Sentenza dell’11 aprile 2022, n. 888 – Giudice designato: Dott. Raffaele Del Porto

È da
escludersi che la mera intervenuta ammissione del creditore al passivo del
fallimento possa comportare, per effetto del preteso giudicato fallimentare, una
preclusione all’esame delle domande coltivate dalla curatela. Infatti, l’ammissione
del credito allo stato passivo non fa stato fra le parti fuori dal fallimento:
il giudicato ha natura strettamente endofallimentare, dal momento che esso, ai
sensi dell’art. 96, comma 6, l. fall., copre solo la statuizione di rigetto o
di accoglimento della domanda di ammissione, precludendone il riesame (conf. Cass.
27709/2020).

La
dichiarazione di fallimento del debitore ingiunto – intervenuta quando il
decreto ingiuntivo non era ancora definitivo – comporta la declaratoria di
improcedibilità della domanda azionata in via monitoria dal creditore, essendo
questi tenuto a far accertare il proprio credito nell’ambito della verifica del
passivo, ai sensi degli artt. 92 e ss. l.fall., in concorso con gli altri
creditori (conf., fra le altre, Cass. 6195/2020). Trattasi, inoltre, di
improcedibilità rilevabile d’ufficio, senza che vada integrato il
contraddittorio nei confronti della curatela fallimentare.

Nel
caso di specie, la dichiarazione di fallimento del debitore interveniva in
pendenza di procedimento monitorio azionato a suo carico (ed in relazione al
quale il debitore aveva altresì presentato domanda di opposizione al decreto
ingiuntivo). Da ciò consegue che:
i)
l’esame delle domande di risoluzione del contratto e di risarcimento dei danni
proposte dal debitore, poi fallito, non risulta precluso dal giudicato
endofallimentare;
ii) il credito vantato nei suoi confronti deve essere
insinuato al passivo del fallimento;
iii) il decreto ingiuntivo (non
ancora definitivo) è revocato e la domanda azionata in via monitoria per far
valere detto credito è dichiarata improcedibile.

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Sentenza dell’8 aprile 2022, n. 860 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

Nelle
società di capitali, l’interesse del socio al potenziamento e alla
conservazione della consistenza economica dell’ente è tutelabile esclusivamente
con strumenti interni (i.e., la partecipazione alla vita sociale, l’impugnazione
delle deliberazioni degli organi societari, le azioni di responsabilità contro
gli amministratori). Ritenendosi queste tutele sufficienti, i soci non sono
legittimati ad impugnare i negozi giuridici stipulati dalla società. La
validità di questi, infatti, anche nelle ipotesi di nullità per illiceità
dell’oggetto, della causa o dei motivi, può essere contestata esclusivamente
dalla stessa società, senza che, al contrario, il socio possa invocare l’applicazione
dell’art. 1421 c.c., il quale sancisce che – salvo diversa disposizione di
legge – la nullità possa essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse (conf.
Cass. 12615/1999, Cass. n. 4579/2009, Cass. n. 29325/2021).

Tra
i presupposti costitutivi dell’azione surrogatoria di cui all’art. 2900 c.c.,
il legislatore prevede l’inerzia del debitore rispetto all’esercizio delle sue
pretese personali. Tale inerzia – e con essa la legittimazione del creditore
all’esercizio in via surrogatoria dell’altrui diritto – viene meno solo nel
momento in cui il debitore ponga in essere condotte idonee e sufficienti a far
ritenere utilmente espressa la sua volontà in ordine alla gestione del
rapporto. Il creditore, inoltre, non può sindacare le modalità con cui il
debitore abbia ritenuto di esercitare la propria situazione giuridica
nell’ambito del rapporto, né contestare le scelte e l’idoneità delle
manifestazioni di volontà espresse a produrre gli effetti riconosciuti
dall’ordinamento.

Nel
caso di specie, parte attrice agiva nella duplice qualità di socia e,
ex art. 2900 c.c., di creditore della parte
convenuta, al fine di ottenere, in via gradata:
i) l’accertamento della
nullità
ovvero l’annullamento di un
lodo arbitrale irrituale pronunciato tra le medesime parti;
ii) l’annullamento dei successivi accordi, in
quanto fondati su lodo nullo o annullabile, nonché in quanto in ogni caso non
idonei a configurare convalida del lodo (sul presupposto che fosse annullabile)
a causa dell’omessa menzione, richiesta
ex art. 1444 c.c., delle cause
di annullabilità.

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Sentenza del 5 aprile 2022, n. 812 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

In tema di responsabilità degli
amministratori, il contenuto e la natura della transazione di fine mandato,
sottoscritta tra società e amministratore delegato, non precludono la
possibilità di contestare la sussistenza di profili di responsabilità a carico
dell’amministratore per presunti atti di mala gestio compiuti in corso
di rapporto, salvo che la società non vi abbia espressamente rinunciato in sede
di accordo transattivo. In ogni caso, la società che agisce per il risarcimento
dei danni è tenuta a fornire la prova dell’esistenza del danno, del suo
ammontare e della sussistenza di un nesso eziologico con il comportamento
inadempiente o illecito dell’amministratore, non essendo l’antigiuridicità
della condotta di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio
della società.

Tale principio trova applicazione sia
nel caso di transazione novativa, in cui l’accordo si pone come nuova ed unica
fonte di disciplina del rapporto preesistente, sia nel caso di transazione c.d.
“semplice” o “conservativa”, con cui le parti si limitano a regolare il
rapporto preesistente mediante reciproche concessioni, senza costituirne uno
nuovo.

Da ciò consegue altresì che, in caso di
successiva scoperta di inadempimenti non rilevati al momento della transazione,
questi potranno essere fatti valere solo mediante l’impugnazione dell’accordo
transattivo per errore, il quale rileverà in questo caso in quanto inerente al
presupposto della transazione e non, invece, alle reciproche concessioni.

Nel
caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che l’azione di responsabilità esercitata
dalla società nei confronti dell’amministratore delegato, per presunte condotte
di
mala gestio al medesimo
imputabili, non fosse preclusa dall’intervento di una transazione novativa di
fine rapporto tra i suddetti soggetti, in quanto la società non vi aveva
rinunciato espressamente nel patto transattivo. Il Tribunale, tuttavia, rigettava
la domanda in conseguente del mancato soddisfacimento dell’onere probatorio a
carico della società, la quale ometteva di dare prova sia del danno sia del
nesso causale tra questo e la condotta tenuta dall’amministratore. Al contrario,
avendo l’amministratore dichiarato, in sede di transazione, di voler rinunciare
ad ogni altra pretesa nei confronti della società, risultava a lui preclusa la
possibilità di porre in contestazione l’esistenza di un suo credito per
compensi ed indennizzo.   

(Massime a cura di Chiara Alessio)