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Sentenza del 31 marzo 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Angelica Castellani

Ai
fini della configurabilità della fattispecie dello storno di dipendenti e/o
collaboratori, non è sufficiente che l’imprenditore ponga in essere
un’attività idonea a crearsi un vantaggio competitivo a danno di un
concorrente, essendo altresì indispensabile che tale vantaggio sia perseguito
mediante una strategia sorretta da un vero e proprio “animus nocendi”,
ossia diretta a svuotare l’organizzazione concorrente delle sue specifiche
possibilità operative mediante sottrazione del “modus operandi” dei
dipendenti, nonché delle conoscenze burocratiche e di mercato da essi
acquisite. Ragion per cui la concorrenza illecita non può mai derivare dalla
mera constatazione di un passaggio di collaboratori da un’impresa ad un’altra
concorrente, né dalla contrattazione che un imprenditore intrattenga con il
collaboratore del concorrente per assicurarsi le relative prestazioni, in
quanto siffatte circostanze rappresentano un’attività legittima ed espressione
dei principi della libera circolazione del lavoro e della libertà di
iniziativa economica.

Rappresentano
segreto commerciale e quindi suscettibile di tutela ai sensi del primo comma dell’art. 98
c.p.i., tutte le informazioni che sono caratterizzate, nel loro insieme o nella precisa
configurazione e combinazione dei loro elementi, dal non essere generalmente
note o facilmente accessibili agli esperti e agli operatori del settore,
dall’avere un valore commerciale e dall’essere sottoposte a misure
ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete. In particolare, sono idonee a
costituire segreto commerciale tutte quelle informazioni che sono riconducibili
a tecniche
relative a procedimenti e prodotti, brevettabili o meno (ad es. manuali d’uso,
schemi, disegni tecnici, informazioni relative alle modalità di attuazione di
un processo industriale, formule chimiche segrete, disegni esecutivi di
impianti e procedimenti), le informazioni relative a dati utili allo
svolgimento delle funzioni commerciali (ad es. quali gli elenchi contenenti i
nominativi di clienti e fornitori e le condizioni economiche praticate agli
stessi in quanto non destinate a essere pubblicizzate all’esterno dell’azienda),
le informazioni amministrative (ad es. la documentazione relativa alla
certificazione di qualità UNI, EN, ISO 9001) e le procedure attinenti all’amministrazione
interna dell’impresa.

Ai sensi dell’art. 98 c.p.i,
la segretezza deve essere valutata unitamente al requisito del valore
economico delle informazioni sottratte in quanto, proprio grazie alla
segretezza delle stesse, l’impresa che le detiene, viene a trovarsi in una
posizione privilegiata rispetto alle imprese concorrenti che non le possiedono,
potendo sfruttare tale vantaggio in termini economici, al fine di mantenere o
aumentare la propria quota di mercato.

La
fattispecie dello sviamento della clientela, presupponendo un comportamento rilevante ai sensi dell’art.
2598, comma 1, n. 3 c.c., non richiede l’episodico venire in contatto dell’ex
dipendente con clienti già seguiti presso la precedente impresa, ma un’acquisizione
sistematica e massiccia di tali clienti quale terreno di attività elettiva
svolta presso il nuovo imprenditore, praticabile proprio e solo in virtù delle
conoscenze riservate precedentemente acquisite.

Integra
la fattispecie di concorrenza di sleale, l’attività dell’imprenditore che si avvale della
collaborazione di soggetti che hanno violato l’obbligo di fedeltà nei confronti
del loro datore di lavoro, quando il terzo si appropria, per il tramite del
dipendente, di notizie riservate nella disponibilità esclusiva del predetto
datore di lavoro, ovvero che il terzo istighi o presti intenzionalmente un
contributo causale alla violazione dell’obbligo di fedeltà cui il dipendente
stesso è tenuto. Detto obbligo non vincola il terzo e non ne limita la
libertà sul piano economico, per la stessa ragione per cui il patto di
esclusiva non vincola l’imprenditore concorrente – terzo rispetto ad esso – che
operi nella zona di altrui pertinenza senza avvalersi di mezzi non conformi
alla correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda.

Principi
espressi nel procedimento promosso da un istituto di credito nei confronti dell’istituto
concorrente, al fine di ottenere tutela inibitoria ed il risarcimento dei
pregiudizi patrimoniali e non patrimoniali asseritamente patiti in conseguenza
del compimento di atti di concorrenza sleale.

Nel
dettaglio, l’attore lamentava
un
massiccio storno di dipendenti (
private
bankers/consulenti finanziari), i quali, avviato un rapporto di lavoro con
il nuovo istituto di credito, avrebbero intrapreso un’intensa attività di sviamento
della clientela seguita presso il precedente istituto utilizzando informazioni
riservate che avrebbe portato numerosi clienti a liquidare e/o trasferire i
propri investimenti. Il Tribunale escludendo la sussistenza della fattispecie
della concorrenza sleale, ha affermato che detto illecito deve essere connotato
dalla volontà dell’imprenditore concorrente di danneggiare l’impresa altrui in
misura eccedente al normale pregiudizio che ogni imprenditore può avere dalle
perdite di dipendenti che scelgono di lavorare presso altri, perché diretto a
privare intenzionalmente il concorrente di elementi indispensabili al buon
andamento dell’impresa. I giudici inoltre hanno escluso la ricorrenza dei
requisiti di cui all’art. 98 c.p.i. nel caso di specie in quanto l’acquisizione
della “lista clienti” non era avvenuta mediante lo sfruttamento di un complesso
di dati sensibili o riservati posseduti in via anticipata e organizzata
unicamente in virtù del precedente rapporto di lavoro, ma era collocabile nella
categoria di cognizioni che fanno parte del patrimonio professionale e
personale del lavoratore, il quale può legittimamente dar seguito a singoli
rapporti di conoscenza diretta con la clientela già assistita.

(Massima
a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 26 marzo 2021 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

Il rapporto concorrenziale non può essere individuato nella mera
realizzazione di prodotti aventi caratteristiche analoghe, ma occorre indagare
anche la tipologia di clientela alla quale si indirizza l’offerta e le modalità
di aggressione del mercato; non è apprezzabile alcun rapporto di concorrenza in
concreto tra due imprese ove esse operino in mercati di prodotto distinti e in
alcun modo sovrapponibili.

In tema di storno di dipendenti la concorrenza illecita non può in
alcun caso derivare soltanto dalla mera constatazione di un passaggio di
collaboratori da un’impresa ad un’altra concorrente, né dalla contrattazione
intrattenuta con il collaboratore di un concorrente. L’illiceità della
concorrenza deve essere desunta dall’obiettivo, che l’imprenditore concorrente
si proponga attraverso il passaggio di personale, di vanificare lo sforzo di
investimento del suo antagonista ed a tal fine è necessaria la sussistenza del
c.d. “animus nocendi”, nel senso che il reclutamento di personale
dipendente dell’imprenditore concorrente si connota di intenzionale slealtà
soltanto quando esso venga attuato con modalità abnormi per il numero o la
qualità dei prestatori d’opera distolti ed assunti, così da superare i limiti
di tollerabilità del reclutamento medesimo che, nella sua normale
estrinsecazione, è del tutto lecito.

Principi
espressi all’esito del giudizio promosso da una società a responsabilità
limitata avverso altra società ed alcuni collaboratori di quest’ultima,
precedentemente collaboratori dell’attrice, per concorrenza sleale.

(Massime a cura di Lorena Fanelli)




Sentenza del 25 marzo 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

In caso di esercizio dell’opzione per l’acquisto dei titoli di
privativa industriale da parte della società, opzione prevista dall’art. 64, c.
3, c.p.i., il dies a quo del termine di prescrizione del diritto al
pagamento del prezzo della cessione, dovendosi ritenere verificato un effetto
traslativo già al momento del deposito della domanda di brevetto a nome della
società, decorre dalla data di deposito della domanda medesima.

Sul piano letterale, tutte le disposizioni contenute nell’art. 64,
c. 3, c.p.i. prevedono, quale destinatario passivo, il “datore di lavoro”,
soggetto che evidentemente non è ravvisabile all’interno del rapporto
contrattuale tra amministratore e società, riconducibile alla fattispecie
negoziale del mandato. Inoltre, discutendosi di disposizioni speciali, esse non
sono suscettibili di applicazione analogica, dovendosi ritenere che la tutela
dell’inventore non dipendente sia assicurata dal ricorso ai rimedi generali
previsti dall’ordinamento.

Principi
espressi all’esito del giudizio promosso dall’ex amministratore di una società
al fine di ottenere il pagamento di una somma a titolo di canone per l’uso
esclusivo da parte della società di invenzioni effettuate dal medesimo durante
l’incarico di amministratore ovvero il riconoscimento di un importo a titolo di
“equo premio” per le invenzioni realizzate.

(Massime a cura di Lorena Fanelli)




Ordinanza del 19 marzo 2021 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

La clausola penale contenuta nel contratto di leasing che prevede che, in caso di risoluzione per inadempimento, il “ricavato dalla vendita del bene” sarà dedotto dal credito residuo non si pone in contrasto con l’art. 1526 c.c., riproducendo le previsioni dell’art. 1, co. 138, l. n. 124/2017, e pertanto deve essere reputata pienamente valida ed efficace (cfr. Cass., S.U., n. 2061/2021).

I principi sono stati espressi nell’ambito del procedimento promosso con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. dalla società utilizzatrice di un immobile concesso in leasing, che contestava la pretesa avversaria del pagamento della somma richiesta “a titolo di indennizzo, per i canoni, alla data di risoluzione, non ancora scaduti e del prezzo di eventuale acquisto finale, oltre relativi interessi convenzionali e di mora ed eventuali spese quantificate al momento del pagamento”, rilevando la violazione dell’art. 1526 c.c. e precisando di avere provveduto alla restituzione dell’immobile.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 18 marzo 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

L’indicazione dell’elenco delle materie da trattare
nel corso del c.d.a.
ha la duplice funzione di rendere edotti i soci circa gli argomenti sui quali
essi dovranno deliberare, per consentire la loro partecipazione al c.d.a. con la necessaria
preparazione ed informazione, e di evitare che sia sorpresa la buona fede degli
assenti a seguito di deliberazione su materie non incluse nell’ordine del
giorno; a tal fine, non è necessaria una indicazione particolareggiata delle
materie da trattare, ma è sufficiente una indicazione sintetica, purché chiara
e non ambigua, purché specifica e non generica: diversamente, la conseguente
deliberazione consiliare
è affetta da invalidità.

L’eventuale violazione del dovere “di
agire in modo informato”, sostanziatasi nel mancato esame di un documento
informativo rilevante, pervenuto tardivamente (i.e. perizia tecnica
sull’immobile), potrebbe teoricamente esporre a responsabilità nei confronti
della società
i singoli amministratori, colpevoli di avere prematuramente approvato
l’operazione (in tesi dannosa), ma non incide necessariamente sulla validità
della manifestazione di volontà assunta dal plenum.

Le contestazioni sul prezzo di acquisto esulano
manifestamente dal processo di formazione della volontà consiliare, attenendo
all’opportunità della scelta, che è pertanto sottratta alla valutazione
giurisdizionale.

Principi
espressi nell’ambito del giudizio promosso dal socio di una società cooperativa,
volto ad ottenere l’annullamento di due delibere consiliari: la prima, per
violazione dell’art. 2381 c.c. e dell’art. 40 dello statuto della società per
le carenze informative della convocazione del c.d.a.; la seconda, in quanto
integrativa della precedente e pertanto illegittima per derivazione del vizio
di illegittimità di questa.

(Massima
a cura di Lorena Fanelli)




Sentenza del 18 marzo 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Nel caso in cui l’ordine del
giorno contenuto nell’avviso di convocazione del consiglio di amministrazione non
sia coerente con il contenuto della corrispondente deliberazione, tale
deliberazione è annullabile per violazione dell’art. 2381, c. 1, c.c.

Se la delibera consiliare,assunta
in assenza di vizi, conferma il contenuto di una precedente delibera invalida,
tale deliberazione deve essere qualificata quale espressione di una “nuova
volontà” validamente formatasi.

I principi sono stati espressi
nel giudizio, promosso dall’amministratrice di una banca, di impugnazione di
due deliberazioni consiliari ai sensi dell’art. 2388 c.c. A fondamento delle
proprie domande l’attrice allegava:

(i) quanto alla prima
deliberazione impugnata, che l’oggetto della stessa non era incluso nell’ordine
del giorno della riunione, come indicato nell’avviso di convocazione trasmesso
ai consiglieri, deducendo pertanto la violazione dell’art. 2381 c.c.;

(ii) quanto alla seconda
deliberazione impugnata, ne rilevava l’inidoneità a sanare i profili di
invalidità allegati in relazione alla prima, trattandosi di deliberazione “
integrativa
e pertanto asseritamente “
illegittima per derivazione del vizio di
illegittimità della precedente delibera”.

(Massime a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 17 marzo 2021 – Presidente: Dott. Donato Pianta – Consigliere relatore: Dott.ssa Annamaria Laneri

Nel caso di condotta illecita dell’agente assicurativo, affinché
possa operare il principio generale della responsabilità solidale della
compagnia assicurativa ex art. 2049 c.c. è sufficiente il rapporto di
occasionalità necessaria tra la condotta antigiuridica posta in essere
dall’agente assicurativo, anche se privo del potere di rappresentanza, e le
incombenze che gli erano state affidate dal preponente, in quanto ciò che
rileva è che al terzo in buona fede apparisse in concreto come l’attività posta
in essere nei suoi confronti, e che gli ha causato un danno, rientrasse
nell’incarico affidato all’agente dalla compagnia assicurativa (cfr. ex
multis
Cass. civ., n. 6829/2011; n. 12448/2012; n. 18860/2015). Non è,
pertanto, richiesto un nesso di causalità fra l’incarico e il danno al terzo.

La condotta
del terzo può giungere a interrompere il nesso causale solo allorché gli fosse
chiaramente percepibile che la condotta del preposto si poneva in assenza o al
di fuori del rapporto con l’intermediario, ovvero fosse consapevolmente
coinvolto nell’elusione della disciplina legale posta in essere dal promotore
finanziario o ancora quando avesse prestato acquiescenza all’irregolare
condotta del preposto (cfr. Cass. civ, n. 30161/2018; n. 32514/2018).

Principi espressi all’esito del giudizio di appello avente ad
oggetto l’impugnazione, da parte di una compagnia assicuratrice, della sentenza
del tribunale che l’aveva condannata al versamento all’assicurato della somma
dallo stesso richiesta a titolo di riscatto della propria polizza; l’appellante
sosteneva di non essere tenuta a corrispondere la somma, in quanto non aveva
mai ricevuto da parte del proprio agente il versamento di alcuni premi
assicurativi, nonostante l’assicurato disponesse di regolare quietanza rilasciata
dall’agente stesso.

(Massime a cura di Lorena Fanelli)




Sentenza del 12 marzo 2021 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Angelica Castellani

Il
giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto
deve rilevarne d’ufficio la sua nullità solo parziale, e solo qualora le parti,
all’esito di tale indicazione officiosa, omettano un’espressa istanza di
accertamento in tal senso, deve rigettare l’originaria pretesa non potendo
inammissibilmente sovrapporsi alla loro valutazione e alle loro determinazioni
espresse nel processo (Cass. SS.UU. n. 26242/2014).

Le
eccezioni in senso stretto si identificano solo in quelle per le quali la legge
espressamente riservi il potere di rilevazione alla parte o in quelle in cui il
fatto integratore dell’eccezione corrisponda all’esercizio di un diritto
potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare e, quindi, per
svolgere l’efficacia modificativa, impeditiva o estintiva di un rapporto giuridico, supponga il
tramite di una manifestazione di volontà della parte (ex multis, Cass. n. 20317/2019, conforme a Cass. SS.UU. n.
1099/1998, Cass. n. 12353/2010 e Cass. n. 27045/2018). L’invocata sostituzione ex art. 1419 c.c. della clausola
contrattuale derogativa dell’art. 1957 c.c. con la norma di legge costituisce
effetto consequenziale alla dedotta nullità, sicché la decadenza di cui alla
citata norma, non integrando eccezione in senso stretto per il cui rilievo
risulta indispensabile l’iniziativa di parte, può essere rilevata d’ufficio
quale fatto estintivo risultante dal materiale allegatorio e probatorio
acquisito in atti.

In tema di accertamento
dell’esistenza di intese restrittive della concorrenza vietate dall’art. 2
della l. n. 287 del 1990, con particolare riguardo alle clausole relative a
contratti di fideiussione stipulati con le banche, il provvedimento della Banca
d’Italia di accertamento dell’infrazione, adottato prima delle modifiche
apportate dall’art. 19, c. 11, della l. n. 262 del 2005, possiede, al pari di
quelli emessi dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, un’elevata
attitudine a provare la condotta anticoncorrenziale, indipendentemente dalle
misure sanzionatorie che siano in esso pronunciate, e il giudice del merito è
tenuto, per un verso, ad apprezzarne il contenuto complessivo, senza poter
limitare il suo esame a parti isolate di esso, e, per altro verso, a valutare
se le disposizioni convenute contrattualmente coincidano con le condizioni
oggetto dell’intesa restrittiva, non potendo attribuire rilievo decisivo
all’attuazione o meno della prescrizione contenuta nel menzionato provvedimento
con cui è stato imposto all’ABI di estromettere le clausole vietate dallo
schema contrattuale diffuso presso il sistema bancario (Cass. n. 13846/2019).

La produzione in
giudizio dei provvedimenti delle autorità indipendenti che espongono gli esiti
dell’istruttoria antitrust unitamente
all’ulteriore compendio probatorio atto a confermare la diffusività dello
schema contrattuale nel settore di riferimento in un arco temporale che
ricomprende il momento in cui è stata stipulata la fideiussione oggetto di
causa integrano elementi di prova sufficienti a dimostrare l’esistenza del
cartello anticoncorrenziale e la sua attitudine a spiegare effetti sulla
negoziazione particolare.

Da un lato, la
circostanza che una intesa ‘a monte sia nulla perché anticoncorrenziale
non comporta automaticamente la nullità di tutti i contratti posti in essere
dalle imprese aderenti all’intesa. Dall’altro lato, avendo l’Autorità
amministrativa circoscritto l’accertamento dell’illiceità ad alcune specifiche
clausole, ciò non esclude, né è incompatibile con il fatto che in concreto la
nullità del contratto ‘a valle’ debba essere valutata dal giudice adito e che
possa trovare applicazione l’art. 1419 c.c., laddove l’assetto degli interessi
in gioco non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata
alle clausole rivenienti dalle intese illecite (Cass. n. 24044/2019).

Pertanto, la nullità ‘a valle’ delle fideiussioni omnibus
deve essere valutata alla stregua dell’art. 1418 ss. c.c. e può trovare
applicazione l’art. 1419 cod. civ., laddove l’assetto degli interessi in gioco
non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata alle
clausole rivenienti dalla intesa illecita, posto che, in linea generale, solo
la banca potrebbe dolersi della loro espunzione (Cass. n. 4175/2020).

La valutazione
concorrenziale dello schema contrattuale non si fonda sul mero confronto della
singola clausola con la regola codicistica, quanto piuttosto sulla previsione
uniforme di una disciplina di dettaglio idonea ad incidere sulla
caratterizzazione dell’offerta bancaria, impedendo l’efficace forma di
concorrenza rappresentata dalla differenziazione della stessa e aggravando la
posizione del fideiussore.

Devono ritenersi
caratterizzate da oggetto illecito, e quindi nulle ai sensi del combinato
disposto degli artt. 1418 e 1346 c.c., le
clausole che traspongono nel contratto ‘a valle’ l’identico contenuto del
prodotto dell’intesa ‘a monte’, la cui invalidità è testualmente sancita
dall’art. 2, c. 2, lett. a) della l. n. 287 del 1990, cui va riconosciuta
natura di norma di ordine pubblico economico. Tali clausole, contenute in
un contratto c.d. ‘seriale’,
destinato all’utilizzazione sistematica e generalizzata, sono direttamente
strumentali al risultato vietato dalla legge, veicolando l’identico contenuto
di condizioni generali di cui è già stata accertata la nullità in quanto
uniformemente applicate. L’oggetto del contratto è illecito anche quando la
prestazione, pur in sé lecita, è funzionale al perseguimento di un risultato
vietato dall’ordinamento. Nel caso di specie, attraverso tali clausole si
realizza e si perpetua la violazione degli interessi generali sottesi alla
legge antitrust.

Con riferimento al
regime di nullità – totale o parziale – in mancanza della prova che i
contraenti non avrebbero concluso il contratto senza le clausole colpite da
nullità, il paradigma da adottare deve essere quello della nullità parziale ex art. 1419, c. 2, c.c.

Pertanto, salva la
dimostrazione, da fornirsi a cura della parte che invochi la nullità
dell’intero regolamento negoziale, che i contraenti non lo avrebbero concluso
senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità, deve ritenersi che il
fideiussore avrebbe prestato la garanzia, atteso che la sostituzione della
disciplina codicistica alle pattuizioni nulle è a lui più favorevole.

Con riferimento
all’eccezione ex art. 1955 c.c., il fatto del creditore rilevante ai
fini della liberazione del fideiussore non può consistere nella mera inazione,
ma deve costituire violazione di un dovere giuridico imposto dalla legge o
nascente dal contratto e integrante un fatto quanto meno colposo, o comunque
illecito, dal quale sia derivato un pregiudizio giuridico, non solo economico,
che deve concretizzarsi nella perdita del diritto (di surrogazione ex
art. 1949 c.c., o di regresso ex art. 1950 c.c.), e non già nella mera
maggiore difficoltà di attuarlo per le diminuite capacità satisfattive del
patrimonio del debitore (in tal senso, da ultimo, Cass. n. 4175/2020;
precedenti conformi: Cass. n. 21833/2017, Cass. n. 9695/2011 e Cass. n.
28838/2008).

Il principio in base al
quale, nella fideiussione per obbligazione futura, sussiste l’onere del creditore,
previsto dall’art. 1956 c.c., di richiedere l’autorizzazione del fideiussore
prima di far credito al terzo, le cui condizioni patrimoniali siano peggiorate
dopo la stipulazione del contratto di garanzia, assolvendo alla finalità di
consentire al fideiussore di sottrarsi, negando l’autorizzazione,
all’adempimento di un’obbligazione divenuta, senza sua colpa, più gravosa, non
risulta applicabile allorché nella stessa persona coesistano le qualità di
fideiussore e di amministratore della società debitrice principale, poiché, in
tale ipotesi, la richiesta di credito da parte della persona obbligatasi a
garantirlo comporta di per sé la preventiva autorizzazione del fideiussore alla
concessione del credito (ex multis, Cass. n. 31227/2019, Cass. n. 7444/2017
e Cass. n. 3761/2006).

Inoltre, qualora il
fideiussore sia anche socio della società debitrice principale, da una parte si
deve presumere – salvo circostanze particolari da dedurre – che egli sia già
pienamente informato delle peggiorate condizioni economiche della società, e
dall’altra parte, si deve ritenere che la sua qualità di socio gli consenta di
attivarsi per impedire che continui la negativa gestione (mediante la revoca
dell’amministratore) o per non aggravare ulteriormente i rischi assunti (mediante
l’anticipata revoca della fideiussione); pertanto, anche in questa circostanza,
non è consentito eccepire la liberazione ex art. 1956 c.c. (così, Cass.
n. 2902/2016 e Cass. n. 11979/2013).

Al
fine di poter efficacemente opporre al terzo contraente le limitazioni dei
poteri di rappresentanza dei propri organi sociali, la società deve dimostrare,
ai sensi dell’art. 2384, c. 2, c.c., non già la mera conoscenza o conoscibilità
dell’esistenza di tali limitazioni da parte del terzo, ma altresì la sussistenza
di un accordo fraudolento o, quanto meno, la consapevolezza di una stipulazione
potenzialmente generatrice di un danno per la società (ex multis, Cass. n. 7293/2009).

Principi espressi in sede, inter alia,
di accertamento della nullità parziale di un contratto di fideiussione omnibus
contenente clausole riproduttive degli artt. 2, 6 e 8 dello schema ABI.

(Massime
a cura di Giorgio Peli)




Sentenza del 12 marzo 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

La natura della responsabilità dell’amministratore ex art.
2395 c.c. è, secondo l’opinione largamente prevalente in giurisprudenza,
extracontrattuale. Oggetto di risarcimento è il danno “direttamente” subito dal
socio o dal terzo: infatti “[l]’art. 2395 c.c. esige, ai fini dell’esercizio
dell’azione di responsabilità del socio nei confronti degli amministratori, che
il pregiudizio subito dal socio non sia il mero riflesso dei danni
eventualmente arrecati al patrimonio sociale, ma gli derivi direttamente come
conseguenza immediata del comportamento illecito degli amministratori” (Cass.
n. 15220/2010).

L’inadempimento
contrattuale di una società di capitali non implica automaticamente la
responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti dell’altro
contraente ai sensi dell’art. 2395 c.c., atteso che tale responsabilità, di
natura extracontrattuale, richiede la prova di una condotta dolosa o colposa
degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa e il
danno patito dal terzo contraente (Cass. n. 15822/2019). Infatti, la
responsabilità ai sensi dell’art. 2395 c.c. presuppone un fatto illecito dell’amministratore,
consistente nella violazione, dolosa o colposa, di uno dei doveri inerenti alla
carica gestoria, causalmente idoneo a determinare un danno che incide
direttamente sul patrimonio del socio o del terzo.

Anche
a voler attribuire all’assegno una generica funzione di rafforzamento della
sicurezza dei traffici commerciali, in quanto pagabile “a vista”, in presenza
di debiti accumulati dalla società cliente per precedenti forniture non pagate,
la garanzia associata alla consegna di assegni postdatati apparirebbe oltremodo
labile a qualunque fornitore non del tutto sprovveduto: ne deriva la
consapevole assunzione, da parte del fornitore, del rischio di mancato
pagamento delle forniture corrispondenti agli assegni medesimi, situazione che
elide il nesso di causa necessario ai fini dell’accertamento della
responsabilità dell’amministratore per danno diretto procurato al terzo.

Principi
espressi a seguito del giudizio intrapreso ai sensi dell’art. 2395 c.c. dal
fornitore nei confronti dell’amministratore unico della società cliente, il
quale gli aveva offerto assegni postdatati a pagamento della fornitura, assegni
dei quali veniva successivamente denunciato lo smarrimento da parte
dell’amministratore, impedendone l’incasso.

(Massime a cura di Lorena Fanelli)




Sentenza del 5 marzo 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Nel caso di opposizione al decreto
ingiuntivo emesso nei confronti del socio di s.r.l. per il versamento di somme
in conto capitale, la causa petendi attiene a rapporti sociali nell’ambito
di società di capitali, materia di competenza delle sezioni specializzate in
materia di impresa.

Nel giudizio di opposizione a decreto
ingiuntivo, in ipotesi di adesione della parte opposta all’eccezione di incompetenza
formulata dalla parte opponente, il provvedimento decisorio non può che
assumere la forma della sentenza (cfr. Cass. n. 14594/2012), poiché l’adesione
della parte opposta all’eccezione di incompetenza formulata dalla controparte comporta
non soltanto la cancellazione della causa dal ruolo, ma anche la revoca dell’ingiunzione,
essendo necessario un provvedimento espresso che impedisca al decreto
ingiuntivo di continuare a produrre effetti in pendenza del giudizio di merito
(cfr. Cass. n. 25180/2013).

I principi sono stati espressi
nel giudizio di opposizione promosso dal socio di una s.r.l. in liquidazione
avverso il decreto ingiuntivo,
provvisoriamente
esecutivo, che lo condannava al pagamento immediato di una somma “
a
titolo di versamento in conto capitale allo scopo di rendere proporzionale alle
quote sociali il contributo erogato dai soci per il sostegno delle attività
imprenditoriali” della società.

L’opponente, in particolare, formulava
eccezione di incompetenza basata sulla clausola compromissoria statutariamente
prevista, cui aderiva la convenuta, ritualmente costituitasi.

(Massime a cura di Marika Lombardi)