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Ordinanza del 29 novembre 2021 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

L’esistenza di una clausola compromissoria statutaria, che pacificamente devolve agli arbitri la cognizione delle controversie tra soci e società, non preclude la proposizione di istanze cautelari quando il collegio arbitrale non sia ancora stato costituito, prevalendo il principio di effettività della tutela giurisdizionale (cfr. Trib. Milano 2.12.2015).

In ambito societario, l’eventuale ostruzionismo di un socio o dell’amministratore non giustifica il ricorso da parte della maggioranza all’assunzione di decisioni extra-assembleari in difetto dei relativi presupposti. Pertanto, nel caso in cui: (i) l’opzione per il metodo assembleare sia stata esercitata dallo stesso socio che poi si è risolto ad avviare la procedura di consultazione scritta, deve escludersi che il singolo socio possa unilateralmente  revocare  la  propria  iniziativa,  una  volta  che  dell’argomento  sia  stata investita l’assemblea dei soci e quest’ultima non abbia ancora deliberato; (ii) la richiesta di rinvio dell’assemblea, formulata dal socio titolare di una partecipazione superiore a un terzo del capitale e motivata dall’insufficiente informazione sugli argomenti all’ordine del giorno, equivale, nei limiti cognitivi tipici della fase, a un’espressione anticipata della volontà che l’argomento sia oggetto di discussione, dichiarazione rilevante in quanto idonea a determinare, ai sensi dell’art. 2479, comma quarto, c.c., l’improcedibilità della procedura di consultazione scritta, dovendosi riconoscere che il luogo dove si realizza pienamente la dialettica tra soci è solo l’assemblea di cui all’art. 2479-bis c.c.; e (iii) la comunicazione recapitata dall’amministratore ai soci prima del perfezionamento della procedura di consultazione scritta, appare idonea a determinarne l’improcedibilità ai sensi dell’art. 2479, quarto comma, c.c., allora la delibera assembleare potrà essere dichiarata invalida.

La valutazione della sussistenza di un nesso causale fra l’esecuzione (ovvero la protrazione dell’efficacia) della deliberazione impugnata ed il pregiudizio temuto, implica l’apprezzamento comparativo della gravità delle conseguenze derivanti, sia al socio impugnante sia alla società, dall’esecuzione e dalla successiva rimozione della deliberazione impugnata. Così, il provvedimento cautelare di sospensione dell’efficacia della delibera potrà essere concesso soltanto ove si ritenga prevalente, rispetto al corrispondente pregiudizio che potrebbe derivare alla società per l’arresto subito alla sua azione, il pregiudizio lamentato dal socio (cfr. Trib. Roma 22.4.2018). 

Principi espressi nel giudizio promosso con ricorso ex art. 700 c.p.c. con il quale l’amministratore unico di una s.r.l. (con una partecipazione pari al 42% del capitale) chiedeva la sospensione degli effetti della delibera assembleare (avente ad oggetto la revoca dell’amministratore unico e la nomina del nuovo amministratore), impugnata con giudizio arbitrale in ossequio alla clausola compromissoria statutaria.

In particolare, il ricorrente riteneva nulla la delibera per i seguenti motivi: i) carenza della sottoscrizione dell’amministratore, requisito formale dallo statuto, per tale dovendosi intendere l’amministratore uscente e non già quello neonominato; ii) mancata trascrizione nel libro delle decisioni dei soci, in violazione dell’art. 2478 c.c.; iii) eccesso di potere, in quanto la delibera era motivata dall’interesse extrasociale perseguito dalla maggioranza.

Sotto il profilo del periculum in mora, il ricorrente evidenziava il pregiudizio derivante dall’adozione di una delibera in spregio alle regole di legge e statutarie, violazioni grazie alle quali era stato possibile nominare un amministratore inidoneo perché privo di adeguate competenze tecniche e dei necessari requisiti professionali.

Rilevato che il pregiudizio a carico del ricorrente era implicito nella lesione integrale del suo diritto di intervento –  strumento fondamentale per il corretto esplicarsi del processo decisionale di pertinenza dei soci, lesione ancora più grave se si considera l’importanza dell’oggetto della delibera (i.e. la nomina dell’organo di gestione) materia riservata alla competenza dei soci ai sensi dell’art. 2479 c.c., trattandosi di una ipotesi di periculum quasi in re ipsa – e che non vi era alcun pregiudizio per la controparte derivante dalla sospensione dell’efficacia della delibera (ben potendo la s.r.l. assumere in tempi rapidi una nuova delibera a contenuto analogo a quella qui impugnata, ma nel rispetto delle regole previste dalla legge e dallo statuto), il Tribunale accoglieva il ricorso e disponeva la sospensione dell’efficacia della delibera, con conseguente reintegro dell’amministratore revocato. 

Il Tribunale esaminando il fumus del ricorso rilevava che l’eventuale inerzia imputata al precedente amministratore non esonerava evidentemente la s.r.l. dal rispetto delle regole procedimentali previste per la formazione della volontà dei soci, fermo restando che i soci ostili all’amministratore avrebbero potuto introdurre un procedimento cautelare di revoca per giusta causa, laddove veramente convinti che il medesimo stesse ostacolando, in ragione di un interesse personale, il corretto funzionamento degli organi sociali. 

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 25 novembre 2021 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

In materia di rapporti di leasing con piano di restituzione predefinito vige la regola di riparto dell’onere della prova generalmente applicabile alla responsabilità contrattuale, con la conseguenza che compete al debitore l’onere di provare il corretto adempimento dell’obbligazione.

La clausola penale contenuta nelle condizioni generali del contratto di leasing immobiliare risulta pienamente legittima e compatibile con l’art. 1526 c.c. qualora preveda: (i) per il venditore l’obbligo di restituzione delle rate riscosse e il diritto al pagamento di equo compenso per l’uso della cosa (in aggiunta alla restituzione del bene di proprietà) e (ii) il diritto  del concedente a pretendere i canoni e a trattenere quelli già percepiti sino alla risoluzione del contratto (essendo previsto, al comma secondo della sopra citata disposizione, che i contraenti possano convenire che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo d’indennità). Peraltro, tenuto conto che l’art. 1526, comma primo, c.c. fa salvo il diritto del venditore al risarcimento del danno, anche la quantificazione del danno, come l’indennità, ben può essere preventivamente determinata dalle parti con clausola penale, e come tale deve qualificarsi la previsione contrattuale del diritto del concedente di pretendere, a titolo di risarcimento del danno, l’importo corrispondente all’attualizzazione delle rate a scadere e del prezzo di riscatto, dedotto il ricavato della vendita del bene immobile recuperato (cfr. Trib. Brescia, 4 maggio 2021).

Resta impregiudicata la facoltà per l’utilizzatore, nell’ipotesi in cui il valore residuo dell’immobile superi l’importo spettante alla concedente in forza della clausola penale, di agire in un autonomo giudizio ai fini della restituzione della differenza.

Principi espressi nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ottenuto da una banca nei confronti del titolare di un’impresa individuale, a titolo di canoni scaduti insoluti e interessi di mora del contratto di leasing immobiliare. 

L’opponente fondava l’opposizione: i) sul controcredito scaturente dall’applicazione dell’art. 1526 c.c. al rapporto, a seguito della risoluzione del contratto per inadempimento comunicato dalla concedente, con conseguente diritto alla restituzione dei canoni di leasing; ii) sulla nullità della clausola penale del contratto sia per contrasto con l’art. 1526 c.c. sia perché vessatoria ed eccessivamente onerosa; iii) sulla nullità della clausola contrattuale relativa agli interessi di mora per superamento del tasso soglia di cui alla L. 108/1996; iv) sull’eventuale applicabilità al contratto di leasing della disciplina introdotta con la L. 124/2017.

Il Tribunale dichiarava l’opposizione infondata per i seguenti motivi: a) la morosità alla base della risoluzione contrattuale per inadempimento non era contestata tra le parti; b) le domande e le eccezioni dell’opponente fondate sull’applicabilità dell’art. 1526 c.c. al rapporto erano infondate in diritto, poiché l’art. 1526, primo comma, c.c. veniva derogato dalla clausola penale prevista nel contratto, in quanto non contrastante con i limiti imposti dall’art. 1526, comma secondo, c.c., né vessatoria e tantomeno eccessivamente onerosa; c) il tasso di interesse di mora dedotto in contratto (12%) non era usurario, risultando sensibilmente inferiore al tasso soglia calcolato, sulla base dei criteri indicati da Cass. n. 19597/2020 (pari approssimativamente al 14,5%); d) la L. 124/2017 non era applicabile al rapporto in esame, risolto per inadempimento prima dell’entrata in vigore delle relative disposizioni in materia di leasing, poiché era stata postulata l’applicabilità dell’art. 1526, primo comma, c.c. a un rapporto che era regolato esclusivamente dalla disciplina pattizia.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 23 novembre 2021, n. 2862 – Giudice designato: Dott. Gianluigi Canali

Il termine decadenziale per l’esperimento
dell’azione revocatoria fallimentare – nel caso in cui alla domanda di
concordato preventivo faccia seguito la dichiarazione di fallimento – ai sensi
dell’art. 69-bis, secondo comma, l. fall. decorre dalla
data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese. La disciplina in questione non opera alcuna distinzione tra
l’ipotesi in cui la domanda di concordato preventivo venga poi omologata, e
segua comunque il fallimento, ovvero l’ipotesi in cui la domanda di concordato
sia invece rigettata, o rinunciata dall’istante stesso. Tuttavia,
la retrodatazione non opera quando l’insolvenza, posta alla base della
dichiarazione di fallimento, non sia quella sussistente alla data del deposito
della domanda di concordato (conf. Cass. 9290/2018). Tale circostanza si
verifica quando, dopo che la domanda di concordato sia stata rinunciata o
respinta, l’impresa continui a svolgere la propria attività tipica e riesca a
recuperare la capacità di far fronte alle proprie obbligazioni. Pertanto, la
successiva dichiarazione di fallimento sarebbe fondata su di una successiva e
diversa insolvenza che nulla avrebbe a che vedere con l’insolvenza precedente.

In tema di azione revocatoria
fallimentare, l’estinzione di un’obbligazione da parte del debitore mediante la
cessione di un bene di valore superiore al proprio debito costituisce una datio
in solutum
, qualificabile come mezzo anormale di pagamento e quindi
revocabile ai sensi dell’art. 67, primo comma, n. 2, l. fall.

Nel caso
di datio in solutum,il soccombente nell’azione di revocatoria fallimentare è tenuto a
restituire i beni oggetto dell’atto inefficace oppure, qualora tali beni siano
stati alienati a terzi, a corrisponderne l’equivalente pecuniario, secondo il
valore che i beni avevano all’atto della stipula. Ciò premesso, nell’ipotesi di esperimento dell’azione revocatoria nei
casi di cui al primo e secondo comma dell’art. 67 della l. fall., l’atto oggetto
della revocatoria è originariamente valido ed efficace e, a seguito
dell’accoglimento dell’azione, diviene privo di effetti nei confronti della
massa fallimentare. In ragione della natura di azione costitutiva, avente ad
oggetto l’esercizio di un diritto potestativo e non di un diritto di credito,
l’obbligazione restitutoria pecuniaria nascente dalla revocatoria stessa, in
dipendenza della natura dell’atto revocato, non ha ad oggetto un debito di
valore, ma un debito di valuta. Ne consegue che gli interessi sulla somma da
restituire decorrono dalla domanda giudiziale e che il risarcimento del maggior
danno conseguente al ritardo con cui sia stata restituita la somma di denaro,
oggetto della revocatoria, è dovuto solo ove l’attore alleghi specificamente
tale danno e dimostri di averlo subito (conf. Cass. n. 887/2006; Cass. n.
12736/2011; Cass. n. 12850/2018).

I principi sono stati espressi nel
giudizio promosso dalla curatela fallimentare, nei confronti del venditore, per
ottenere la revocatoria
ex art.
67, primo comma, n. 2, l. fall. della
datio in solutum effettuata nell’anno
anteriore alla procedura di concordato, successivamente dichiarata estinta. La
parte convenuta aveva eccepito la non revocabilità dell’atto ai sensi dell’art.
69-
bis, secondo comma, l. fall. e, altresì, che l’operazione commerciale
posta in essere dovesse essere qualificata come regolare compravendita con
compensazione del prezzo e non come
datio in solutum.  

Il Tribunale giudicava ammissibile l’azione
ai sensi dell’art. 69-
bis, secondo
comma, l. fall., atteso che l’originaria insolvenza, che aveva determinato la
dichiarazione di fallimento, non era stata eliminata attraverso operazioni sul
capitale o facendo ricorso agli utili prodotti dall’attività d’impresa, e che
siffatta insolvenza fosse già esistente alla data di presentazione della
domanda di concordato.

Per altro verso, il Tribunale
riteneva che la vendita e la successiva stipulazione dell’accordo compensativo costituissero,
congiuntamente considerati, una
datio in
solutum e, dunque, in quanto mezzo anormale di pagamento, rilevava che la
parte convenuta non aveva provato la non conoscenza dello stato di insolvenza, in
quanto si era limitata ad affermare che il mancato pagamento fosse dovuto ad un
disguido momentaneo, ma non aveva, al riguardo, fornito elementi concreti di
riscontro. A riprova della conoscenza dello stato di insolvenza, veniva dato rilievo
alla circostanza per cui il ritardo del pagamento del debitore si era protratto
per cinque mensilità.

Il Tribunale revocava ai sensi
dell’art. 67, primo comma, l. fall. la vendita dei beni effettuata a favore
della convenuta e, poiché detti beni non erano più nella sua disponibilità, la
condannava al pagamento della somma dovuta oltre interessi legali dalla domanda
al saldo escludendo la rivalutazione, poiché la parte istante non aveva
allegato la sussistenza del maggior danno
ex art. 1224, secondo comma, c.c.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 18 novembre 2021 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

In materia di buoni postali fruttiferi cointestati e recanti la clausola “pari facoltà di rimborso”, in caso di morte di uno dei cointestatari, ciascun cointestatario superstite è legittimato ad ottenere il rimborso dell’intera somma portata dal documento (conf. Cass. n. 24639/2021). In particolare, la Suprema Corte ha osservato che i buoni postali fruttiferi si caratterizzano per un marcato rafforzamento del diritto di credito dell’intestatario sulla somma portata dal documento ad ottenerne il rimborso “a vista”, il che si traduce nell’incanalamento della fase di pagamento della somma portata dal titolo su un unico prefissato binario, quale il pagamento, appunto “a vista”, all’intestatario. Ebbene, ciò è sufficiente a dire che la previsione concernente la riscossione, in caso di clausola “pari facoltà di rimborso”, dei libretti di deposito non è esportabile al campo dei buoni fruttiferi; viceversa, la lettura del dato normativo patrocinata da una banca, secondo cui, in caso di clausola “pari facoltà di rimborso” di buoni postali fruttiferi cointestati a due o più persone, il decesso di uno di essi precluderebbe il rimborso dell’intero agli altri, finirebbe per paralizzare proprio l’aspetto per il quale detti buoni, dotati della apposizione della menzionata clausola, si caratterizzano. In definitiva, il vaglio di applicabilità previsto dall’art. 203 del D.P.R. n. 256/89, si infrange contro l’evidenziata peculiarità dei buoni postali fruttiferi rispetto ai libri postali. 

In materia di buoni postali fruttiferi, non rileva la funzione di protezione dell’erede o dei coeredi del cointestatario defunto al quale l’art. 187 del D.P.R. n. 256/89 sarebbe strumentale. Difatti, la normativa in esame non tutela gli interessi dei coeredi, i quali potranno venire eventualmente a conoscenza aliunde dell’esistenza dei buoni intestati anche a propri danti causa e agire nei confronti del coerede davanti al giudice ordinario. Ciò si comprende tenuto con dell’evidente distinzione concettuale tra titolarità del credito e legittimazione alla riscossione di quanto portato dal buono fruttifero. Posto che, in caso di cointestazione con clausola “pari facoltà di rimborso”, e dunque di solidarietà attiva, l’obbligazione solidale, alla morte di uno dei concreditori, si divide fra gli eredi in proporzione delle quote (art. 1295 c.c.), senza incidere sulla posizione del cointestatario superstite (i termini della questione non mutano affatto se il cointestatario superstite è anche erede). La riscossione riservata all’intestatario superstite non interferisce con la spettanza del credito, sicché colui che abbia riscosso rimarrà tenuto nei rapporti interni nei confronti dell’erede o degli eredi del cointestatario defunto (A.B.F. n. 22747/2019).

Principi espressi nel giudizio d’appello promosso dalla posta avverso la sentenza del Giudice di Pace con la quale veniva rigettata l’opposizione avverso il decreto con cui era stato ingiunto alla posta il pagamento di una somma in favore del sottoscrittore del buono postale fruttifero, munito di clausola di “pari facoltà di rimborso”, cointestato ad altro soggetto deceduto. 

In particolare, l’appellante lamentava l’erronea applicazione delle norme da parte del Giudice di Pace, il quale non avrebbe applicato alla fattispecie oggetto di causa l’art. 187 D.P.R. n. 256/89.

Il Tribunale rigettava l’appello, siccome infondato nel merito, tenuto conto che in materia di buoni postali fruttiferi cointestati e recanti la clausola “pari facoltà di rimborso”, in caso di morte di uno dei cointestatari, ciascun cointestatario superstite era legittimato ad ottenere il rimborso dell’intera somma portata dal documento.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 12 novembre 2021 – Giudice designato: Dott. Raffaele Del Porto

Ai sensi dell’art. 1669 c.c. la responsabilità dell’appaltatore nei confronti del committente e dei suoi aventi causa sorge quando i gravi difetti consistono in alterazioni che, in modo apprezzabile, riducono il godimento del bene nella sua globalità, pregiudicandone la normale utilizzazione, in relazione alla sua funzione economica e pratica e secondo la sua intrinseca natura, rilevando a tal fine anche vizi non totalmente impeditivi dell’uso del bene. In caso di immobile, i gravi difetti di costruzione che danno luogo alla garanzia prevista dall’art. 1669 c.c. non si identificano necessariamente con vizi influenti sulla staticità dell’edificio, ma possono consistere in qualsiasi alterazione che, pur riguardando soltanto una parte condominiale, incida sulla struttura e funzionalità globale dell’edificio, menomandone il godimento in misura apprezzabile, come nell’ipotesi di infiltrazioni d’acqua e umidità nelle murature (conf. Cass. n. 24230/2018 e Cass. n. 27315/2017).

In tema di responsabilità per rovina e difetti di cose immobili ex art. 1669 c.c., qualora il materiale esecutore delle opere non sia legato direttamente da contratto di appalto con il venditore, ma indirettamente attraverso una catena di uno o più subappalti (o contratti di altra tipologia), trova applicazione il principio per cui il danneggiato acquirente può agire sia contro l’appaltatore (e gli altri appaltatori) sia contro il venditore, quando l’opera sia riferibile a quest’ultimo (conf. Cass. n. 27250/2017).

L’acquirente può esercitare l’azione di responsabilità per rovina e difetti di cose immobili nei confronti del venditore quando quest’ultimo risulta fornito della competenza tecnica per dare direttamente, o tramite il proprio direttore dei lavori, indicazioni specifiche all’appaltatore esecutore dell’opera, gravando sul medesimo venditore l’onere di provare di non aver avuto alcun potere di direttiva o di controllo sull’impresa appaltatrice, così da superare la presunzione di addebitabilità dell’evento dannoso ad una propria condotta colposa, anche eventualmente omissiva (conf. Cass. n. 9370/2013).

Il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti della costruzione di un immobile, previsto dall’art. 1669 c.c. a pena di decadenza dall’azione di responsabilità contro l’appaltatore, decorre dal giorno in cui il committente consegua un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall’imperfetta esecuzione dell’opera, non essendo sufficienti manifestazioni di scarsa rilevanza e semplici sospetti. (conf. Cass. n. 777/2020).

L’impegno dell’appaltatore ad eliminare i vizi della cosa o dell’opera costituisce, alla stregua dei principi generali non dipendenti dalla natura del singolo contratto, fonte di un’autonoma obbligazione di facere soggetta all’ordinario termine di prescrizione decennale fissato per l’inadempimento contrattuale che si affianca all’originaria obbligazione di garanzia, senza estinguerla, salvo uno specifico accordo novativo. (conf. Cass. n. 62/2018). 

La proposizione di una domanda di manleva, che trae origine dal medesimo contratto di appalto, risulta preclusa per effetto del giudicato formatosi nel primo giudizio, quando il (sub-)committente abbia già ottenuto la condanna del (sub-)appaltatore al risarcimento dei danni patiti per la cattiva esecuzione delle opere oggetto del contratto stipulato inter partes.

In tema di rappresentanza, possono essere invocati i principi dell’apparenza del diritto e dell’affidamento incolpevole alla presenza non solo della buona fede del terzo che ha stipulato con il falso rappresentante, ma anche di un comportamento colposo del rappresentato, tale da ingenerare nel terzo la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente (conf. Cass. n. 18519/2018). 

Principi espressi nel procedimento promosso da un condominio per ottenere la condanna, ex art 1669 c.c. al risarcimento dei danni patiti per l’ammaloramento ed il distacco degli intonaci dell’edificio condominiale riconducibili all’operato negligente della società convenuta. La convenuta ha contestato la propria responsabilità ex art 1669 c.c., non avendo provveduto alla materiale esecuzione delle opere asseritamente viziate e ha formulato istanza di chiamata in causa dell’impresa che aveva realizzato i lavori di fornitura e posa in opera dell’intonaco, spiegando domanda di manleva nei suoi confronti. Il Tribunale ha respinto la domanda essendo già intervenuta altra condanna, passata in giudicato, del subappaltatore per cattiva esecuzione delle opere appaltate dichiarando tenuta la società convenuta al risarcimento dei danni per i vizi lamentati ex art 1669 c.c.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Tribunale di Brescia, ordinanza dell’11 novembre 2021 – società di capitali, società a responsabilità limitata, fusione, opposizione dei creditori, autorizzazione a procedere

Il procedimento di autorizzazione a procedere alla fusione nonostante l’opposizione di un creditore ex artt. 2503, ult. co., e 2445, ult. co., c.c.ha natura cautelare: lo si inferisce principalmente dalla natura contenziosa dell’opposizione, che è assimilabile, per taluni profili, all’azione revocatoria, in quanto volta a tutela della garanzia patrimoniale generica ed avente ad oggetto il carattere pregiudizievole dell’operazione rispetto alla posizione dei creditori anteriori all’iscrizione del progetto di fusione.

Milita nella medesima direzione anche il fattore strutturale, alla stregua del quale il procedimento di autorizzazione non può che aprirsi in via incidentale, una volta introdotto il giudizio di cognizione piena. L’ autorizzazione a procedere alla fusione nonostante l’opposizione presuppone, infatti, l’accertamento giudiziale, sia pure in via sommaria, della stessa situazione controversa fra le parti nell’ambito del giudizio contenzioso di opposizione sul carattere pregiudizievole o meno dell’operazione contestata.

L’istanza da parte delle società coinvolte nell’operazione di essere autorizzate a procedere comunque alla fusione, in quanto volta alla rimozione degli effetti di sospensione ex lege di quest’ultima conseguenti all’opposizione proposta, non può dar luogo, in ragione della matrice contenziosa, ad un procedimento di volontaria giurisdizione, ma dà origine ad un procedimento di natura cautelare in corso di causa c.d. a parti invertite, nell’ambito del quale va sommariamente apprezzata anche la fondatezza delle ragioni di opposizione (cfr. Trib. Milano, 20.12.2018; Trib. Milano, 20.8.2015; Trib. Milano, 18.7.2011; Trib. Genova, 13.7.2010).

Detto procedimento, condividendo la natura contenziosa del giudizio di opposizione, si caratterizza per una funzione anticipatoria del contenuto definitivo della sentenza, nel contemperamento degli opposti interessi della società debitrice coinvolta nella fusione e del suo creditore, con finalità cautelare rispetto alla definizione degli stessi.

Nel giudizio di opposizione alla fusione, il rischio di un pregiudizio alle ragioni creditorie dell’opponente deve essere accertato valutando le possibilità di soddisfacimento del credito avendo come riferimento, da un lato, le garanzie economico-patrimoniali che la società debitrice offre prima della fusione, e, dall’altro, le garanzie che, dopo la fusione, offrirebbe la società che rimane o che diviene comunque debitrice. Grava perciò sul creditore opponente l’onere di provare il pregiudizio arrecatogli dalla fusione, mentre nel procedimento cautelare di autorizzazione alla fusione incombe sulla società interessata all’operazione la prova dell’inesistenza del pregiudizio al creditore opponente, sia pure tenendo conto dei fatti da questo dedotti nel giudizio di opposizione.

Il peggioramento qualitativo delle condizioni della garanzia patrimoniale offerta all’opponente nel passaggio dallo scenario ante fusione a quello post fusione nulla dice, in realtà, sul rischio di pregiudizio per il medesimo, dovendosi prendere in esame, ai fini della valutazione, anche gli aspetti economico-finanziari che, in chiave prospettica, caratterizzano l’operazione oggetto di contestazione. In particolare, tale rischio può essere escluso qualora la consulenza tecnica espletata abbia evidenziato che i margini operativi generati dal business sarebbero sufficientemente capienti da sopportare i debiti contratti dalla società debitrice, consentendo la maturazione di utili.

Principi espressi in occasione di un giudizio di opposizione alla fusione promosso dal creditore di una società di capitali coinvolta in tale operazione ai sensi dell’art. 2503, ult. co., c.c. La società debitrice, costituendosi in detto giudizio, aveva formulato un’istanza ex artt. 2503, ult. co., e 2445, ult. co., c.c. volta ad ottenere l’autorizzazione a procedere comunque alla fusione, attesa l’infondatezza dell’opposizione e l’assenza di qualsiasi pregiudizio per il creditore opponente.

(Massime a cura di Carola Passi)




Sentenza del 3 novembre 2021 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

A seguito della riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. 6/2003, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal Registro delle Imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l’obbligazione della società non si estingue, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione, o illimitatamente, a seconda che, “pendente societate”, fossero, rispettivamente, limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese (conf. Cass. n. 6070/2013). Pertanto, il fenomeno successorio che si realizza a seguito dell’estinzione della società comporta il subentro dei soci nella medesima posizione della società con riferimento ai rapporti giuridici pendenti, con effetti analoghi a quelli tipici di una successione universale, con la conseguenza che la clausola di scelta del foro può essere efficacemente opposta ai soci succeduti alla società.

La clausola di scelta di foro esclusivo non consente il cumulo soggettivo di domande, non potendo attrarre domande svolte verso altri convenuti (conf. Cass. n. 9/13032). Difatti, la connessione per accessorietà opera nelle ipotesi in cui l’accoglimento della domanda accessoria dipenda dall’esito della causa connessa.

In tema di domanda di accertamento, con efficacia di giudicato, della risoluzione del contratto di leasing, la mancata formulazione è irrilevante atteso che la parte che agisce in giudizio ben può limitarsi a chiedere un accertamento della questione incidenter tantum, senza che tale scelta osti all’ammissibilità della domanda di rilascio, trattandosi di antecedente logico non controverso.

In tema di legittimazione passiva, la partecipazione al riparto in base al bilancio finale di liquidazione non costituisce una condizione di ammissibilità delle domande svolte dai creditori insoddisfatti nei confronti dei soci della società estinta, bensì un limite di responsabilità (conf. Cass., S.U., n. 6070/2013). Siffatto limite, pertanto, risulta inapplicabile qualora si controverta non già su crediti pecuniari insoddisfatti dal liquidatore, ma su rapporti giuridici non definiti all’esito della liquidazione, segnatamente, sui diritti discendenti dal contratto di leasing e sui beni oggetto del medesimo contratto, nonché sul correlato credito restitutorio in capo a parte concedente. Per altro verso, in punto di legittimazione passiva, la circostanza che il bene possa essere di fatto occupato da un soggetto terzo non incide sulla corretta formulazione della domanda di rilascio nei confronti dei soci succeduti, trattandosi di domanda fondata sul rapporto di leasing, che deve necessariamente essere proposta nei confronti della controparte contrattuale. In tal senso, l’eventuale presenza di un soggetto terzo all’interno dei locali può rilevare unicamente in executivis, ma non influenza la valutazione in punto di legittimazione passiva.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una banca con ricorso ex art. 702-bis c.p.c., ai fini del rilascio delle unità immobiliari sulla base del contratto di leasing, risolto dalla concedente ex art. 1456 c.c., stante il persistente inadempimento all’obbligazione di pagamento dei canoni da parte dell’utilizzatrice (nel caso di specie una s.r.l., posta in liquidazione e cancellata dal Registro delle Imprese). In particolare, la ricorrente agiva nei confronti dei soci della s.r.l. e nei confronti di una s.r.l.-c.r., quale soggetto occupante sine titulo degli immobili, già affittuaria del ramo d’azienda della s.r.l., comprensivo del diritto di godimento derivante dal rapporto di leasing in esame.

I soci eccepivano: i) l’incompetenza territoriale del Tribunale di Brescia, in favore del Tribunale di Vicenza (luogo di residenza dei convenuti) ovvero del Tribunale di Treviso (eccezione sollevata anche dalla s.r.l.-c.r.), nella cui circoscrizione era stato concluso il contratto, era sito l’immobile di cui si chiedeva il rilascio e andava eventualmente adempiuta l’obbligazione richiesta dalla ricorrente, ritenendo la clausola di scelta di foro convenzionale esclusivo, contenuta nel contratto di leasing, inopponibile ai soci del contraente estinto; ii) la nullità o inefficacia della clausola, in quanto generica e inidonea ad escludere la competenza di altri fori nonché contrastante con gli artt. 1341 e 1342 c.c.; iii) la carenza di legittimazione passiva, allegando di non avere riscosso alcuna somma in forza del bilancio di liquidazione della società cancellata;  iv) la mancata formulazione di una domanda di accertamento della risoluzione del rapporto di locazione finanziaria, con conseguente impossibilità di accoglimento della domanda di rilascio. 

Il Tribunale di Brescia, in merito alla competenza territoriale, dichiarava che la cognizione della causa andava devoluta alla competenza del Tribunale di Treviso, in quanto: a) pur se il contratto di leasing in esame conteneva una clausola (c.d. clausola di scelta del foro che può essere efficacemente opposta ai soci succeduti alla società nel rapporto contrattuale) che nitidamente rimetteva alla competenza del Tribunale di Brescia ogni controversia comunque discendente dal contratto, ad esclusione di qualsiasi altra competenza concorrente, la domanda in esame era di tipo extracontrattuale; b) a tacer della diversità di soggetti destinatari del rispettivo petitum, la causa petendi della domanda svolta nei confronti della s.r.l., oltre a essere del tutto autonoma, non dipendeva affatto da quella che identificava la domanda svolta nei confronti degli altri convenuti, trattandosi in un caso di causa petendi reale (occupazione sine titulo) e nell’altro di causa petendi contrattuale. 

Il Tribunale respingeva l’eccezione di carenza legittimazione passiva, poiché: a) il limite di responsabilità della partecipazione al riparto in base al bilancio finale di liquidazione risultava inapplicabile, posto che si controverteva su rapporti giuridici non definiti all’esito della liquidazione, segnatamente sui diritti discendenti dal contratto di leasing e sui beni oggetto del medesimo contratto nonché sul correlato credito restitutorio in capo a parte concedente; b) l’eventuale presenza di un soggetto terzo all’interno dei locali non influenzava la valutazione in punto di legittimazione passiva dei convenuti.

(Massima a cura di Simona Becchetti)