1

Sentenza del 27 giugno 2018 – Presidente: Dott. Giuseppe Magnoli – Consigliere relatore: Dott.ssa Vittoria Gabriele

L’annotazione in conto di una posta di interessi illegittimamente
addebitati dalla banca al correntista comporta un incremento del debito  di quest’ultimo, o una riduzione del credito
di cui egli ancora dispone, ma in nessun modo si risolve in un pagamento, nel
senso che non vi corrisponde alcuna attività solutoria nei termini sopra
indicati in favore della banca; con la conseguenza che il correntista potrà
agire per far dichiarare la nullità del titolo su cui quell’addebito si basa,
ma non potrà agire per la ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, da
parte sua non ha ancora avuto luogo. Di pagamento, nella descritta situazione,
potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di
credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la
restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi
interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente
all’atto della chiusura del conto (in termini Cass. n. 798/2013 e
Cass., S.U., n. 2448/2010).

Pertanto, a conto aperto, ovvero in presenza di un
saldo negativo di conto corrente chiuso, la pretesa restitutoria del
correntista può trovare accoglimento soltanto ove lo stesso indichi di quali rimesse chiede la restituzione ed
in relazione a quali presupposti alle stesse dovrebbe essere attribuita natura
solutoria e non ripristinatoria, in relazione ad un conto corrente su cui è
incontestato abbiano operato delle aperture di credito.

La decisione è stata resa a seguito del giudizio di appello promosso
da una società in nome collettivo avverso la sentenza del Tribunale che aveva
rigettato la domanda volta a far dichiarare l’illegittimità delle poste passive
a favore dell’istituto di credito, nonché l’usurarietà del tasso di interesse,
con conseguente condanna dell’istituto medesimo alla restituzione delle somme
indebitamente addebitate o riscosse.

(Massima a cura di Lorena Fanelli)




Sentenze del 22 marzo 2018, n. 906 e 21 giugno 2018 – Giudice estensore: dott. Luciano Ambrosoli

È lecita la clausola contrattuale del contratto di leasing che determina l’interesse di mora per rinvio all’art. 5, primo comma, del d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 (che risulta in fatto superflua, in quanto il medesimo tasso troverebbe applicazione anche in mancanza di pattuizione), giacché in nessun caso può reputarsi illecito, per contrarietà alla disciplina in materia di usura o per altra causa, il tasso di interesse fissato in base ai parametri applicabili per legge.

Peraltro, la stessa previsione normativa, ai sensi del d.lgs. n. 231/2002 e del novellato art. 1248 c.c., di criteri di fissazione del tasso di mora che ben possono determinare il superamento della soglia usuraria corrobora l’opinione della generale estraneità dei tassi di mora alla disciplina in materia di usura, dettata esclusivamente per corrispettivi e remunerazioni in genere del finanziamento.

Conformemente a logica e a lettera dell’art. 1815 c.c., l’eventuale nullità della clausola relativa all’interesse di mora non può estendersi all’autonoma e lecita previsione relativa all’interesse corrispettivo, posta la diversa natura degli interessi corrispettivi e di quelli moratori e l’autonomia delle pattuizioni contrattuali relative agli uni e agli altri.

Deve ritenersi infondata in diritto la contestazione di usura sopravvenuta.

(Conforme a Cass. Sez. Unite 19 ottobre 2017, n. 24675).

Il piano di ammortamento costante, c.d. alla francese, previsto nel contratto di leasing, non importa né indeterminatezza del tasso né automatica e surrettizia capitalizzazione di interessi e non è perciò tout court in contrasto con il divieto di anatocismo né con i doveri di trasparenza, trattandosi in fatto di un meccanismo che prevede rate composte da una quota di capitale ed una quota di interessi calcolata sul capitale residuo in modo che, nel progredire dell’ammortamento, la quota capitale cresce progressivamente mentre quella per interessi (calcolata solo sul capitale residuo e non sugli interessi già scaduti) è via via decrescente.

(Conforme a Cass. 22 maggio 2014, n. 11400).

La mancata menzione del TAEG e dell’ISC non determina, in sé, la nullità del contratto di leasing, in quanto, secondo le prescrizioni della Banca d’Italia adottate in attuazione dell’art. 117, ottavo comma, d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, detti indicatori non rientrano nel contenuto tipico determinato di tale contratto.

Il criterio dell’indicizzazione compiutamente disciplinato nel documento sottoscritto dalle parti e allegato al contratto di leasing fondato sulle variazioni di un parametro oggettivo (quale, esemplarmente, il tasso Euribor come rilevato e pubblicato su Il Sole 24 Ore) rispetto ad un incide base di riferimento consensualmente definito in una percentuale determinata alla data della stipulazione non importa potestà unilaterale e discrezionale di modifica delle condizioni contrattuali da parte del concedente, risultando dunque conforme alla previsione dell’art. 118 d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385.

Principi espressi in ipotesi di rigetto della domanda di accertamento dell’illiceità delle condizioni contrattuali praticate da una società di leasing, e di conseguente ripetizione degli importi indebitamente versati, a fronte dell’asserita usurarietà dei tassi di mora dalla stessa praticati in quanto superiori al tasso di soglia usurario determinato all’epoca della stipulazione del contratto, nonché dell’asserita illegittima previsione di piano di ammortamento c.d. alla francese.

Sent. 22.3.2018, n. 906

Sent. 21.6.2018

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 19 giugno 2018 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

Il diritto del socio di cui all’art. 2476, 2° co., c.c. incontra come unico limite il rispetto del principio di buona fede e correttezza nel rapporto sociale, sicché difficoltà di tipo economico o organizzativo della società non possono essere di ostacolo al suo concreto esercizio (conforme a Trib. Roma 15.1.2015).

La tutela della riservatezza dei dati aziendali, in caso di esercizio da parte del socio del diritto di controllo di cui all’art. 2476, 2° co., c.c., funge da “compasso” per la concreta individuazione dei confini oggettivi di tale diritto,  specie  qualora emergano elementi sintomatici di una potenziale fattispecie di concorrenza sleale a danno della società. In tali situazioni, il giudice è tenuto ad adottare una soluzione interpretativa idonea a mitigare il rischio dell’eventuale adozione da parte del socio di comportamenti abusivi e potenzialmente lesivi dell’interesse sociale, che si traduce in una sensibile limitazione dell’ambito oggettivo del diritto di controllo (conforme a Trib. Milano, 8.5.2014). In quest’ottica la società può essere autorizzata a non rivelare i segreti commerciali ex artt. 98 e 99 c.p.i. e le informazioni idonee a conferirle un vantaggio competitivo nei confronti di imprese concorrenti, purché la stessa motivi in modo puntuale le ragioni della natura riservata dell’informazione omessa.

Principi espressi in ipotesi di accoglimento del ricorso promosso ex art. 669-duodecies c.p.c. con il quale era stata domandata la determinazione delle modalità di attuazione all’ordinanza, pronunciata ex artt. 700 c.p.c. e 2476 c.c., che aveva ordinato ad una s.r.l. di consentire ad un socio di minoranza la consultazione, anche per mezzo di un professionista di fiducia, di alcuni libri sociali e documenti relativi all’amministrazione sociale (più precisamente, libro soci, libro delle adunanze e delle deliberazioni dell’assemblea e del consiglio di amministrazione, nonché registri IVA, dichiarazioni fiscali, fatture emesse e fatture di acquisto del 2017, disponendo per questi ultimi che fossero “oscurati” i nominativi dei clienti e dei fornitori nonché l’oggetto dei beni in essi indicati, “qualora inerenti alla produzione”).

Nel caso di specie, il ricorrente lamentava il ritardo con il quale la società aveva messo a disposizione la documentazione oggetto di esibizione; la decisione della stessa di impedirle l’accesso alla sede sociale per la consultazione di detta documentazione, avendo ritenuto sufficiente la sua trasmissione via p.e.c., e l’adozione di misure restrittive reputate eccessive, posto che le numerose parti oscurate dei documenti esibiti non avrebbero consentito di esercitare le sue prerogative sociali.

Ord. 19.6.2018

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Ordinanza del 15 giugno 2018 – Giudice designato: dott. Raffaele Del Porto

L’art. 2476, primo comma, c.c. contiene una definizione dei presupposti e limiti della responsabilità, che pone sull’amministratore l’onere probatorio dell’assenza di colpa nella determinazione dell’atto e del conseguente pregiudizio patrimoniale, senza possibilità di un generico richiamo all’assenza di deleghe operative.

In sede cautelare, la quantificazione del danno imputabile alla mala gestio degli amministratori risente della natura sommaria della cognizione che le è propria, sicché deve ritenersi idoneo, a tali fini, l’approssimativo riferimento all’incremento del deficit patrimoniale conseguente all’indebita prosecuzione dell’attività in costanza di perdita del capitale sociale.

Il breve periodo di permanenza nella carica, la preclusione al ricorso allo strumento di cui all’art. 2409 c.c., nonché di quello di cui all’art. 2485, secondo comma, c.c. (non essendo ancora emersa, alla data di cessazione dalla carica, la perdita del capitale sociale), valgono ad escludere la sussistenza del requisito del fumus boni iuris ai fini della concessione della misura cautelare del sequestro conservativo ai danni del sindaco della s.r.l. poi fallita, a fronte dell’accertamento della responsabilità risarcitoria di cui all’art. 2476 c.c.

Non sussiste reale incompatibilità tra l’intervenuta ammissione al passivo del credito del sindaco per il proprio compenso con l’accertamento del credito risarcitorio vantato dalla curatela nei confronti del medesimo sindaco per l’omesso, adeguato controllo sulla gestione della società (nel difetto di identità del “bene della vita” oggetto delle pronunce).

Ai fini della concessione della misura cautelare del sequestro conservativo, la quantificazione dei danni addebitabili ai sindaci di s.r.l. poi fallita per l’indebita prosecuzione dell’attività sociale può essere equitativamente determinata tenendo conto della tempistica di un ipotetico intervento (tempestivo ed appropriato).

Ai fini della concessione della misura cautelare del sequestro conservativo, l’esistenza di polizze assicurative stipulate dai sindaci non vale ad escludere, in punto di diritto, la sussistenza del periculum in mora, in quanto la sussistenza di tale presupposto deve essere valutata con esclusivo riferimento al complesso degli elementi, di natura soggettiva e oggettiva, relativi a ciascun soggetto responsabile.

Principi espressi in ipotesi di parziale accoglimento della domanda cautelare di sequestro conservativo formulata dal curatore di una s.r.l. ai danni degli amministratori e dei sindaci della società poi fallita a fronte dell’accertamento della responsabilità risarcitoria dei medesimi in conseguenza di atti di natura distrattiva.

Ord. 15.6.2018

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 13 giugno 2018, n. 1786 – Giudice estensore: dott. Lorenzo Lentini

Il potere del giudice di riqualificazione di un contratto, a dispetto del nomen apparente, non può essere esercitato con modalità indifferenti al concreto dispiegarsi delle dinamiche operanti nei mercati in cui tale contratto si inscrive, dovendosi richiedere oneri di allegazione “rafforzati” in capo alla parte interessata alla diversa qualificazione del rapporto, laddove si tratti di contratti conclusi nell’ambito di mercati connotati da una forte impronta pubblicistica e da un sostrato regolamentare capillare. L’attribuzione di un determinato nomen non presenta meri risvolti privatistici da ricondurre all’autonomia negoziale, ma è frutto di valutazioni tecnico-specialistiche “qualificate”, in quanto effettuate da soggetti professionali, alla luce delle norme imperative applicabili e sotto le rispettive autorità di vigilanza.

Rientrano nella nozione di contratto assicurativo, essendo pertanto impignorabili, a norma, rispettivamente, dell’art. 11, decimo comma, d.lgs. 252/2005 e dell’art. 1923 c.c., i crediti derivanti da prodotti di previdenza complementare di tipo individuale connotati da un termine di “nascita” del diritto alla prestazione coincidente con la maturazione dei requisiti per l’ottenimento della pensione obbligatoria e da limitate facoltà di riscatto parziale anticipato (laddove sia incontestato che il piano verta ancora nella fase di accumulo e l’assicurato non abbia maturato il diritto pensione obbligatoria), nonché i prodotti assicurativi sulla vita c.d. “multiramo” (nel caso di specie afferenti al Ramo III, Ramo I e a quello c.d. “di puro rischio”) laddove la componente mista finanziario-assicurativa (Ramo III) costituisca soltanto uno dei profili che connotano la polizza, non potendosi revocare in dubbio la piena riconducibilità al genus di investimento con finalità assicurativa delle componenti di Ramo I e “di puro rischio”.

Principi espressi in ipotesi di accoglimento dell’opposizione proposta dal debitore a fronte del pignoramento dei crediti dallo stesso vantati nei confronti della compagnia assicurativa quali prestazioni discendenti da polizze assicurative sulla vita, nonché prestazioni pensionistiche erogate da forme di previdenza complementare.

Sent. 13.6.2018, n. 1786

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 6 giugno 2018 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Stefano Rosa

In tema di concorrenza sleale, ai fini della concessione dell’inibitoria a seguito di descrizione, se è vero che la domanda cautelare non può poggiare su mere illazioni o spericolate induzioni fattuali, è altresì vero che la logica propria dell’istituto cautelare è quella della prevenzione del danno o del maggior danno, sicché sarebbe incoerente a tale ratio pretendere la compiuta attuazione di un programma di sviamento di clientela quale presupposto della misura.

I principi sono stati espressi nel giudizio di reclamo expromosso da una s.p.a. ed altri soggetti persone fisiche (parte reclamata) nei confronti di due s.r.l. (reclamate), avverso l’ordinanza cautelare che aveva parzialmente accolto le domande cautelari proposte dalle reclamate 

Il Tribunale, in parziale riforma dell’ordinanza impugnata, ha parzialmente accolto il reclamo disponendo la riduzione del periodo di divieto.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 1° giugno 2018 – Presidente: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

È esclusa la natura fondiaria del contratto di mutuo avente causa nell’estinzione delle pregresse esposizioni creditorie della banca, le cui somme non siano, peraltro, mai state effettivamente poste nella disponibilità della parte mutuataria; tale operazione deve, infatti, considerarsi come “distorta”, ossia preordinata semplicemente ad estinguere l’obbligazione pregressa “ripianando, con l’ipoteca, il rischio di credito male apprezzato al momento della sua insorgenza” (conf. Cass. n. 7321/2016).

L’assenza della funzione tipica del contratto di mutuo fondiario non comporta la nullità del negozio indiretto stipulato tra le parti, ma solo l’inapplicabilità ad esso delle norme speciali dettate in materia all’art. 39, comma quarto, t.u.b. e all’art. 67, ultimo comma, l. fall., che prevedono il consolidamento dell’ipoteca fondiaria decorso il termine di dieci giorni dall’iscrizione (conf. Cass. n. 9482/2013).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione ex art. 98 l. fall. promosso dal creditore, nel caso di specie, una banca, avverso il decreto di esecutività dello stato passivo che aveva disposto l’ammissione del credito integralmente al chirografo.

L’opponente, in particolare, chiedeva il riconoscimento del privilegio ipotecario per il credito avente titolo nel contratto di mutuo fondiario garantito da ipoteca stipulato a copertura, e per il rientro, dell’esposizione debitoria chirografaria della società, poi fallita, derivante da scoperto di conto corrente.

Sul punto il Tribunale, esclusa la natura giuridica di mutuo fondiario del contratto dedotto in giudizio, ha rigettato l’opposizione, confermando l’ammissione del credito in via meramente chirografaria.

(Massima a cura di Marika Lombardi)