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Sentenza del 30 novembre 2018 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Lorenzo Lentini

Il rimedio della nullità in ambito societario, con particolare riferimento alle impugnative di deliberazioni assembleari aventi un oggetto asseritamente illecito, è volto alla tutela di interessi generali, sicché esso non può trovare applicazione laddove il socio lamenti, in concreto, la violazione di norme poste a tutela dell’interesse del singolo azionista non sussumibili in alcuno dei motivi di nullità tassativamente previsti (conf. Cass. n. 1624/2015 e Cass. n. 26842/2008).

In caso di domanda di annullamento di deliberazioni assembleari da parte del socio di società per azioni quotata, ai fini della dimostrazione della relativa legittimazione, non risulta sufficiente la produzione, da parte di quest’ultimo, di un estratto conto corrente bancario, dovendo il medesimo produrre la necessaria attestazione dell’intermediario abilitato exart. 83-quinquies d.lgs. n. 58/1998.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dal socio di società per azioni ai fini della dichiarazione di nullità delle deliberazioni adottate dell’assemblea speciale degli azionisti di risparmio e dall’assemblea straordinaria degli azionisti ordinari con cui la società aveva disposto la conversione in misura non paritaria di azioni di risparmio in azioni ordinarie.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 27 novembre 2018 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

In tema di storno di dipendenti la concorrenza illecita non può in alcun caso derivare soltanto dalla mera constatazione di un passaggio di collaboratori da un’impresa ad un’altra concorrente, né dalla contrattazione intrattenuta con il collaboratore di un concorrente. Lo storno infatti non costituisce di per sé concorrenza sleale, sempre che non sia stato attuato con l’intenzione di danneggiare l’altrui azienda in misura che ecceda il normale pregiudizio che ad ogni imprenditore può derivare dalla perdita di dipendenti che scelgono di lavorare presso altra impresa. L’illiceità della concorrenza deve essere desunta dall’obiettivo, che l’imprenditore concorrente si proponga attraverso il passaggio di personale, di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista ed a tal fine è necessaria la sussistenza del c.d. “animus nocendi”, nel senso che il reclutamento di personale dipendente dell’imprenditore concorrente si connota di intenzionale slealtà soltanto quando esso venga attuato con modalità abnormi per il numero o la qualità dei prestatori d’opera distolti ed assunti, così da superare i limiti di tollerabilità del reclutamento medesimo che, nella sua normale estrinsecazione, è del tutto lecito. Non basta infatti che l’atto in questione sia diretto a conquistare lo spazio di mercato del concorrente, anche attraverso l’acquisizione dei migliori collaboratori, ma è necessario che sia diretto a privarlo del frutto del “suo” investimento (conf. Cass. n. 5671/1998).

L’indagine sulla sussistenza del requisito dell’animus nocendi va condotta su di un piano puramente oggettivo, potendo esso essere desunto dalle circostanze di fatto nelle quali lo storno è avvenuto, dai mezzi utilizzati e dalle modalità di reclutamento dei dipendenti stornati, valutando altresì effetti potenzialmente “destrutturanti” sull’altrui organizzazione aziendale e la conseguente parassitaria sottrazione di avviamento,  Lo storno è illecito, dunque, soltanto ove risulti provato che l’assunzione del dipendente altrui sia motivata esclusivamente dal fine di danneggiare l’altrui azienda e non anche quando il concorrente tenda ad ottenere per sé la prestazione di lavoro dell’altrui dipendente, il che sarebbe lecito nel rispetto del principio della libera circolazione del lavoro (conf. Trib. Milano 01.02.2016 e Trib. Torino 05.01.2006).    

In tema di concorrenza sleale, la pratica di prezzi sottocosto non può considerarsi di per sé connotata da profili di illiceità, ben potendo inerire a una temporanea e razionale politica di aggressione del mercato, e ciò in quanto la libera concorrenza poggia proprio su iniziative quali l’avvicinamento di clienti altrui e la formulazione di proposte migliorative, anche se molto competitive.

Deve ritenersi esclusa la possibilità di riconoscere la responsabilità contrattuale da inadempimento derivante dalla violazione del patto di non concorrenza in capo all’impresa presso cui il soggetto (vincolato dal patto) abbia iniziato a prestare la propria opera lavorativa (asseritamente in violazione del predetto patto di non concorrenza), non essendo la medesima parte del contratto.

L’assenza di elementi di antigiuridicità delle condotte asseritamente concorrenziali esclude la possibilità di accoglimento della domanda di risarcimento del danno all’immagine o alla reputazione formulate dal preteso danneggiato. 

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una società per azioni nei confronti della concorrente, nonché nei confronti dell’ex dipendente, al fine di ottenere il ristoro: (i) del danno commerciale correlato alla diminuzione del fatturato; (ii) del danno da inadempimento contrattuale con riferimento alla violazione del patto di non concorrenza (concluso con l’ex dipendente) da parte della società convenuta; (iii) del danno al nome, all’immagine e alla reputazione commerciale.

Al riguardo, l’attrice deduceva atti di concorrenza sleale da parte della società convenuta e segnatamente: (i) la presa di contatti con un proprio cliente “storico” e la proposta di vendita di prodotti concorrenti ad un prezzo inferiore, sfruttando informazioni in possesso dell’ex dipendente (quali, il listino prezzi); (ii) la presa di contatti con propri ex agenti e l’offerta di prodotti concorrenti ad un prezzo inferiore; (iii) la presa di contatti con un proprio agente e la proposta di avvio di un rapporto di collaborazione; (iv) la presa di contatti con propri fornitori per l’acquisto di prodotti già commercializzati dalla stessa attrice.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 27 novembre 2018 – Presidente: dott. Raffaele del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Angelica Castellani

Nell’ipotesi in cui sia domandato il sequestro giudiziario della quota di una s.r.l. (nel caso concreto il 50% di essa) nel corso di una causa volta all’accertamento della nullità o dell’inefficacia della sua cessione, in quanto avvenuta in violazione della clausola statutaria di prelazione, con conseguente domanda di trasferimento della quota stessa ex art. 2932 c.c., non può ritenersi esistente il requisito del fumus boni iuris. La violazione da parte del socio di una s.r.l. della clausola statutaria che contempli il diritto di prelazione degli altri soci per le ipotesi di cessione, totale o parziale, della quota non comporta la nullità del trasferimento avvenuto in violazione di tale patto e nemmeno il diritto del socio pretermesso di riscattare presso il cessionario la quota oggetto di trasferimento. Tale violazione genera, infatti, l’inefficacia della cessione, dalla quale non discende il diritto di riscatto, essendo quest’ultimo un rimedio eccezionale, non suscettibile di applicazione oltre i casi espressamente previsti dalla legge e non estendibile alla prelazione societaria avente natura convenzionale e non legale (conf. Cass. n. 24559/2015 e n. 12370/2014). In tal caso, gli unici rimedi ammissibili sono la tutela risarcitoria, che può essere accordata al socio pretermesso secondo le regole generali in materia di inadempimento delle obbligazioni, e la facoltà della società partecipata di negare all’acquirente l’iscrizione nel libro soci, posto che l’osservanza del meccanismo della prelazione costituisce condizione per l’efficace acquisto della qualità di socio.

Principi espressi in accoglimento del reclamo avverso l’ordinanza cautelare che in corso di causa aveva concesso il sequestro giudiziario della metà di una quota di s.r.l. oggetto di controversia a seguito di cessione avvenuta in violazione del diritto di prelazione previsto dallo statuto sociale.

Ord. 27.11.2018

(Massima a cura di Sara Pietra Rossi)