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Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 25 novembre 2022, n. 1403 – contratto di leasing

La disciplina antiusura si applica agli interessi moratori essendo la stessa finalizzata a sanzionare non solo la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria dovuta in relazione al contratto. In conseguenza dell’accertamento dell’usurarietà degli interessi moratori, ai sensi dell’art. 1815, comma 2, c.c., non saranno dovuti gli interessi moratori pattuiti, ferma restando, ai sensi dell’art. 1224, comma 1, c.c., la debenza degli interessi corrispettivi lecitamente convenuti, in relazione ai quali, dunque, nessuna pretesta restitutoria può essere giustificata e, pertanto, trovare accoglimento. La soglia sopra la quale gli interessi moratori sono da considerarsi usurari, infatti, va calcolata autonomamente rispetto agli interessi corrispettivi, in forza del principio per cui interessi moratori e corrispettivi hanno cause diverse e sono dovuti in momenti ben distinti, donde la scorrettezza di una loro mera sommatoria e del loro raffronto a un unico parametro.

L’inserimento di una c.d. “clausola di salvaguardia” in forza della quale l’eventuale fluttuazione del saggio di interessi convenzionale dovrà essere comunque mantenuta entro i limiti del c.d. “tasso soglia” antiusura di cui all’art. 2, comma 4, della legge 108/1997, trasforma il divieto legale di pattuire interessi usurari nell’oggetto di una specifica obbligazione contrattuale a carico della banca consistente nell’impegno a non applicare mai, per tutta la durata del rapporto, interessi in misura superiore a quella massima consentita dalla legge. Pregiudiziale rispetto all’insorgenza dell’onere della banca di provare l’adempimento del predetto impegno assunto ai sensi della clausola di salvaguardia è però l’onere del debitore di provare il superamento del tasso soglia antiusura.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello avverso sentenza di primo grado relativa a tre contratti di leasing immobiliari finalizzato ad, inter alia (i) accertare il superamento del tasso soglia d’usura di cui alla legge 108 del 1996 e, per l’effetto, rielaborare il piano dei pagamenti senza alcuna applicazione di interessi e determinare le somme indebitamente versate a titolo di interessi usurari, (ii) accertare che il tasso di mora alla data di stipula fosse superiore al tasso soglia di usura di cui alla legge n. 108 del 1996, (iii) accertare che il tasso leasing contrattuale non sia conforme al tasso effettivo globale e, pertanto, venga applicato il tasso sostitutivo di cui all’art. 117, settimo comma, d. lgs n. 285/1993. Inoltre, quale conseguenza dei predetti accertamenti, l’appellante ha richiesto di (i) dichiarare la nullità delle clausole contenenti le condizioni economiche dei predetti contratti di locazione finanziaria per la usurarietà degli interessi in essi pattuiti, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1815, comma 2, c.c., (ii) imputare a capitale tutte le somme da essa pagate a titolo di interesse, nonché accertare e determinare le eventuali residue somme dovute a saldo e, pertanto, (iii) condannare la società di leasing al pagamento dei compensi e delle spese di giudizio.

La Corte d’Appello ha rigettato l’appello e, per l’effetto, ha confermato la sentenza impugnata. Pertanto la Corte d’Appello ha condannato alle spese legali l’appellante – utilizzatore dei contratti di leasing – risultato soccombente.

(Massime a cura di Emanuele Taddeolini Marangoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 25 novembre 2022, n. 1402 – diritto industriale, indicazioni geografiche, IGP

Se è registrata come IGP una denominazione composta, formata sia da parole comuni o generiche che da termini geografici, la protezione dell’indicazione geografica non si estende ai termini comuni, ma riguarda solo la denominazione complessivamente considerata. Il richiamo all’origine del prodotto, la cui componente geografica appare determinante, è elemento essenziale della tutela invocata ex art. 13, par. 1, lett. b), Reg. UE n. 1151/2012 in termini di evocazione illecita. Va quindi esclusa l’evocazione illecita in caso di utilizzo da parte di terzi di termini comuni presenti in una denominazione composta registrata come IGP, a meno che questi siano accompagnati da elementi testuali o figurativi che, richiamando la zona di origine del prodotto IGP, possono generare evocazione di esso o confusione con il medesimo.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio d’appello promosso da un consorzio di tutela di una Indicazione Geografica Protetta (IGP), costituita da una denominazione composta non soltanto da una denominazione geografica, ma anche da termini comuni.

Il consorzio appellante domandava l’accertamento della sussistenza di condotte di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c. e di evocazione illecita ex art. 13, par. 1, lett. b), Reg. UE n. 1151/2012, asseritamente perpetrate dalla società convenuta e la conseguente tutela inibitoria e risarcitoria. Nello specifico, l’appellante lamentava l’indebito utilizzo da parte della società convenuta, nella denominazione dei propri prodotti, di parole suscettibili di determinare confusione con il prodotto contraddistinto dalla IGP dallo stesso tutelata con conseguente configurabilità della c.d. evocazione illecita di nomi registrati ex art.13, par. 1, lett. b), Reg. (UE) n. 1151/2012.

La società convenuta chiedeva il rigetto delle domande avversarie.

 La Corte d’Appello ha condiviso la decisione del Tribunale che aveva rigettato la domanda del consorzio avendo ritenuto che l’utilizzo sostantivato di uno dei termini che compongono la IGP in esame, unitamente alla somiglianza dei prodotti, delle confezioni e all’identità dei canali distributivi, non fosse sufficiente a realizzare la fattispecie dell’evocazione illecita, in quanto nel prodotto della convenuta non vi era alcun riferimento al territorio di origine della denominazione protetta. Il Tribunale che non aveva neppure ravvisato nel caso di specie la sussistenza di atti di concorrenza sleale, atteso che l’attore non aveva addotto a fondamento della propria domanda risarcitoria elementi fattuali idonei a comprovare un effettivo sviamento della clientela in modo non conforme alla correttezza professionale e quindi la configurabilità di condotte idonee a danneggiare le aziende consorziate. In ogni caso è stata esclusa la possibilità di ravvisare un’ipotesi di concorrenza sleale confusoria ex art. 2598, n. 1, c.c. perché tale norma tutelerebbe i segni distintivi e non le IGP.

All’esito del giudizio, la Corte d’Appello ha respinto il gravame e ha confermato la sentenza di primo grado, condannando l’appellante al pagamento delle spese processuali.

La Corte d’Appello ha rigettato l’appello e confermato la sentenza impugnata, con condanna dell’appellante al pagamento delle spese processuali.

(Massime a cura di Alice Rocco)




Tribunale di Brescia, sentenza dell’11 novembre 2022, n. 2740 – clausola compromissoria, legittimazione attiva del curatore speciale, annullamento del contratto ex art. 2475 ter c.c., azione revocatoria ex art. 2901 c.c.

Qualora nello statuto di una s.r.l. sia inserita una clausola compromissoria (da ritenere valida ex art. 34 d. lgs. 5/2003 applicabile ratione temporis) che devolva ad un collegio arbitrale qualunque controversia che dovesse insorgere fra i soci o fra questi e la società, incluse le controversie promosse dagli amministratori o nei loro confronti, per questioni attinenti al rapporto sociale in materia di diritti disponibili, la competenza dell’arbitro sussiste, in ipotesi di litisconsorzio necessario, anche nel caso in cui solo uno dei litisconsorti sollevi l’eccezione di arbitrato.

Qualora sia nominato un curatore speciale di una s.r.l., al fine di consentire a questa di partecipare al giudizio avente ad oggetto l’accertamento della responsabilità dell’amministratore unico verso la società medesima, il potere rappresentativo del primo non lo legittima a formulare anche una domanda di annullamento del contratto di cessione d’azienda concluso dall’amministratore in conflitto di interessi, attesa l’eterogeneità tra gli oggetti delle due domande.

In relazione alla domanda di annullamento del contratto concluso in conflitto d’interessi con la s.r.l. dall’amministratore che ne ha la rappresentanza ex art. 2475 ter c.c., il socio è carente di legittimazione attiva, dal momento che tale domanda può essere formulata solo dalla società.

Con l’azione revocatoria il creditore può domandare, ai sensi dell’art. 2901 c.c., che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni. L’attore ha in tal caso l’onere di provare anzitutto di essere creditore del contraente che ha disposto del proprio patrimonio con l’atto oggetto della domanda.

Principi espressi nel giudizio promosso dall’asserita socia di una s.r.l. volto a ottenere: (i) l’accertamento della sua qualità di partecipante alla compagine sociale; (ii) il risarcimento del danno cagionato alla s.r.l. partecipata  dall’amministratore  a fronte della cessione dell’azienda ad altra s.r.l. in conflitto di interessi e a prezzo notevolmente inferiore rispetto al suo valore effettivo; (iii) la revoca del convenuto  dalla carica di amministratore della s.r.l. e la nomina di un amministratore giudiziario; (iv) la revoca ex art. 2901 c.c. dell’atto con il quale la società partecipata aveva trasferito l’azienda alla cessionaria.

Il Tribunale  ha dichiarato: (i) la propria incompetenza in relazione alla domanda di accertamento della qualifica di socia della s.r.l. in capo all’attrice e all’azione di responsabilità dalla stessa proposta nei confronti dell’amministratore della s.r.l., attesa la presenza nello statuto di una clausola compromissoria ; (ii) la carenza di legittimazione attiva di parte attrice e della s.r.l., in persona del suo curatore speciale, con riguardo alla domanda di annullamento del contratto di cessione di azienda  oggetto di causa; (iii) la carenza di legittimazione attiva di parte attrice con riguardo alla domanda di revoca  di detto contratto di cessione di azienda.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza dell’11 novembre 2022, n. 1364 – contratti bancari, mutuo di scopo, mutuo solutorio, anatocismo, ammortamento alla francese, usura

Il mutuo concesso al fine di estinguere debiti pregressi (c.d. “mutuo solutorio”) non è nullo per contrarietà alla legge o all’ordine pubblico, costituendo il ripianamento della passività una possibile modalità di impiego dell’importo mutuato. Deve dunque confermarsi il superamento dell’indirizzo giurisprudenziale per cui tale contratto sarebbe illecito o simulato, in quanto il ricorso al credito come mezzo di ristrutturazione del debito è previsto dalla stessa normativa vigente (Cass. 23419/2022).

La qualificazione del finanziamento come mutuo di scopo (in specie, solutorio), anziché come mutuo ordinario con semplice enunciazione dei motivi, dipende dalla comune volontà delle parti dedotta in contratto. Tale qualificazione impone l’accertamento dell’esistenza di un preciso e ben individuabile interesse del mutuante al raggiungimento degli obiettivi indicati nella clausola di scopo, la quale deve imporre al mutuatario l’utilizzo delle somme ricevute per la realizzazione delle particolari finalità dedotte nel contratto. In caso contrario, tale clausola dovrà intendersi come meramente enunciativa degli intendimenti del mutuatario, a lui solo riferibili e dunque privi di rilievo giuridico (App. Brescia, 29 gennaio 2020 resa nel procedimento 1197/17 RG; App. Brescia, 1344/2015).

L’adozione di un piano di ammortamento c.d. “alla francese” (che prevede la restituzione del finanziamento in rate composte da una quota di capitale e una quota di interessi calcolata sul capitale residuo, in modo tale che al progredire dell’ammortamento la quota di capitale cresca e quella di interessi diminuisca) non implica automaticamente anatocismo, in quanto il calcolo degli interessi è di regola effettuato sul capitale residuo da restituire al finanziatore. A partire dalla quota di interessi riferita alla singola rata, infatti, viene determinata per differenza la quota capitale la cui restituzione viene portata a riduzione del debito. In tal modo, l’interesse non è produttivo di altro interesse e viene separato dal capitale. La costituzione composita delle rate di rimborso attiene esclusivamente alle modalità di adempimento delle due obbligazioni restitutorie poste a carico del mutuatario (quella relativa al capitale e quella relativa agli interessi), che sono ontologicamente distinte e rispondono a finalità diverse. Il fatto che esse concorrano nella stessa rata non è sufficiente a mutarne la natura o a escluderne l’autonomia (Cass. 11400/2014).

Il costo di estinzione anticipata del mutuo non deve essere incluso nel calcolo del TEGM (necessario per la determinazione del tasso usurario rispetto all’operazione posta in essere), in quanto tale spesa è meramente eventuale dovendosi applicare nel solo caso di estinzione anticipata del mutuo. Infatti, non è un effetto che consegue direttamente alla stipula del contratto di mutuo, ma un effetto che può scaturire solo nel momento in cui si verifichino eventi che esulano dalla regolare esecuzione del contratto medesimo. Poiché la disciplina antiusura impone il confronto tra soli dati omogenei, l’importo della penale non può essere incluso tra le voci rilevanti ai sensi della L. 108/1996.

I princìpi esposti sono stati espressi in relazione ad una controversia riguardante la stipulazione, da parte di una società, di alcuni contratti di conto corrente e di mutuo da rimborsarsi secondo un piano di ammortamento c.d. “alla francese”. Rimasta insoluta l’obbligazione restitutoria, la banca creditrice aveva ottenuto l’emanazione di un decreto ingiuntivo, impugnato dalla debitrice e dai suoi garanti, i quali, in prime cure, avevano sollevato plurime contestazioni. Giunta la causa al grado d’appello, deciso con la sentenza massimata, quanto ai contratti di mutuo gli appellanti: (a) contestavano la nullità dei contratti in ragione della qualificazione dei medesimi quali mutui di scopo; (b) lamentavano la natura anatocistica degli interessi pagati nell’ammortamento alla francese; ed infine (c) rilevavano il superamento del tasso-soglia di usura previsto dalla L. 108/1996, poiché nel calcolo del TEGM – parametro base per il computo del tasso usurario – sarebbe stato necessario includere anche i costi di estinzione anticipata del mutuo.

(Massime a cura di Leonardo Esposito)




Tribunale di Brescia, sentenza del 3 novembre 2022, n. 2656 – società, società a responsabilità limitata, invalidità delle decisioni dei soci

Il socio che ha impugnato il bilancio di esercizio per violazione dei principi inderogabili di rappresentazione chiara, veritiera e corretta ha interesse ad impugnare, per i medesimi vizi, anche le deliberazioni di approvazione dei bilanci relativi agli esercizi successivi. Tale interesse non dipende unicamente dalla frustrazione dell’aspettativa del socio  a percepire un dividendo o, comunque, un immediato vantaggio patrimoniale derivante da una diversa e più corretta formulazione del bilancio, ma anche dal fatto  che la poca chiarezza o la scorrettezza del bilancio non permette al socio di avere tutte le informazioni – destinate a riflettersi anche sul valore della singola quota di partecipazione – che tale documento contabile dovrebbe fornire, ed alle quali il socio impugnante legittimamente aspira attraverso la declaratoria di nullità e il conseguente obbligo degli amministratori di predisporre un nuovo bilancio emendato dai vizi del precedente..  Pertanto, sino a che gli amministratori non abbiano ottemperato all’obbligo di adottare i provvedimenti conseguenti all’accoglimento dell’impugnazione avente ad oggetto la deliberazione di approvazione del bilancio di esercizio precedente, il socio impugnante preserva il proprio interesse (con correlata facoltà) a esercitare l’azione di impugnazione delle delibere di approvazione dei bilanci successivi, ancorché le impugnazioni siano tutte fondate sui medesimi motivi.

Assolvendo il bilancio una funzione rappresentativa della situazione patrimoniale e finanziaria della società cui si riferisce, nonché del suo risultato economico al termine dell’esercizio, tale da fornire ai soci e ai terzi tutte le informazioni previste dagli artt. 2423 e ss. c.c., devono considerarsi irrilevanti, rispetto alle  domande di invalidità della delibera di approvazione del bilancio, deduzioni incentrate su illeciti perpetrati dagli amministratori – seppur lesivi dell’integrità e del valore del patrimonio sociale –in assenza di allegazioni con riguardo alla violazione di norme e principi che presiedono alla loro corretta rappresentazione in bilancio.

Al fine di garantire la veridicità e correttezza del bilancio devono essere osservate le norme di dettaglio che indicano per ciascuna voce le condizioni per la relativa appostazione e le disposizioni codicistiche in materia di bilancio, completate e integrate dai principi contabili di riferimento. La violazione delle predette disposizioni tuttavia determina la non veridicità del bilancio solo quando le conseguenze di tali irregolarità sono “rilevanti” e arrecano un effettivo pregiudizio alla funzione informativa del bilancio.

L’effettuazione di operazioni in conflitto di interessi, anche se non concluse a normali condizioni di mercato, non pregiudica la veridicità del bilancio qualora venga fornita adeguata informazione in nota integrativa.

I principi sono stati espressi nell’ambito di un giudizio promosso dal socio di una società a responsabilità limitata in stato di liquidazione, finalizzato ad accertare l’invalidità della deliberazione di approvazione del più recente bilancio di esercizio di detta società.

La società convenuta, costituendosi, innanzitutto ha eccepito la carenza di un interesse ad agire dell’attore sostenendo che lo stesso, avendo impugnato il bilancio di esercizio precedente per violazione dei principi inderogabili di rappresentazione chiara, veritiera e corretta, non  avesse un interesse giuridicamente rilevante ad impugnare, per i medesimi vizi, il bilancio relativo agli esercizi successivi e, in secondo luogo, ha contestato la genericità e l’indeterminatezza della domanda dell’attore, essendo la stessa diretta a contestare atti gestori asseritamente negligenti e dannosi piuttosto che la violazione dei principi contabili adottati dal redattore nella predisposizione del bilancio e la violazione delle norme di cui agli artt. 2423 s.s. c.c. Nel merito la convenuta contestava le allegazioni dell’attore e chiedeva il rigetto della domanda da questo formulata.

Il Tribunale, nel merito, ha rigettato in toto la domanda dell’attore rilevando, inter alia, la scarsa attinenza tra i fatti allegati in atto di citazione ed eventuali vizi del bilancio e, pertanto, lo ha condannato a tenere indenne la società convenuta delle spese di lite.

(Massime a cura di Giada Trioni)