto contrattuale e sulla misura del canone di leasing preteso, ma anche in ordine all’inesistenza di fatti impeditivi o estintivi non dedotti ma deducibili nel giudizio di opposizione, per cui doveva ritenersi escluso per il conduttore/utilizzatore la possibilità di eccepire la nullità delle clausole del contratto di leasing.

Nel giudizio di appello la società utilizzatrice chiedeva la riforma della sentenza fondata su due motivi di gravame e l’accoglimento delle domande già avanzate in primo grado. In particolare l’appellante contestava che il giudicato concernente il pagamento di alcuni canoni potesse paralizzare la domanda ex art. 1526 c.c. di restituzione dei canoni già pagati e riscossi e la condanna della società di leasing alla restituzione delle somme percepite a titolo di pagamento dei canoni di leasing, in quanto all’epoca di emissione del decreto ingiuntivo non era ancora intervenuta la risoluzione del contratto di leasing, posteriore di circa un anno, sicché la predetta domanda di restituzione non poteva essere dedotta nel giudizio di opposizione. Chiedeva quindi, nel merito, che la società di leasing fosse condannata ex art. 1526 c.c. alla restituzione dei canoni già pagati e riscossi.

La Corte d’Appello ha rigettato l’appello principale proposto dell’utilizzatore e confermato la sentenza del Tribunale. Il Collegio ha ritenuto, infatti, non sussistenti i presupposti per l’accoglimento della domanda di condanna della concedente alla restituzione dei canoni di leasing riscossi in esecuzione del contratto, i quali, in base al regolamento pattizio, era previsto che restassero a mani della concedente in caso di risoluzione contrattuale.

(Massime a cura di Roberta Ponzoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 15 dicembre 2022, n. 3032 – società a responsabilità limitata, fallimento, azione di responsabilità amministratore, art. 2476 c.c.

Per l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è sufficiente invocare genericamente il compimento di atti di “mala gestio” e riservare una più specifica descrizione di tali comportamenti nel corso del giudizio, atteso che per consentire alla controparte l’approntamento di adeguata difesa, nel rispetto del principio processuale del contraddittorio, la “causa petendi” deve sin dall’inizio sostanziarsi nell’indicazione dei comportamenti asseritamente contrari ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto sociale. Ciò vale tanto che venga esercitata un’azione sociale di responsabilità quanto un’azione dei creditori sociali, perché anche la mancata conservazione del patrimonio sociale può generare responsabilità non già in conseguenza dell’alea insita nell’attività di impresa, ma in relazione alla violazione di doveri legali o statutari che devono essere identificati già nella domanda nei loro estremi fattuali (cfr. Cass n. 23180/2013 e Cass. n. 28669/2013). Tale onere di specifica allegazione si estende a tutti gli elementi costitutivi dell’azione di responsabilità sicché l’attore deve fornire indicazioni altrettanto puntuali in ordine all’esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito di un determinato soggetto (cfr. Cass. n. 7606/2011).

Costituisce violazione degli obblighi di corretta gestione societaria, azionabile in via risarcitoria dalla curatela fallimentare, il comportamento degli amministratori che, sia negli anni anteriori alla messa in liquidazione della società che successivamente, hanno sistematicamente omesso di provvedere al regolare pagamento dei debiti tributari e contributivi, in tal modo palesando la loro incapacità di correttamente gestire le risorse finanziare sociali ed arrecando pregiudizio al patrimonio sociale, quantificabile nell’aggravio del debito originario, aumentato per accessori, sanzioni, interessi e somme aggiuntive.

L’omessa rilevazione della perdita del capitale sociale e la conseguente prosecuzione indebita dell’attività di impresa, con conseguente aggravio del deficit comportano, per giurisprudenza ormai costante (recepita d’altronde dall’art. 2486, comma terzo, nuovo testo, c.c.), la responsabilità risarcitoria degli amministratori per un importo coincidente – di norma – proprio con l’incremento del deficit patrimoniale (al netto, peraltro, dei cc.dd. costi normali di liquidazione), secondo il noto criterio della differenza fra netti patrimoniali. Tuttavia, l’effettivo aggravio del deficit non può, come ovvio, ritenersi coincidente col mero dato dell’incremento del debito bancario, che potrebbe essere, in ipotesi, opportunamente bilanciato dall’incremento di poste attive (o dalla corrispondente diminuzione di altre poste passive).

Princìpi espressi in relazione ad una causa promossa dal fallimento di una società a responsabilità limitata che ha convenuto in giudizio gli amministratori della stessa per ottenerne la condanna, in solido, al risarcimento dei danni cagionati alla società, poi fallita, in conseguenza di vari atti di mala gestio compiuti.

(Massime a cura di Carola Passi)




Tribunale di Brescia, sentenza del 15 dicembre 2022, n. 3030 – s.r.l., cessione quote, incapacità naturale, art. 428 c.c., art. 1425 c.c., art. 1453 c.c., art. 1427 c.c., art. 2753 c.c.

Qualora l’attore impugni un contratto di cessione di quote allegando la propria incapacità naturale all’atto della stipula in ragione di un “rallentamento cognitivo”, l’omessa produzione della cartella clinica relativa al ricovero del medesimo impedisce ogni ulteriore valutazione sull’entità di tale “rallentamento cognitivo” e sulle relative cause. Inoltre, gli elementi emersi in corso di causa non confortano l’allegazione attorea in quanto il contratto per cui è causa risulta essere stato sottoscritto ad oltre un mese dalla dimissione e in ogni caso non vi è coincidenza tra “rallentamento cognitivo” e “incapacità di comprendere”.

Nei rapporti tra le parti la quietanza di pagamento ha valore di confessione stragiudiziale resa alla controparte; nel dettaglio la quietanza, rilasciata dal creditore al debitore all’atto del pagamento, ha natura di confessione stragiudiziale in ordine al fatto estintivo dell’obbligazione ai sensi dell’art. 2735 c.c., e, come tale, solleva il debitore dal relativo onere probatorio, vincolando il giudice circa la verità del fatto stesso, se e nei limiti in cui la stessa sia fatta valere nella controversia in cui siano parti, anche in senso processuale, l’autore e il destinatario di quella dichiarazione di scienza (cfr. Cass. n. 21258/2014).

L’obbligazione di pagamento del corrispettivo non può ritenersi adempiuta in quanto è noto che in tema di adempimento di obbligazioni pecuniarie mediante il rilascio di assegni bancari, l’estinzione del debito si perfeziona soltanto nel momento dell’effettiva riscossione della somma portata dal titolo, poiché la consegna dello stesso deve considerarsi effettuata, salva diversa volontà delle parti, “pro solvendo” (cfr. Cass. n. 14372/2018).

Princìpi espressi con riguardo al rigetto di una domanda volta all’annullamento dell’atto di trasferimento delle quote di una s.r.l. a causa dello stato di salute fisica e mentale della parte cedente che avrebbe costituito un grave vizio del consenso ex art. 1427 c.c. e a causa della falsa rappresentazione della realtà, perché il trasferimento della titolarità delle quote rappresentative del 95% del capitale della s.r.l. sarebbe stata effettuato senza il versamento del corrispettivo.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)