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Sentenza del 30 aprile 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società di capitali previste dagli artt. 2393 c.c. e 2394 c.c. (o, per la s.r.l., artt. 2476, co. 3, e 2476, co. 6, c.c.), pur essendo tra loro distinte, in caso di fallimento dell’ente, confluiscono nell’unica azione di responsabilità, esercitabile, previa autorizzazione del giudice delegato, esclusivamente da parte del curatore.

In punto di prescrizione, la disciplina applicabile a detta azione si atteggia in modo differente a seconda dei presupposti operativi evocati: pur essendo comunque quinquennale il termine prescrizionale dell’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., il dies a quo è differente a seconda che il curatore abbia agito con la legittimazione processuale ex art. 146 l. fall. nell’esercizio: a) dell’azione sociale di responsabilità, oppure b) dell’azione di responsabilità esperibile da parte dei creditori.

In tal senso, il termine di prescrizione decorrerà quindi:

a) per l’azione sociale, dal momento in cui, per effetto dell’inadempimento degli obblighi degli amministratori e dei sindaci, si verifichi il danno alla società; il dies a quo, pertanto, può essere posteriore non solo a quello in cui si sia verificato l’inadempimento, ma anche a quello in cui amministratori e sindaci siano cessati dalla carica (ferma la sospensione del termine, quanto agli amministratori, durante lo svolgimento dell’incarico ex art. 2941, n. 7 c.c.);

b) per l’azione dei creditori sociali, dal momento – che può essere anteriore o coincidente con la dichiarazione del fallimento – in cui gli stessi siano stati in grado “di venire a conoscenza dello stato di grave e definitivo squilibrio patrimoniale della società” (conf. Cass. n. 9619/2009, n. 20476/2008, n. 941/2005). In ragione dell’onerosità della suddetta prova a carico del curatore, avente ad oggetto l’oggettiva percepibilità dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i crediti sociali, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quodi decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, spettando all’amministratore convenuto nel giudizio (che eccepisca la prescrizione dell’azione di responsabilità) dare la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale (conf. Cass. n. 13378/2014). La relativa prova, se è vero che può desumersi anche dal bilancio di esercizio (conf. Cass. n. 20476/2008), deve pur sempre avere ad oggetto “fatti sintomatici di assoluta evidenza (indicati da Cass. n. 8516/2009 nella chiusura della sede sociale, nell’assenza di cespiti suscettibili di esecuzione forzata, ecc.), nell’ambito di una valutazione che è riservata al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, se non per vizi motivazionali che la rendano del tutto illogica o lacunosa” (conf. Cass. n. 24715/2015).

In tema di azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., deve affermarsi la responsabilità degli amministratori laddove la curatela fallimentare-attrice abbia dato prova: a) della condotta illecita addebitata agli amministratori-convenuti consistente nell’omesso tempestivo rilievo della perdita del capitale sociale, nell’omessa adozione dei rimedi di cui all’art. 2482-ter c.c. e nell’indebita prosecuzione dell’attività d’impresa, atteso che la perdita del capitale sociale doveva essere prontamente rilevata; b) delle conseguenze lesive di detta condotta consistenti nelle maggiori perdite accumulate per effetto della indebita prosecuzione dell’attività; nonché c) del nesso eziologico sussistente tra l’indebita prosecuzione dell’attività e le conseguenze patrimoniali negative subite dalla società e dai creditori sociali.

In tema di azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare, ai fini della liquidazione del danno è necessario evidenziare che il pregiudizio arrecato alla società e ai creditori sociali deve essere calcolato, in conformità all’art. 2486 co. 3 c.c., come di recente modificato, attraverso il criterio dei cc.dd. “netti patrimoniali”, ossia nella differenza tra il patrimonio netto alla data di cessazione della carica gestoria o a quella di apertura della procedura concorsuale, da un lato, ed il patrimonio netto alla data in cui si è verificata la causa di scioglimento, dall’altro, una volta detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità.

La disciplina più favorevole dettata dall’art. 2392 c.c. per la responsabilità degli amministratori privi di specifiche deleghe (o funzioni) non può trovare applicazione nei casi in cui sia contestata agli amministratori la violazione di doveri relativi alla corretta formazione del bilancio e agli adempimenti conseguenti, nonché l’indebita prosecuzione dell’attività in assenza dei presupposti di legge, in danno della società e dei creditori sociali. Tale disciplina, essenzialmente diretta a limitare la responsabilità degli amministratori cc.dd. non operativi (cioè privi di delege) in relazione al compimento di atti gestori dannosi, non può difatti mandare esente da responsabilità l’amministratore che, sebbene estraneo alle specifiche attività gestorie, non può non partecipare, con piena consapevolezza e conseguenti responsabilità, all’adempimento fondamentale rappresentato dalla redazione del bilancio di esercizio.

Principi espressi nel giudizio promosso dal curatore fallimentare di una società a responsabilità limitata ex art. 146 l. fall. nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione della società, poi fallita, a fronte del compimento di atti di mala gestio, consistenti nell’aver redatto i bilanci in modo non corretto o non veritiero, nell’aver occultato dolosamente l’erosione del capitale sociale, nell’aver omesso di adottare i provvedimenti di cui all’art. 2447 c.c. e nell’aver indebitamente proseguito l’attività di impresa, aggravando il deficit patrimoniale.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 20 novembre 2019 – Presidente relatore: Dott. Raffaele Del Porto

La vendita del bene immobile di proprietà della società amministrata senza incasso (della gran parte) del relativo prezzo (e con rinuncia all’ipoteca legale) integra una condotta contrastante con i più elementari obblighi di diligenza dell’amministratore o del liquidatore, idonea a cagionare un altrettanto palese danno al patrimonio sociale, soprattutto in caso di conclamata insussistenza di risorse finanziarie (o di altra natura) in capo alla società acquirente. 

Integra un atto di mala gestio del liquidatore l’erogazione a proprio favore di pagamenti per compensi dallo stesso deliberati in misura eccessiva in qualità di socio unico della società fallita, trattandosi di una condotta che si pone in contrasto con la situazione di crisi, o più verosimilmente di insolvenza, in cui versava la società, che avrebbe ragionevolmente imposto una più moderata quantificazione del compenso spettante al socio unico per l’attività di liquidazione auto-affidatasi.

Il pagamento “preferenziale” eseguito dall’amministratore o dal liquidatore in favore di un creditore della società poi fallita, anche se non presenta gli estremi dell’illecito penale, è in ogni caso idoneo a cagionare un danno al patrimonio della società di cui il curatore può domandare il ristoro, costituendo violazione degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale in funzione di garanzia dei creditori. In tali casi il danno non è rappresentato dall’intera somma pagata al creditore, ma dalla differenza fra detta somma e l’importo che, in difetto di pagamento, sarebbe a questo spettato in sede di riparto fallimentare.

Principi espressi dal Tribunale in accoglimento dell’azione di responsabilità proposta dalla curatela nei confronti dell’amministratore unico e poi liquidatore di una s.r.l., per la condanna dello stesso al risarcimento dei danni cagionati al patrimonio della società fallita per effetto di condotte contrarie ai doveri propri delle cariche ricoperte, come la vendita di un immobile sociale senza incasso di gran parte del relativo prezzo, prelievi ingiustificati dai conti correnti della società, pagamenti a sé stesso per compensi del di liquidatore in misura eccessiva e ulteriori pagamenti preferenziali effettuati a favore di alcuni creditori sociali.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Ordinanza del 27 giugno 2018 – Giudice designato: Dott. Davide Scaffidi

Ai sensi dell’art. 19 Reg. CE n. 6/2002, il titolare di un disegno o modello comunitario registrato ha il diritto esclusivo di utilizzare il trovato e di vietare a terzi la commercializzazione di prodotti che per le loro caratteristiche estetiche non suscitino nell’utilizzatore informato un’impressione generale diversa da quella del modello registrato.

La valutazione del carattere individuale di un modello comunitario registrato deve avvenire considerando l’aspetto complessivo delle forme e tenendo conto dell’impressione d’insieme generata dalla percezione unitaria della combinazione peculiare dei singoli elementi costitutivi, e non sulla base dell’identità o somiglianza di singoli elementi costitutivi rispetto a modelli già noti.

L’onere di dimostrare l’invalidità di un modello comunitario registrato incombe su chi eccepisce il difetto dei requisiti di validità.

La valutazione circa l’esistenza del fumus connesso all’illecito concorrenziale dell’imitazione servile, di cui all’art. 2598, n. 1, c.c., parametrata rispetto alla percezione del consumatore medio, risulta assorbita, quanto alla dedotta imitazione servile dei prodotti, dalla tutela offerta al modello comunitario registrato, declinata in relazione al più elevato metro dell’impressione generale suscitata sul consumatore informato. 

L’imitazione diacronica può considerarsi illecita soltanto se effettuata, rispetto al prodotto o all’omologa iniziativa commerciale del concorrente, a una breve distanza di tempo, che deve essere valutata tenendo conto della natura del prodotto asseritamente imitato. 

L’imitazione del packaging utilizzato da un’impresa concorrente e l’organizzazione di attività promozionali realizzate mediante l’ausilio della stessa testimonial dei prodotti della concorrente integrano gli estremi della concorrenza sleale exart. 2598, n. 3, c.c., perpetrata mediante l’utilizzo di mezzi contrari alla correttezza professionale, volti a sfruttare la risonanza e la rinomanza dei prodotti e delle iniziative commerciali e promozionali altrui, in modo da ottenere un indebito risparmio derivante dalla mancata predisposizione di appositi investimenti autonomi.

Principi espressi in sede cautelare da parte del Tribunale che, confermando il decreto, emesso inaudita altera parte, di sequestro dei beni costituenti violazione di diritti su disegni o modelli comunitari registrati, ha affermato che la condotta posta in essere dalla resistente, consistente altresì nell’imitazione del packaging e dell’attività promozionale della concorrente, integrava gli estremi di una consapevole e sistematica attività concorrenziale sleale, attuata mediante l’utilizzo indiretto di mezzi contrari alla correttezza professionale. Il risultato di tali atti concorrenziali si sarebbe sostanziato in un agganciamento parassitario idoneo ad arrecare alla concorrente un pregiudizio consistente nell’indebolimento della sua posizione di mercato e nel possibile offuscamento dei relativi prodotti e segni distintivi.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 22 marzo 2019 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

La cessione da parte dell’amministratore di s.r.l. di beni di titolarità della società gestita (nella fattispecie brevetti) a un prezzo vile, di molto inferiore al loro valore, e l’omesso pagamento di tributi integrano gli estremi di illeciti gestori che costituiscono violazione del dovere di conservazione del patrimonio sociale che incombe sull’amministratore e sono fonte di danni per la società.

L’amministratore che abbia concorso a determinare, anche a causa della sua mala gestio, una situazione di crisi economico-finanziaria tale da incidere, in via riflessa, sulla mancanza di liquidità della società, non può invocare validamente detta situazione in funzione di esimente dal momento che non integra un’ipotesi di forza maggiore né un fatto indipendente dalla volontà dell’amministratore o dalla sua sfera di controllo nella gestione societaria. 

Non costituisce atto illecito il fatto che l’amministratore abbia avviato per conto della società un rapporto di lavoro con il proprio figlio, dal momento che la questione attiene a una scelta di opportunità imprenditoriale, come tale non sindacabile. Né è sindacabile la congruità della retribuzione riconosciuta dalla società al lavoratore rispetto alle mansioni svolte, essendo la questione rimessa in via esclusiva all’esercizio dell’autonomia privata e non sussistendo un parametro oggettivo alla luce del quale effettuare un valido raffronto, talché́ risulterebbe comunque impossibile predicare se sia eccessiva la retribuzione accordata a un lavoratore o insufficiente invece quella riconosciuta ad altro lavoratore con mansioni eventualmente equipollenti e trattamento economico deteriore. 

In tema di azione revocatoria del fondo patrimoniale, il termine di prescrizione quinquennale decorre non dalla data della stipula dell’atto dispositivo, ma da quella della sua trascrizione nei pubblici registri (conf. Cass. 24/03/2016, n. 5889).

Principi espressi dal Tribunale che, in accoglimento dell’azione, proposta nei confronti di un ex amministratore di s.r.l., ha condannato lo stesso, ex art. 2476 c.c., al risarcimento dei danni cagionati da atti di mala gestio, tra i quali la vendita di beni sociali (nella specie brevetti) a prezzo vile e l’omesso versamento dei tributi dovuti.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Ordinanza del 4 ottobre 2018 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

Dal punto di vista metodologico, l’esame comparativo tra segni distintivi asseritamente identici o similari deve essere condotto non già mediante l’analisi parcellizzata dei singoli elementi di valutazione, ma in via unitaria e sintetica, attraverso un apprezzamento complessivo che tenga conto degli elementi dotati di capacità evocativa.

Ai fini della valutazione della confondibilità fra segni in conflitto il normale grado di percezione delle persone alle quali il prodotto è destinato deve essere parametrato allo specifico settore merceologico nel quale le imprese operano, ben potendosi ritenere quale consumatore medio di riferimento un consumatore qualificato, la cui diligenza e avvedutezza siano tali da ritenere che non si presenti in concreto un rischio di confusione o di associazione tra i rispettivi segni. 

Principi espressi dal Tribunale che, in accoglimento del reclamo, ha revocato l’ordinanza con la quale era stato inibito l’utilizzo di segni per presunta contraffazione di marchi comunitari (oggi marchi dell’Unione europea) registrati. 

In particolare è stato affermato che, pur potendosi ravvisare somiglianze non marginali tra i rispettivi segni, sia sotto il profilo grafico, che fonetico, simili analogie non investono la portata evocativa complessiva dei rispettivi segni, attenendo esse a profili funzionali ancillari privi di originalità e distintività. Il collegio ha precisato che ad una valutazione globale, ipoteticamente condotta dal consumatore medio sulla scorta della percezione visiva, i grafemi risultavano tra loro eterogenei e a livello semantico i claims dei segni veicolavano concetti differenti, in quanto il primo,sarebbe stato volto ad esprimere un messaggio di tipo esortativo, tipo slogan, mentre il secondo si sarebbe limitato a richiamare alla mente del pubblico il profilo della provenienza “creativa” del prodotto. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza dell’11 dicembre 2018, n. 3360 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

La protezione accordata dall’ordinamento ai modelli non registrati ha, ai sensi dell’art. 11 del Regolamento CE n. 6/2002, una durata circoscritta all’arco temporale dei tre anni decorrenti dalla data in cui il disegno o modello è stato divulgato al pubblico per la prima volta. Tale protezione assicura al titolare del modello non registrato il diritto di vietare la commercializzazione di prodotti che riproducano il modello tutelato soltanto qualora l’utilizzazione contestata sia derivata dalla copiatura del modello oggetto di protezione. Ipotesi, questa, che non ricorre qualora si tratti di un’opera creativa realizzata in modo indipendente da un terzo e si possa ragionevolmente ritenere che costui non conoscesse il disegno o modello del titolare.

Non è tutelabile il modello comunitario non registrato che sia privo di carattere individuale. Tale requisito ricorre nel caso in cui, alla stregua di un giudizio sintetico, l’utilizzatore tragga dall’osservazione del modello la fondata sensazione di un’impressione generale diversa da quella suscitata da qualsiasi modello divulgato anteriormente. 

In relazione all’utilizzo di un determinato packaging l’imitazione servile è ipotizzabile qualora un’impresa adotti illecitamente per i propri prodotti confezioni che riprendono gli attributi estetici o le forme delle confezioni dei prodotti di un concorrente, sempre che siano dotati di capacità distintiva, in quanto idonei a ricollegare quel determinato prodotto al suo produttore.

L’appropriazione di pregi ricorre qualora un’impresa, in forme pubblicitarie, attribuisca ai propri prodotti qualità non possedute, ma appartenenti ai prodotti dell’impresa concorrente. Deve trattarsi di qualità intrinseche del prodotto oggettivamente dotate di capacità individualizzante, essendo pregi assolutamente peculiari propri del concorrente e predicati del prodotto; pertanto detti pregi non possono riguardare il packaging, dovendo riguardare piuttosto il suo contenuto, dal momento che in qualsiasi mercato la confezione di una determinata merce non è oggetto di opzione preferenziale autonoma e disgiunta dal suo contenuto, al netto della forza attrattiva dagli espedienti estetici di marketing.

Il conferimento di un premio per la categoria packaging non attesta alcuna capacità individualizzante della confezione sul mercato di riferimento, qualora la premiazione avvenga all’esito di un concorso cui partecipano soltanto gli operatori che si sono iscritti volontariamente ed escluda qualsiasi valutazione comparativa di portata generale tra prodotti del medesimo settore, idonea a individuare capacità individualizzanti da elevare a pregi di un prodotto. 

L’illecita concorrenza per agganciamento parassitario consiste in un indebito “travaso” di notorietà dal soggetto più noto a quello meno noto, circostanza che porta ad escludere sotto il profilo logico la configuarabilità di tale fattispecie nel caso in cui sia ravvisabile un travaso di notorietà anomalo, ossia dal soggetto meno noto a quello più noto. 

Principi espressi in ipotesi di rigetto della domanda di accertamento della violazione dei diritti di su un disegno o modello comunitario non registrato avente ad oggetto il packaging di prodotti alimentari, nonché́ del compimento di illeciti concorrenziali, con conseguenti richieste inibitorie e di risarcimento del danno asseritamente subito. 

Il Tribunale, in particolare, ha ritenuto che il modello comunitario non registrato vantato dalla società attrice fosse privo del requisito del carattere individuale e in ogni caso che la realizzazione del packaging della concorrente fosse un’opera di creazione indipendente, non lesiva dei diritti della prima. 

Il Tribunale ha escluso inoltre la configurabilità dell’imitazione servile delle confezioni dei prodotti dell’attrice in quanto le stesse risultavano essere prive di capacità individualizzante nella misura in cui le caratteristiche estetiche evocate apparivano del tutto standardizzate e prive di distintività. L’idea asseritamente creativa da cui aveva tratto origine il packaging in questione rinveniva infatti il suo nucleo centrale nell’utilizzo di sacchetti da forno comunemente impiegati per contenere il pane per commercializzare tramezzini.

È stata infine esclusa la possibilità di ravvisare nel caso di specie un’ipotesi di appropriazione di pregi o di agganciamento parassitario per l’assenza dei relativi presupposti.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Ordinanza del 12 gennaio 2018 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

Integrano un illecito concorrenziale ex art. 2598 c.c. la produzione e la commercializzazione di macchinari realizzati sfruttando informazioni, disegni e progetti di un concorrente.

La configurazione della fattispecie di concorrenza sleale non appare incompatibile, ai fini della concessione di una misura cautelare, con l’intervenuto fallimento della società asseritamente danneggiata, quando i comportamenti illeciti risultino idonei a frustare la fruttuosità delle aspettative liquidatorie del fallimento.

Principi espressi in ipotesi di parziale accoglimento del reclamo proposto dal curatore di una società dichiarata fallita avverso l’ordinanza che aveva rigettato le istanze cautelari formulate nei confronti del concorrente che aveva a suo dire illegittimamente sfruttato le informazioni segrete relative a progetti e disegni della fallita riguardanti macchinari industriali. Il Tribunale, dopo aver ritenuto dimostrata l’esistenza del fumus boni iuris e di un pregiudizio serio ed irreparabile al diritto riconosciuto alla curatela di monetizzare i beni immateriali della società fallita, ha inibito al resistente di immettere illegittimamente sul mercato macchinari, derivati da progetti, disegni e informazioni della fallita.

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 23 aprile 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice estensore: Dott. Lorenzo Lentini

Intervenuto il fallimento di una delle società partecipanti ad una fusione, legittimato ad esperire l’azione risarcitoria da fusione invalida ex art. 2504-quater, comma 2, c.c. è il curatore fallimentare e non il singolo creditore sociale che lamenta l’incapienza del patrimonio post-fusione in quanto i proventi di una simile azione andrebbero ad indistinto vantaggio della platea di tutti i creditori e non solo di quello altrimenti attore.

Principio espresso nel contesto di un’azione risarcitoria ex art. 2504-quater, comma 2, c.c. esperita da singoli creditori di una società illegittimamente incorporata (perché depositato l’atto di fusione in pendenza di opposizione ex art. 2503 c.c.) in altra società con patrimonio incapiente.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Sentenza del 21 aprile 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

La disciplina applicabile per l’aumento di capitale deliberato da una società cooperativa a responsabilità limitata deve essere ricavata dagli artt. 2481 ss. c.c., norme da coordinare necessariamente con i principi generali della mutualità e dunque, in primo luogo, con il carattere della variabilità del capitale sociale di cui all’art. 2524 c.c. (di per sé confliggente con la necessità di modificare l’atto costitutivo a seguito di aumento). In particolare, l’art. 2524, co. 3, c.c. prescrive, ai fini dell’aumento di capitale, la necessaria adozione di una delibera nelle forme previste dagli artt. 2438 ss. c.c. (artt. 2481 ss. c.c. laddove trovi applicazione la disciplina delle s.r.l.) e quindi di una delibera dell’assemblea dei soci, salva l’ipotesi di delega statutaria agli amministratori, soggetta alle forme e agli adempimenti pubblicitari specificamente previsti per legge.

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo promosso dalla società cooperativa a responsabilità limitata Alfa, in qualità di socio sovventore, nei confronti della società cooperativa a responsabilità limitata Beta.

In particolare, Beta aveva richiesto ed ottenuto il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo avente ad oggetto il pagamento da parte di Alfa della somma a titolo di versamento dell’importo residuo dovuto per l’aumento di capitale sociale di Beta, aumento di capitale che, tuttavia, all’esito del giudizio di opposizione, era risultato non essere mai stato validamente deliberato.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 3 aprile 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

In tema di responsabilità degli amministratori nei confronti della società, l’attribuzione della qualifica di amministratore di fatto richiede un accertamento particolarmente rigoroso, in cui viene in rilievo la sistematica ingerenza di un soggetto, privo della carica formale, in decisioni di competenza dell’organo amministrativo, configurandosi quale amministratore di fatto la persona che benché priva della corrispondente investitura formale, risulta inserita nella gestione della società stessa, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, ove tale ingerenza, lungi dall’esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza (conf., ex multis, Cass. n. 4045/2016).

In particolare, è qualificabile come amministratore di fatto il soggetto che, in assenza di una qualsivoglia investitura da parte dell’assemblea (sia pur irregolare o implicita), si sia ingerito nella gestione di una società in maniera sistematica e completa. La valutazione della sistematicità e della completezza deve essere fatta tenendo in considerazione le attività svolte dal soggetto nell’ambito dei rapporti interni (con i soci e/o gli amministratori) ed esterni (coi clienti e i collaboratori) alla società (conf. Trib. Torino, 05.03.2018). Alla luce di quanto sopra, l’onere di allegazione nella fattispecie deve investire puntualmente le circostanze dalle quali detta qualifica può essere desunta, con particolare riferimento al requisito della sistematicità dell’ingerenza esterna.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una società a responsabilità limitata, posta in liquidazione, nei confronti dell’ex presidente del consiglio di amministrazione e successivamente, in tesi, amministratore di fatto, ai fini dell’accertamento della responsabilità di quest’ultimo, anche in via extracontrattuale, per i danni patiti dalla società in seguito al compimento di atti sociali in conflitto d’interesse.

Al riguardo, la società contestava all’ex presidente del consiglio di amministrazione l’attuazione di “un disegno unitario” volto a spogliare la società attrice dell’azienda, mediante la stipula di un contratto di affitto di azienda, a fronte di un canone irrisorio, in favore di altra società amministrata dallo stesso convenuto. Il predetto contratto, in particolare, veniva stipulato dalla società attrice in data posteriore alla cessazione del convenuto dalla carica di presidente del consiglio di amministrazione e, dunque, in un’epoca in cui il convenuto avrebbe ricoperto la carica di amministratore di fatto.

Il convenuto si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto delle domande attoree e, in subordine, l’accertamento della responsabilità solidale dei soci della società attrice, nonché dell’amministratore succeduto nella carica.

(Massima a cura di Marika Lombardi)