Sentenza del 23 novembre 2021, n. 2862 – Giudice designato: Dott. Gianluigi Canali

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Il termine decadenziale per l’esperimento dell’azione revocatoria fallimentare – nel caso in cui alla domanda di concordato preventivo faccia seguito la dichiarazione di fallimento – ai sensi dell’art. 69-bis, secondo comma, l. fall. decorre dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese. La disciplina in questione non opera alcuna distinzione tra l’ipotesi in cui la domanda di concordato preventivo venga poi omologata, e segua comunque il fallimento, ovvero l’ipotesi in cui la domanda di concordato sia invece rigettata, o rinunciata dall’istante stesso. Tuttavia, la retrodatazione non opera quando l’insolvenza, posta alla base della dichiarazione di fallimento, non sia quella sussistente alla data del deposito della domanda di concordato (conf. Cass. 9290/2018). Tale circostanza si verifica quando, dopo che la domanda di concordato sia stata rinunciata o respinta, l’impresa continui a svolgere la propria attività tipica e riesca a recuperare la capacità di far fronte alle proprie obbligazioni. Pertanto, la successiva dichiarazione di fallimento sarebbe fondata su di una successiva e diversa insolvenza che nulla avrebbe a che vedere con l’insolvenza precedente.

In tema di azione revocatoria fallimentare, l’estinzione di un’obbligazione da parte del debitore mediante la cessione di un bene di valore superiore al proprio debito costituisce una datio in solutum, qualificabile come mezzo anormale di pagamento e quindi revocabile ai sensi dell’art. 67, primo comma, n. 2, l. fall.

Nel caso di datio in solutum,il soccombente nell’azione di revocatoria fallimentare è tenuto a restituire i beni oggetto dell’atto inefficace oppure, qualora tali beni siano stati alienati a terzi, a corrisponderne l’equivalente pecuniario, secondo il valore che i beni avevano all’atto della stipula. Ciò premesso, nell’ipotesi di esperimento dell’azione revocatoria nei casi di cui al primo e secondo comma dell’art. 67 della l. fall., l’atto oggetto della revocatoria è originariamente valido ed efficace e, a seguito dell’accoglimento dell’azione, diviene privo di effetti nei confronti della massa fallimentare. In ragione della natura di azione costitutiva, avente ad oggetto l’esercizio di un diritto potestativo e non di un diritto di credito, l’obbligazione restitutoria pecuniaria nascente dalla revocatoria stessa, in dipendenza della natura dell’atto revocato, non ha ad oggetto un debito di valore, ma un debito di valuta. Ne consegue che gli interessi sulla somma da restituire decorrono dalla domanda giudiziale e che il risarcimento del maggior danno conseguente al ritardo con cui sia stata restituita la somma di denaro, oggetto della revocatoria, è dovuto solo ove l’attore alleghi specificamente tale danno e dimostri di averlo subito (conf. Cass. n. 887/2006; Cass. n. 12736/2011; Cass. n. 12850/2018).

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dalla curatela fallimentare, nei confronti del venditore, per ottenere la revocatoria ex art. 67, primo comma, n. 2, l. fall. della datio in solutum effettuata nell’anno anteriore alla procedura di concordato, successivamente dichiarata estinta. La parte convenuta aveva eccepito la non revocabilità dell’atto ai sensi dell’art. 69-bis, secondo comma, l. fall. e, altresì, che l’operazione commerciale posta in essere dovesse essere qualificata come regolare compravendita con compensazione del prezzo e non come datio in solutum.  

Il Tribunale giudicava ammissibile l’azione ai sensi dell’art. 69-bis, secondo comma, l. fall., atteso che l’originaria insolvenza, che aveva determinato la dichiarazione di fallimento, non era stata eliminata attraverso operazioni sul capitale o facendo ricorso agli utili prodotti dall’attività d’impresa, e che siffatta insolvenza fosse già esistente alla data di presentazione della domanda di concordato.

Per altro verso, il Tribunale riteneva che la vendita e la successiva stipulazione dell’accordo compensativo costituissero, congiuntamente considerati, una datio in solutum e, dunque, in quanto mezzo anormale di pagamento, rilevava che la parte convenuta non aveva provato la non conoscenza dello stato di insolvenza, in quanto si era limitata ad affermare che il mancato pagamento fosse dovuto ad un disguido momentaneo, ma non aveva, al riguardo, fornito elementi concreti di riscontro. A riprova della conoscenza dello stato di insolvenza, veniva dato rilievo alla circostanza per cui il ritardo del pagamento del debitore si era protratto per cinque mensilità.

Il Tribunale revocava ai sensi dell’art. 67, primo comma, l. fall. la vendita dei beni effettuata a favore della convenuta e, poiché detti beni non erano più nella sua disponibilità, la condannava al pagamento della somma dovuta oltre interessi legali dalla domanda al saldo escludendo la rivalutazione, poiché la parte istante non aveva allegato la sussistenza del maggior danno ex art. 1224, secondo comma, c.c.

(Massima a cura di Simona Becchetti)