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Sentenza del 22 luglio 2020 – Presidente: Dott. Donato Pianta – Consigliere relatore: Dott. Giuseppe Magnoli

Il requisito del know-how, ai fini
della stipula del contratto di franchising, non costituisce un elemento
indefettibile del tipo, posto che l’art. 1, comma 1, della L. n. 129/2004
espressamente stabilisce che “L’affiliazione commerciale (franchising) è il
contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e
giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità
all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà
industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali,
insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti,
assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un
sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio,
allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi
”. In tal senso,
il contratto di affiliazione commerciale non deve quindi riguardare
cumulativamente tutti gli aspetti regolati dalla norma, essendo di rilievo solo
la concessione all’affiliato della disponibilità di un insieme di diritti di
proprietà industriale o intellettuale – ossia, la sperimentata formula
commerciale, che può concernere uno o più profili elencati dalla norma stessa –
nell’ottica dell’inserimento dell’impresa dello stesso affiliato in una
articolata rete territoriale riferibile all’affiliante e composta da una
pluralità di altri affiliati, con lo scopo di commercializzare determinati beni
o servizi. Sussistendo tale insieme ben può quindi configurarsi un contratto di
franchising privo della clausola concernente la trasmissione del know-how
dal franchisor al franchisee.

I principi sono stati espressi
nel giudizio di appello promosso da due imprenditori, nella loro qualità di
affiliati, nei confronti di una s.r.l. unipersonale, nella sua qualità di
affiliante. In particolare, la parte appellante chiedeva l’accertamento della
nullità del contratto di affiliazione commerciale concluso
inter partes per l’insussistenza del know-how,
quale oggetto del contratto, anche
ex artt. 1325 e 1346 c.c. e comunque
per il difetto delle caratteristiche prescritte
ex lege, ai sensi
dell’art. 1, comma 3, lett. a), L. n. 129/2004.

(Massima
a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 28 luglio 2020 – Giudice: Dott.ssa Angelica Castellani

Per
ravvisare l’esistenza di un rapporto di concorrenza fra due imprenditori è
sufficiente la configurabilità di un’area di interferenza tra attività dagli
stessi svolte, non essendo necessaria la totale sovrapponibilità tra le
medesime.

La
valutazione della capacità distintiva di un segno registrato come marchio va
effettuata sulla base della percezione che di esso abbia il pubblico
destinatario dei prodotti o dei servizi contraddistinti, sicché un marchio
descrittivo, costituito da segni denominativi privi di capacità distintiva, può
essere considerato valido quando, a seguito del consolidarsi del suo utilizzo
sul mercato, risulti aver acquisito nel tempo una sua capacità distintiva
(conf. Cass. n. 8119/2009).

La
prova dell’acquisizione del secondary meaning può essere fornita non
solo per il tramite di apposita indagine demoscopica, ma anche mediante altri
elementi indiziari osservati nel loro complesso (campagne promozionali e
pubblicitarie realizzate dal titolare del segno, numero di visitatori del sito
internet, numero di operatori del settore con i quali l’operatore collabora sin
dall’inizio dell’attività).

In
caso di utilizzo indebito della componente denominativa del marchio di un
concorrente, integrante anche nucleo essenziale della denominazione sociale e
del nome a dominio di questo, anche laddove i segni distintivi non abbiano
assunto, con l’uso prolungato nel tempo e la rinomanza notoriamente acquisita,
i connotati di un marchio “forte”, si deve escludere che scarsi elementi di
differenziazione, di per sé privi di adeguato valore individualizzante,
aggiunti al nucleo fondamentale dei segni distintivi altrui siano idonei a
svolgere funzione di diversificazione.

Ai
sensi dell’art 22 c.p.i., che sancisce il principio dell’unitarietà dei diritti
sui segni distintivi, può costituire violazione dei diritti esclusivi spettanti
al titolare di un marchio registrato l’uso da parte di un terzo di un segno
identico o simile a detto marchio come ditta, denominazione, ragione sociale,
nome a dominio o insegna in presenza di un rischio di confusione che può
consistere anche in un rischio di associazione, ovvero, in caso di marchio
rinomato, allorquando l’uso contestato dia luogo ad un pregiudizio per il
titolare del marchio o a un indebito vantaggio per l’utilizzatore del segno.

A
prescindere da specifiche violazioni di diritti di esclusiva ex artt. 12, 20 e
22 c.p.i., si ritengono integrate le fattispecie di concorrenza sleale di cui
all’art 2598, nn. 1 e 3, c.c. qualora l’elevato grado di somiglianza tra i
segni utilizzati dalle imprese concorrenti generi da un lato, il rischio di
associazione tra le stesse in termini di confusione circa l’origine
imprenditoriale dei servizi da queste offerti e, dall’altro, determini
l’indebito sfruttamento del valore attrattivo dei segni dell’impresa di più
antica costituzione e, di riflesso, della notorietà della stessa.

Nell’ambito di un procedimento
cautelare per ottenere la tutela dei propri diritti di esclusiva, in punto
di  periculum in mora  le ragioni di urgenza vanno ravvisate nella
persistente utilizzazione da parte della resistente dei segni distintivi in
titolarità della ricorrente all’interno del proprio marchio, della propria
denominazione sociale e del domain name dalla stessa registrato, nonché
nel pregiudizio di natura economica – da apprezzarsi necessariamente in termini
delibativi e probabilistici – collegato all’indebito sfruttamento degli
investimenti della ricorrente. Tali condotte lesive, infatti, possiedono una
intrinseca attitudine a sviare la clientela della ricorrente e a cagionare di
conseguenza a quest’ultima un danno di difficile quantificazione e riparazione.
Inoltre, la pericolosità di tali condotte è aggravata dalla promozione dei
propri servizi tramite web, che consente per sua natura di raggiungere
in breve tempo un numero indefinito di consumatori.

Principi
espressi in sede di accoglimento di un ricorso promosso in via cautelare ex
artt. 131 e 133 c.p.i., 700 c.p.c. e 2564 c.c. da una società attiva nel
settore della pubblicità legale delle procedure esecutive e fallimentari per
ottenere nei confronti di una concorrente la tutela dei propri diritti di esclusiva
sul segno di cui è titolare, registrato come nome a dominio e integrante
componente denominativa del proprio marchio italiano ed europeo, nonché nucleo
essenziale della propria denominazione sociale.

(Massime
a cura di Giorgio Peli)




Ordinanza del 16 giugno 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto

La sostanziale identità del bene oggetto del trasferimento costituisce elemento indispensabile di collegamento tra contratto preliminare e contratto definitivo, sicché, qualora l’oggetto del primo sia costituito dalla totalità delle quote di una s.r.l. e venga deliberato un aumento di capitale, il radicale mutamento dell’assetto societario preclude l’ottenimento di una pronuncia costitutiva ai sensi dell’art. 2932 c.c.

Principio espresso nel contesto di un ricorso avverso un’ordinanza cautelare che aveva disposto il sequestro conservativo delle quote di una s.r.l.

(Massima a cura di Giovanni Gitti)




Sentenza del 16 luglio 2020 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

La genuinità delle sottoscrizioni apposte ad un contratto bancario non può revocarsi in dubbio se corrispondenti a quelle che costituiscono lo specimen depositato presso la banca medesima e se la bontà di queste ultime è incontestata dal soggetto firmatario.

Principio espresso in esito ad un procedimento avente ad oggetto un’opposizione a decreto ingiuntivo e più ampie questioni tuttavia non espressamente trattate dal decisore. Parte attrice opponente lamentava la nullità della fideiussione per mancanza di una valida sottoscrizione.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Decreto del 15 luglio 2020 – Giudice designato: Dott. Raffaele del Porto

Il procedimento di volontaria giurisdizione ex art. 1105, ult. co., c.c. non può essere esperito nel caso in cui non sia possibile raggiungere la maggioranza dei comunisti necessaria per revocare il rappresentante comune, posto che detta disposizione disciplina il solo caso in cui l’amministrazione della cosa comune non sia possibile, per inerzia o per contrasto tra i comunisti sull’amministrazione (in questa seconda ipotesi, infatti, non si tratta di supplire ad una mera inerzia della maggioranza – conseguente a dissidi tra soci o al mero disinteresse alla gestione – ma di risolvere un contrasto tra uno o più comunisti e l’amministratore nominato, attività che ha un evidente risvolto contenzioso).

Principio espresso nell’ambito di un procedimento di volontaria giurisdizione ex art. 1105, ult. co., c.c. proposto da una comproprietaria di un pacchetto azionario a fronte di un conflitto di interessi in capo al rappresentante comune di detto pacchetto nell’esercizio delle sue funzioni.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Sentenza del 14 luglio 2020 – Presidente: Dott. Raffaele del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Alessia Busato

Si trovano in situazione di concorrenza tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni.

Principio espresso nell’ambito di un procedimento avente ad oggetto la domanda di condanna al risarcimento dei danni ex artt. 20 c.p.i. e 2569 e 2598, n. 3, c.c.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Sentenza del 13 luglio 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Angelica Castellani

Integra
violazione dell’art. 2467 c.c. – norma inderogabile, in quanto posta a tutela
dei creditori sociali e diretta a contrastare fenomeni di sottocapitalizzazione
propri delle società a ristretta base sociale, determinati dalla volontà dei
soci di ridurre l’esposizione al rischio d’impresa – il rimborso a favore del
socio di una s.r.l. del finanziamento da questo erogato alla società, rimborso
effettuato mediante compensazione con i crediti di pari importo vantati dalla
società nei confronti del socio, qualora il finanziamento sia stato concesso in
presenza delle condizioni di cui al secondo comma della disposizione in
questione.

In
tal caso il socio trae indebitamente vantaggio dal meccanismo della
compensazione per vedersi rimborsato un credito che avrebbe potuto essere
estinto solo a seguito della soddisfazione integrale degli altri creditori. La
sussistenza, al momento della concessione del finanziamento e della richiesta
di rimborso, di uno dei presupposti indicati dall’art. 2467, 2° co., c.c. integra
un fatto impeditivo del diritto del socio alla restituzione del finanziamento.
Tale condizione di inesigibilità legale opera non solo quando si apre un
concorso formale con gli altri creditori sociali, ma anche durante la vita
della società, finché non sia stata superata la situazione di difficoltà
prevista dalla norma, sicché in tal caso la società deve rifiutare al socio il
rimborso del finanziamento in presenza di detta situazione, che l’organo
amministrativo ha il dovere di riscontrare mediante l’adozione di un adeguato
assetto organizzativo, amministrativo e contabile in grado di rilevare la crisi
(conf. Cass. n. 12994/2019).

Nell’ambito
di un procedimento volto ad accertare e a dichiarare la violazione del disposto
di cui all’art 2467 c.c., l’amministratore non può essere liberato da
responsabilità sulla base dell’assunto secondo il quale il pagamento
preferenziale effettuato mediante compensazione non avrebbe arrecato un danno
alla massa dei creditori, in quanto avrebbe realizzato un’operazione neutra per
il patrimonio sociale, con diminuzione dell’attivo in misura esattamente pari
alla diminuzione del passivo conseguente all’estinzione del debito. Infatti, il
pagamento preferenziale in una situazione di dissesto può comportare una
riduzione del patrimonio sociale in misura anche di molto superiore a quella
che si determinerebbe nel rispetto del principio della par condicio
creditorum
, in quanto la destinazione del patrimonio sociale alla garanzia
dei creditori va considerata nella prospettiva della prevedibile procedura
concorsuale, che espone i creditori alla falcidia fallimentare (conf. Cass.,
S.U., n. 1641/2017). Perciò il pagamento di un creditore in misura superiore a
quella che otterrebbe in sede concorsuale comporta per la massa dei creditori una
minore disponibilità patrimoniale cagionata dall’inosservanza degli obblighi di
conservazione del patrimonio sociale in funzione di garanzia dei creditori.

In
tema di ripartizione dell’onere della prova dell’effettiva lesione subita dal
creditore (ovvero della massa) che assume di essere stato pretermesso nel
pagamento di debiti sociali a causa della condotta di mala gestio
addebitabile all’amministratore, sul creditore grava unicamente l’onere di
dedurre il mancato soddisfacimento del credito provato come esistente, liquido
ed esigibile alla data della liquidazione o del fallimento e il conseguente
danno determinato dalla condotta contraria ai doveri dell’amministratore,
astrattamente idonea a provocare la lesione, mentre spetta al debitore
dimostrare il proprio corretto adempimento degli obblighi sullo stesso
gravanti, e in particolare dell’obbligo di procedere a una corretta e fedele
ricognizione dei debiti sociali – costituente la c.d. massa passiva – e di
pagare i debiti sociali nel rispetto della par condicio creditorum,
secondo il loro ordine di preferenza, senza alcuna pretermissione di crediti
all’epoca coesistenti (conf. Cass. n. 521/2020).

Il
pagamento preferenziale eseguito dall’amministratore in favore di un creditore
della società poi fallita, anche privo del carattere di illiceità penale, è
idoneo a cagionare un danno al patrimonio della società di cui il curatore può
chiedere il risarcimento.

L’azione
di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l.fall cumula le diverse
azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., a favore rispettivamente, della
società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto
inscindibile e connotazione autonoma quale strumento di reintegrazione del
patrimonio sociale. Pertanto, si determina una modifica della legittimazione
attiva, ma non della natura giuridica e dei presupposti delle due azioni che
rimangono diversi ed indipendenti. La mancata specificazione del titolo nella
domanda giudiziale non determina dunque la sua nullità per indeterminatezza, ma
fa presumere che il curatore abbia inteso esercitare entrambe le azioni
congiuntamente.

Nel
caso in cui il curatore abbia promosso nei confronti dell’amministratore della
società fallita l’azione di responsabilità di cui all’art. 146 l. fall., che
cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., non è
ammessa compensazione fra il credito risarcitorio riconosciuto in favore del
fallimento nei confronti del predetto amministratore per atti di mala gestio
e il credito vantato da quest’ultimo a titolo di compenso, attesa
l’insussistenza del requisito della reciprocità, posto che l’amministratore non
è titolare nei confronti dei creditori sociali di alcun credito da opporre in
compensazione.

Principi
espressi in ipotesi di accoglimento dell’azione di responsabilità promossa ai
sensi dell’art. 146 l. fall. dal curatore nei confronti dell’amministratore
unico della società fallita, volta ad ottenere il risarcimento dei danni
cagionati alla società e ai creditori sociali per effetto di condotte contrarie
ai doveri inerenti alla carica ricoperta.

(Massime
a cura di Giorgio Peli)




Sentenza del 10 luglio 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

La responsabilità degli amministratori ex art. 2476, co., 3 c.c. non può essere affermata laddove le doglianze dei soci siano genericamente indicate e laddove non risulti provato un danno per la società.

Il conflitto di interessi postula un rapporto d’incompatibilità fra le esigenze del rappresentato e quelle personali del rappresentante o di un terzo che egli a sua volta rappresenti; rapporto che va riscontrato non in termini astratti e ipotetici, ma con riferimento al singolo atto, concentrandosi esclusivamente sul contratto le cui intrinseche caratteristiche consentano un vantaggio di un soggetto solo passando attraverso il sacrificio dell’altro (conf. Cass. n. 19045/2005). 

La sussistenza dei presupposti per la postergazione dei crediti dei soci stabiliti dall’art. 2467 c.c. non è ostativa alla compensazione tra il credito del socio per finanziamenti e il suo debito da sottoscrizione dell’aumento di capitale, atteso che la trasformazione, mediante la compensazione, del credito da finanziamento in capitale di rischio concorre alla protezione degli interessi dei creditori terzi tutelati dall’art. 2476 c.c. Deve ritenersi, in definitiva, che l’estinzione per compensazione non sia illegittima e che non arrechi alcun pregiudizio ai creditori della società (e tantomeno alla partecipazione dei soci).

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dai soci di una s.r.l. ex art. 2476, co. 3, c.c. nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione. A fondamento delle proprie pretese gli attori deducevano il compimento, da parte degli amministratori, di atti di mala gestio tra cui l’aver consentito la liberazione del capitale sociale (dapprima ricostituito e poi aumentato) mediante compensazioni in favore dei soci in violazione dell’art. 2467 c.c.

(Massima a cura di Marika Lombardi)