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Decreto del 29 ottobre 2020 – Presidente: Dott. Gianluigi Canali – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Posto che il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato formale e sostanziale solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, lo dichiari esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c. e che tale operazione consiste in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del processo d’ingiunzione e a cui non può surrogarsi il giudice delegato in sede di accertamento del passivo, va esclusa l’opponibilità alla procedura fallimentare del decreto ingiuntivo non munito, prima del fallimento, della dichiarazione di esecutorietà ex art. 647 c.p.c., non rilevando l’avvenuta concessione della provvisoria esecutività ex art. 642 c.p.c. o la mancata tempestiva opposizione alla data della pronuncia di fallimento, eventualmente attestata dal cancelliere.

Il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà non è opponibile al fallimento, neppure nell’ipotesi in cui il decreto ex art. 647 c.p.c. venga emesso successivamente, tenuto conto del fatto che, intervenuto il fallimento, ogni credito deve essere accertato nel concorso dei creditori ai sensi dell’art. 52 l.f.

Se pure si concedesse che i titolari di un diritto d’ipoteca sui beni compresi nel fallimento costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito possano avvalersi del procedimento di verificazione dello stato passivo, l’accertamento avrebbe comunque ad oggetto esclusivamente la validità ed efficacia della garanzia ipotecaria e la misura di partecipazione al riparto delle somme ricavate dalla liquidazione dei beni gravati dall’ipoteca e non il credito del ricorrente ai fini della sua ammissione al passivo tra i creditori concorrenti.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di opposizione allo stato passivo in cui il creditore chiedeva il riconoscimento del privilegio ipotecario in mancanza di decreto ex art. 647 c.p.c. emesso in data anteriore al fallimento.

(Massime a cura di Giulia Ballerini)




Ordinanza del 21 ottobre 2020 – Giudice designato: Dott.ssa Alessia Busato

Anche lo storno di un solo dipendente è da considerarsi illecito allorché connotato dall’animus nocendi dello stornante oltre che dalla natura essenziale – cioè idonea ad avere ripercussioni traumatiche sull’organizzazione aziendale – dell’apporto lavorativo del dipendente stornato.

Può configurarsi un atto di concorrenza sleale in presenza di un trasferimento di un complesso di informazioni da parte di un ex dipendente che, pur non costituenti un vero e proprio diritto di proprietà industriale, costituiscano un complesso strutturato e organizzato di dati cognitivi, che superino la normale capacità mnemonica ed esperienza del dipendente. 

Principi espressi nell’ambito di un procedimento cautelare nel quale la ricorrente chiedeva l’inibizione dell’attività dei resistenti consistente in concorrenza sleale, in particolare da sviamento della clientela con rivelazione di segreti commerciali ex artt. 98 e 99 c.p.i. e storno di dipendenti.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Ordinanza del 21 ottobre 2020 – Giudice designato: Dott.ssa Alessia Busato

La regola sulla ripartizione dell’onere della prova prevista dall’art. 121 c.p.i. opera all’evidenza anche nell’ambito del procedimento cautelare, non essendovi alcun dato normativo o sistematico che possa portare a diversa conclusione.

Nell’ambito di un procedimento cautelare, pur con le peculiarità della cognizione sommaria propria di simili procedimenti, è sempre possibile eccepire la nullità del titolo.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento cautelare nel quale la ricorrente, previa descrizione ex art. 129 c.p.i. dell’attività di lavorazione dei prodotti svolti dalla resistente, chiedeva l’inibizione ex art. 131 c.p.i. delle attività costituenti asserita violazione di un brevetto.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 14 ottobre 2020, n. 1077 – società per azioni, sistema di amministrazione dualistico, consiglio di sorveglianza, revoca senza giusta causa, clausola simul stabunt simul cadent, risarcimento del danno del consigliere decaduto

Nelle società che adottano il sistema di amministrazione dualistico, in caso di revoca dei consiglieri di sorveglianza, la deliberazione assembleare di revoca deve contenere l’enunciazione espressa delle ragioni a sostegno della revoca, che devono essere effettive e ivi riportate in modo adeguatamente specifico. Ne consegue che deve ritenersi inammissibile l’eventuale deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori a fondamento della revoca, dovendo il giudice tenere conto esclusivamente di quanto indicato nella deliberazione.

In ogni caso, l’enunciazione delle ragioni a sostegno della revoca non richiede particolari requisiti di forma, essendo cionondimeno necessario che tali motivazioni siano, in qualsiasi modalità, rese note ed esplicate all’assemblea chiamata a deliberare sul punto.

In materia di revoca dei consiglieri di sorveglianza, la deliberazione assembleare di revoca costituisce l’unico atto rilevante ai fini dell’enunciazione delle motivazioni poste a fondamento della revoca, con la conseguenza che, ove dette ragioni non siano ivi esplicitate, pur essendo la revoca valida ed efficace, la società è obbligata a risarcire il danno patito dai consiglieri revocati per effetto della revoca anticipata senza giusta causa.

La revoca anticipata senza giusta causa del consigliere di sorveglianza determina il diritto del consigliere revocato al risarcimento del danno subito, consistente nel lucro cessante, ossia nel compenso non percepito per il periodo in cui il consigliere avrebbe conservato il suo ufficio se non fosse intervenuta la revoca, non sussistendo ragioni per ricorrere alla liquidazione equitativa.

Il danno risarcibile è determinato in maniera differente in caso di incarico attribuito a tempo determinato o a tempo indeterminato: in quest’ultimo caso, l’ammontare del risarcimento va quantificato considerando il solo compenso spettante al consigliere revocato durante il c.d. “periodo di preavviso”, mentre nel caso di incarico a tempo determinato va commisurato tenendo conto del compenso che il consigliere avrebbe percepito fino alla scadenza naturale dell’incarico.

La clausola simul stabunt simul cadent opera automaticamente per il solo venir meno del numero di componenti in essa previsto, indipendentemente dalle cause che hanno determinato la cessazione dall’incarico del singolo componente e, dunque, a prescindere dal fatto che tale cessazione sia dovuta alla scelta del singolo (dimissioni) o alla revoca deliberata dall’assemblea.

In difetto di prova del fatto che la revoca di taluni consiglieri di sorveglianza fosse volta determinare la decadenza di un determinato consigliere, per effetto della clausola simul stabunt simul cadent, a quest’ultimo non può essere riconosciuto il diritto al risarcimento del danno.

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello in cui sono state riunite due cause: la prima, promossa da tre consiglieri di sorveglianza contro la società (nel caso di specie, una società per azioni con sistema di amministrazione dualistico), i quali chiedevano la condanna della società al risarcimento del danno subito per effetto della revoca senza giusta causa (nello specifico, deducendo che la deliberazione con cui l’assemblea della società aveva disposto la revoca era priva di motivazione e giustificazione ed ispirata a logiche di carattere esclusivamente politico); la seconda, promossa dall’ex vicepresidente del consiglio di sorveglianza contro la medesima società, al fine di ottenere il risarcimento del danno per essere decaduto a causa dell’applicazione della clausola simul stabunt simul cadent, che aveva prodotto i propri effetti a seguito della revoca senza giusta causa di altri tre consiglieri.

La società convenuta chiedeva il rigetto delle domande formulate nei suoi confronti.

All’esito dei giudizi di primo grado, il tribunale aveva dichiarato la revoca dei tre consiglieri priva di giusta causa, rilevando che dal verbale dell’assemblea in cui era stata deliberata la revoca non emergevano le ragioni giustificatrici della revoca e, comunque, che la revoca nel caso di specie non poteva considerarsi assistita da giusta causa. Pertanto, il tribunale, accertato il diritto dei tre consiglieri revocati al risarcimento dei danni, aveva quantificato il danno equitativamente, avuto riguardo agli emolumenti che gli attori avrebbero conseguito nell’arco temporale di sei mesi dopo la revoca, quale lasso di tempo ragionevolmente idoneo a consentire ai consiglieri revocati di assumere nuovi incarichi.

Con riguardo al giudizio di primo grado instaurato dal vicepresidente del consiglio di sorveglianza, cessato dalla carica per effetto della clausola simul stabunt simul cadent, il tribunale affermava che, trattandosi di ipotesi di decadenza automatica, non potesse operare la tutela risarcitoria, prevista per i soli casi di utilizzo abusivo della clausola.

Il vicepresidente del consiglio di sorveglianza proponeva quindi appello avverso la sentenza di primo grado, chiedendone la riforma e l’accoglimento della domanda proposta in primo grado. I tre consiglieri proponevano appello chiedendo, in parziale riforma della sentenza impugnata, la liquidazione del maggior danno.

Si costituiva nel giudizio di appello la società, chiedendo il rigetto dell’appello e, in via incidentale, la riforma della sentenza con riferimento alla posizione degli appellanti/consiglieri o, in subordine, la riduzione della condanna.

La corte d’appello ha rigettato l’appello promosso dal vicepresidente del consiglio di sorveglianza (appellante) e ha accolto l’appello promosso dai tre consiglieri (appellanti nel giudizio riunito) e ha parzialmente accolto l’appello principale promosso dalla società appellata.

(Massime a cura di Alice Rocco)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 13 ottobre 2020, n. 1062 – società per azioni, consiglio di sorveglianza, decadenza dalla carica, clausola simul stabunt simul cadent

Categoria: Società – Società per azioni

L’utilizzo improprio o abusivo, e quindi contrario a buona fede e correttezza, della clausola simul stabunt simul cadent ricorre solamente quando lo strumento della revoca di alcuni consiglieri sia stato utilizzato all’esclusivo fine di ottenere il risultato, realmente perseguito, di rimuovere ulteriori consiglieri “sgraditi” per scopi diversi da quelli per i quali è riconosciuto il diritto a rinunciare alla carica o per non riconoscere loro il dovuto risarcimento dei danni per revoca in difetto di giusta causa e, pertanto, eludendo l’obbligo di corresponsione degli emolumenti residui (ed in generale di risarcimento del danno) che spetterebbe loro se fossero cessati dalla carica, non per effetto della predetta clausola statutaria, ma per revoca ex art. 2383, comma terzo, c.c.

La presenza di una clausola simul stabunt simul cadent trova la sua giustificazione, tra le altre cose, nella necessità di garantire gli equilibri all’interno del consiglio di amministrazione (e di gestione) di una società e di evitare che l’equilibrio iniziale possa essere compromesso per effetto della cooptazione prevista dal primo comma dell’art. 2386 c.c. ed opera automaticamente al venir meno del numero di amministratori in essa indicato. La predetta clausola, ove applicata senza finalità abusive, non equivale ad una revoca dell’incarico e non fa sorgere alcun diritto a favore dell’amministratore decaduto il quale, accettando l’iniziale conferimento dell’incarico, aderisce implicitamente alle clausole dello statuto sociale che regolano le condizioni di indicazione e permanenza degli organi sociale e i relativi poteri. Tale adesione implica anche l’accettazione dell’eventualità di cessazione anticipata dalla carica senza risarcimento del danno in caso di applicazione della clausola simul stabunt simul cadent.

I consiglieri che sono decaduti dalla carica in conseguenza di un’applicazione abusiva della clausola simul stabunt simul cadent hanno l’onere di provare che l’atto di revoca dei consiglieri destinatari della stessa fosse volto a colpire anche gli altri consiglieri non diretti destinatari dall’atto di revoca. Tale prova può essere offerta anche attraverso la dimostrazione dell’esistenza di un accordo tra i soci volto ad estromettere anche i consiglieri non diretti destinatari della revoca dal consiglio di sorveglianza, attraverso il meccanismo della decadenza conseguente all’applicazione della menzionata clausola (al contrario, la circostanza che la società avesse deciso di revocare n. 6 consiglieri e, pertanto, un numero superiore a quello necessario per far decadere l’intero consiglio è stato ritenuto dalla Corte d’Appello un elemento per sostenere, in mancanza di prove contrarie, l’applicazione secondo buona fede della clausola).

L’operativa della clausola simul stabunt simul cadent prescinde del tutto dai motivi per cui i consiglieri vengano a mancare, sicché dalla sua applicazione in sé non può derivare alcun diritto risarcitorio. In difetto di prova dell’uso abusivo o strumentale della predetta clausola, dunque, nessuna pretesa risarcitoria ai sensi dell’articolo 2409-duodecies, quinto comma, c.c., può essere riconosciuta a quei consiglieri che sono decaduti dalla carica per effetto dell’applicazione della stessa.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da due componenti del consiglio di sorveglianza di una società per azioni, i quali hanno agito nei confronti della società al fine di (i) accertare e far dichiarare l’insussistenza della giusta causa di revoca dalla loro carica di consiglieri intervenuta per – secondo la ricostruzione degli appellanti – un utilizzo improprio (o di abuso) della clausola statutaria simul stabunt simul cadent evidenziando in particolare che il Tribunale non aveva preso posizione in ordine all’utilizzo della clausola senza il rispetto del canone di buona fede e correttezza e ha errato nel ritenere che l’utilizzo improprio o abusivo sia finalizzato all’esclusivo scopo di ottenere la rimozione di ulteriori consiglieri sgraditi e (ii) ottenere la condanna della società convenuta al risarcimento del danno subito..

Il Tribunale di primo grado rigettava le domande proposte escludendo che nel caso in esame ricorresse un’ipotesi di uso improprio o di abuso della menzionata clausola.

Avverso la pronuncia del Tribunale, i consiglieri proponevano appello chiedendo la riforma della sentenza medesima e insistendo per l’accoglimento delle domande proposte in primo grado.

La Corte d’Appello ha rigettato le domande proposte dai consiglieri confermando integralmente la sentenza di primo grado e ha condannato gli appellanti alla rifusione delle spese di lite.

(Massime a cura di Valentina Castelli)




Sentenza del 9 ottobre 2020 – Presidente: Dott. Raffaele del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Alessia Busato

La clausola di prelazione statutaria c.d. propria – e cioè che preveda il pagamento da parte del socio che eserciti la prelazione in misura pari a quella a cui il terzo si è offerto di acquistare la partecipazione – e che abbia quale generico presupposto la «cessione» della partecipazione non trova applicazione allorché la partecipazione sia permutata (e quindi trasferita in proprietà contro trasferimento, sempre in proprietà, di immobili), e ciò per assenza di un corrispettivo fungibile che il socio prelazionario dovrebbe pagare.

Principio espresso nell’ambito di un procedimento avente ad oggetto la domanda di provvedimento costitutivo di trasferimento della titolarità di una quota di società a responsabilità limitata, data in permuta dal convenuto in spregio ad una clausola di prelazione statutaria.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Ordinanza del 2 ottobre 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Non diversamente da quanto avviene nelle ipotesi di esecuzione forzata avente ad oggetto un immobile locato a terzi, le questioni discendenti dalla vigenza di un contratto di locazione non incidono sull’esito del rapporto sostanziale tra le parti del giudizio di merito, da cui scaturisce il titolo esecutivo, e non possono che essere risolte in executivis.

Decisione resa con riferimento ad un reclamo avverso un’ordinanza pronunciata in seguito al procedimento cautelare instaurato da una società di leasing nei confronti della locataria finanziaria dell’immobile e non anche nei confronti dei conduttori dell’immobile, qualificatisi destinatari sostanziali degli effetti lesivi del provvedimento reclamato.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)